Tratto da “La
bestia è qui” di Giuseppe Catozzella, pubblicato sul settimanale L’Espresso
del 16 di dicembre 2018: (…). La Storia trascorre, e si ripropone oggi in
un “eterno ritorno”. L’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti
umani dell’Osce, così come la commissione parlamentare “Jo Cox”, parlano di un
aumento impressionante di reati di violenza a sfondo di odio razziale negli
ultimi mesi, in Italia. Solo da giugno a ottobre sono una settantina (omicidi,
accoltellamenti, sprangate, investimenti). A ben vedere, le basi materiali sono
molto simili a quelle degli anni Venti. L’omicidio del nigeriano Emmanuel Chidi
Namdi, a Fermo; il neonazista Luca Traini che leggeva il Mein Kampf che a
Macerata spara trenta colpi contro sei stranieri; l’uccisione a Firenze del
senegalese Idy Diane; quella del maliano Soumaila Sacko, in Calabria. Ma cos’è
il razzismo, sulla cui base animale e biologica si commettono questi crimini?
Si può prendere per buona la definizione che ne dà lo storico Fredrickson in
“Breve storia del razzismo” (Donzelli, 2002): «Quando differenze che potrebbero
essere considerate etnoculturali vengono invece considerate innate, indelebili
e immutabili». Una tara innata, animale, biologica. «Andiamo a picchiare i
neri», (Pomigliano). «’A negri qua non ce potete sta’, se non ve n’annate so’
affari vostra», (Tarquinia). «Non mi faccio visitare da un negro», (Cantù).
«Gas per i negri», (Isola del Gran Sasso). «Non possiamo smettere finché voi
negri siete qui», (Pavia). «Sporco negro, odio i negri», (Riccione). Sono tutte
frasi pronunciate nel giro di un pugno di giorni dopo la famosa dichiarazione
di Attilio Fontana, attuale Governatore della Lombardia: «Dobbiamo decidere se
la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve
continuare a esistere o se deve essere cancellata». Come nel secolo scorso,
quello che sta accadendo è un involgarimento del dibattito pubblico e uno
scivolamento progressivo dalla banalizzazione alla normalizzazione, fino alla
rivendicazione delle violenze razziste. (…). Ma questo discorso pubblico
inneggiante alla razza e all’odio, proprio come negli anni Trenta sta giustificando
un comportamento violento privato, animale. Stanno tornando a circolare
liberamente molte parole dell’ideologia razzista e deumanizzante che ha
permesso il fascismo e il colonialismo, così come sembra riaffacciarsi una
concezione della donna e della famiglia di stampo regressivo (per esempio, la
mozione anti-aborto approvata a Verona, che fa tornare in mente le “culle
vuote” del Ventennio). La dichiarazione del governo di differenziare gli orari
di apertura degli esercizi commerciali “etnici” da quelli italiani. Il caso
della mensa scolastica di Lecco, dove i bambini stranieri sono stati divisi
dagli italiani. Il caso del comune milanese di Cinisello, dove la giunta ha
chiesto il bollo della censura per ogni libro proposto nei progetti di lettura
municipali. Lo stesso Ius sanguinis, che àncora la cittadinanza al “sangue” e
non al luogo di nascita. La demonizzazione dello straniero come portatore di
malattie (ideologia alla base del sequestro della nave Aquarius, mutuata dalla
campagna fascista per la conquista dell’Etiopia). Che cosa sta succedendo a noi
italiani? Non eravamo mica “italiani brava gente”, come ha detto in
un’intervista poi strumentalizzata l’attrice polacca Kasia Smutniak («il
razzismo non è nel dna degli italiani»)? I numerosissimi episodi di violenza su
stranieri però dicono il contrario. Di sicuro ci sta accadendo di essere
vittime di un rimosso collettivo. Era la mattina del 18 settembre del 1938
quando Benito Mussolini, annunciava le leggi razziali. Sotto, in «un solo
palpito di attesa e di amore», 150 mila persone esultavano, affollando piazza
dell’Unità di Trieste in camicia nera e fez. Mussolini disse che occorreva «una
chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze,
ma delle superiorità nettissime».
Poi tuonò contro chi credesse che quella non era farina del sacco italiano che «coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito a imitazioni o peggio a suggestioni sono dei poveri deficienti». E a ragione, perché era stata proprio l’Italia a inventare l’apartheid tra “sudditi” e “cittadini” nelle sue colonie. Prima al mondo, come prima anche nel parlare di “razza” italiana (parola che serviva a Mussolini per costruire un nazionalismo tutto ancora da creare, che doveva passare dal sanare il razzismo tra il Nord e il Sud, tra “nordici” e “sudici”, come si usava dire, e veniva scritto offensivamente anche negli atti parlamentari). (…).
Poi tuonò contro chi credesse che quella non era farina del sacco italiano che «coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito a imitazioni o peggio a suggestioni sono dei poveri deficienti». E a ragione, perché era stata proprio l’Italia a inventare l’apartheid tra “sudditi” e “cittadini” nelle sue colonie. Prima al mondo, come prima anche nel parlare di “razza” italiana (parola che serviva a Mussolini per costruire un nazionalismo tutto ancora da creare, che doveva passare dal sanare il razzismo tra il Nord e il Sud, tra “nordici” e “sudici”, come si usava dire, e veniva scritto offensivamente anche negli atti parlamentari). (…).
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