Tratto da “Il
presepio è il Baobab di Roma e Salvini è un bestemmiatore” di Tomaso Montanari,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 24 di dicembre 2018: (…). Ebbene,
sia come cittadino di uno stato laico sia come cristiano credente e praticante
credo sia un errore grave. Naturalmente nella propria casa ognuno si comporterà
come crede, e molti non credenti sceglieranno magari di farlo, il presepe: per
celebrare la propria umanità attraverso un segno carico di significati connessi
alla storia familiare e all’infanzia, (…). Ma gli spazi pubblici, le parole e i
gesti dei responsabili delle istituzioni e soprattutto le scuole (le scuole,
dove si diventa cittadini della Repubblica) sono un’altra cosa: dove di sacro
c’è la laicità dello Stato, delle sue sedi, dei suoi rappresentanti. L’ultima
discussione dell’assemblea Costituente (sotto Natale: il 22 dicembre 1947)
riguardò l’opportunità di menzionare Dio nella Costituzione. Ma nemmeno il
cattolicissimo Giorgio La Pira, che aveva avanzato quella proposta e poi la
ritirò con encomiabile senso dello Stato, pensava a una formula cristiana:
«L’importante è di non fare una specifica affermazione di fede, come è nella
Costituzione irlandese: “In nome della Santissima Trinità”», disse.
Oggi non solo il discorso pubblico è lontano anni luce da quella grazia, ma il presepe e il crocifisso vengono branditi come simboli identitari – simboli “italiani”, che dunque devono venire “prima” – da seminatori di paura e d’odio. Matteo Salvini pochi giorni fa ha dichiarato: «Chi tiene Gesù Bambino fuori della porta della classe, non è un educatore». Ecco il punto: il ricatto politico, la strumentalizzazione bieca, il ribaltamento di ogni più elementare evidenza. Come si fa a educare mancando di rispetto ai bambini che si vorrebbero educare? Qualche anno fa, un meraviglioso ristoratore fiorentino fece rimuovere i suoi mirabili prosciutti dal soffitto dalla stanza in cui un suo amico ebreo avrebbe festeggiato la laurea: senza che nessuno glielo chiedesse, come atto di accoglienza, rispetto e amore verso chi considera il maiale un animale impuro. Sono gli stessi altissimi moventi che dovrebbero indurci a togliere ogni simbolo religioso dai luoghi che appartengono anche agli italiani non cristiani: che non sono ospiti, ma padroni di casa quanto lo sono i cristiani. Fin qua gli elementari rudimenti di una laicità che non abbiamo mai imparato a praticare e ad amare. Ma per un cristiano c’è dell’altro. Quando don Lorenzo Milani toglieva il crocifisso dall’aula in cui faceva lezione, spiegava: «Se uno mi vede eliminare un crocifisso non mi darà dell’eretico, ma si porrà piuttosto la domanda affettuosa del come questo atto debba essere cattolicissimamente interpretato perché da un cattolico è posto» (1953). Quando il Consiglio di Stato francese ha detto che l’esposizione del presepe in luoghi civici non lede la laicità dello Stato (2016), l’ha motivato constatando che non si tratta di un simbolo religioso, ma di un puro arredo tradizionale. Parole che ricordando quelle con cui la Conferenza episcopale italiana difese a spada tratta l’esposizione nelle aule del crocifisso, definito dai vescovi: «non solo simbolo religioso, ma anche segno culturale» e «parte del patrimonio storico del popolo italiano». Davvero il Dio fattosi carne, debolezza e povertà per vivere e morire con gli uomini si può ridurre a un segno culturale e identitario, tra il made in Italy e la pizza? E come si può degradare la scandalosa follia d’amore universale della Croce a valori come la cultura, la storia e l’identità di un singolo popolo? Francesco inventa il presepe a Greccio, nella notte di Natale del 1223: e, come ha argomentato Chiara Frugoni, la creazione di una nuova Betlemme in Italia equivaleva a una presa di distanza dalle crociate per “liberare” la vera Betlemme. Il presepe nasce come un programma di pace, apertura e amore che nega alla radice l’idea che un’identità religiosa possa essere usata per definire un “noi” contro gli “altri”. Salvini che brandisce il presepe come strumento di odio è, letteralmente, una bestemmia. Un italiano che creda al Vangelo e nella Costituzione non può che far sue le parole del Baobab di Roma, luogo di accoglienza per migranti che vagano in cerca di un albergo proprio come la Sacra Famiglia nella notte di Betlemme. Un luogo simbolo che Salvini ha perseguitato, sgomberato, attaccato in ogni modo. Pochi giorni fa, Baobab ha raccontato l’incontro con cinque migranti: «due donne in attesa, una al sesto mese. Avvolti nelle coperte che siamo riusciti a recuperare, riescono a raccontarci qualcosa della loro vita. Sul pavimento freddo, ghiacciato della stazione Tiburtina queste cinque anime hanno voluto raccontarci, felici, che ce l’hanno fatta». E hanno aggiunto: «Noi non facciamo il Presepe, noi siamo il presepe».
Oggi non solo il discorso pubblico è lontano anni luce da quella grazia, ma il presepe e il crocifisso vengono branditi come simboli identitari – simboli “italiani”, che dunque devono venire “prima” – da seminatori di paura e d’odio. Matteo Salvini pochi giorni fa ha dichiarato: «Chi tiene Gesù Bambino fuori della porta della classe, non è un educatore». Ecco il punto: il ricatto politico, la strumentalizzazione bieca, il ribaltamento di ogni più elementare evidenza. Come si fa a educare mancando di rispetto ai bambini che si vorrebbero educare? Qualche anno fa, un meraviglioso ristoratore fiorentino fece rimuovere i suoi mirabili prosciutti dal soffitto dalla stanza in cui un suo amico ebreo avrebbe festeggiato la laurea: senza che nessuno glielo chiedesse, come atto di accoglienza, rispetto e amore verso chi considera il maiale un animale impuro. Sono gli stessi altissimi moventi che dovrebbero indurci a togliere ogni simbolo religioso dai luoghi che appartengono anche agli italiani non cristiani: che non sono ospiti, ma padroni di casa quanto lo sono i cristiani. Fin qua gli elementari rudimenti di una laicità che non abbiamo mai imparato a praticare e ad amare. Ma per un cristiano c’è dell’altro. Quando don Lorenzo Milani toglieva il crocifisso dall’aula in cui faceva lezione, spiegava: «Se uno mi vede eliminare un crocifisso non mi darà dell’eretico, ma si porrà piuttosto la domanda affettuosa del come questo atto debba essere cattolicissimamente interpretato perché da un cattolico è posto» (1953). Quando il Consiglio di Stato francese ha detto che l’esposizione del presepe in luoghi civici non lede la laicità dello Stato (2016), l’ha motivato constatando che non si tratta di un simbolo religioso, ma di un puro arredo tradizionale. Parole che ricordando quelle con cui la Conferenza episcopale italiana difese a spada tratta l’esposizione nelle aule del crocifisso, definito dai vescovi: «non solo simbolo religioso, ma anche segno culturale» e «parte del patrimonio storico del popolo italiano». Davvero il Dio fattosi carne, debolezza e povertà per vivere e morire con gli uomini si può ridurre a un segno culturale e identitario, tra il made in Italy e la pizza? E come si può degradare la scandalosa follia d’amore universale della Croce a valori come la cultura, la storia e l’identità di un singolo popolo? Francesco inventa il presepe a Greccio, nella notte di Natale del 1223: e, come ha argomentato Chiara Frugoni, la creazione di una nuova Betlemme in Italia equivaleva a una presa di distanza dalle crociate per “liberare” la vera Betlemme. Il presepe nasce come un programma di pace, apertura e amore che nega alla radice l’idea che un’identità religiosa possa essere usata per definire un “noi” contro gli “altri”. Salvini che brandisce il presepe come strumento di odio è, letteralmente, una bestemmia. Un italiano che creda al Vangelo e nella Costituzione non può che far sue le parole del Baobab di Roma, luogo di accoglienza per migranti che vagano in cerca di un albergo proprio come la Sacra Famiglia nella notte di Betlemme. Un luogo simbolo che Salvini ha perseguitato, sgomberato, attaccato in ogni modo. Pochi giorni fa, Baobab ha raccontato l’incontro con cinque migranti: «due donne in attesa, una al sesto mese. Avvolti nelle coperte che siamo riusciti a recuperare, riescono a raccontarci qualcosa della loro vita. Sul pavimento freddo, ghiacciato della stazione Tiburtina queste cinque anime hanno voluto raccontarci, felici, che ce l’hanno fatta». E hanno aggiunto: «Noi non facciamo il Presepe, noi siamo il presepe».
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