Tratto da “Quando
l’Italia era un rifugio”, intervista di Mario Calabresi a Nanni Moretti
pubblicata sul settimanale il Venerdì del 30 di novembre 2018: (…).
"Tutto è cominciato nella primavera dell'anno scorso, ero a Santiago per
una conferenza e l'ambasciatore italiano mi ha raccontato dei due giovani
diplomatici che decisero di accogliere i dissidenti politici. Ho scoperto una
bella storia italiana di accoglienza e di coraggio, un esempio di come le
singole persone possano fare la differenza. Era una storia dei miei vent'anni,
allora ho ripensato all'importanza che aveva avuto in quel tempo l'esperienza
cilena, la figura del presidente Allende e poi lo sconvolgimento del golpe.
Così mi sono messo a lavorare, quaranta ore di interviste, non solo per parlare
del Cile ma anche dell'Italia di allora, del Paese che più li aiutò".
Perché parlare del golpe in Cile oggi?
"Mentre giravo me lo chiedevano spesso e non sapevo bene cosa rispondere.
Poi, finite le riprese, è diventato ministro dell'Interno Matteo Salvini e
allora ho capito perché avevo girato quel film. L'ho capito a posteriori".
Ci sono le testimonianze commosse di come i cileni venivano accolti con generosità, del lavoro nei campi in Emilia, in fabbrica a Milano, dei corsi di italiano, delle serate di musica andina per curare la nostalgia. Decisamente un'altra Italia. "Molti associano gli anni Settanta solo con il terrorismo, li si chiude nella definizione "Anni di Piombo", ma è un errore perché non sono stati solo questo ma tante altre cose. Devo dire che quei racconti mi hanno stupito, ho provato un raro momento di orgoglio nazionale. Al montaggio mi sono reso conto che, senza che lo avessi programmato, il film comincia parlando del Cile di allora e finisce parlando, involontariamente ma non casualmente, dell'Italia di oggi".
E tu cosa facevi allora? "Avevo appena
compiuto vent'anni, andavo alle manifestazioni di solidarietà con il popolo
cileno, con un po' di disincanto ma le ho fatte tutte".
Perché con disincanto? "Ero già un po'
deluso da un'esperienza politica che si era consumata ed era finita l'anno
prima. Negli ultimi anni del liceo ero stato in un gruppo extraparlamentare sì,
ma "moderato"... Era un gruppo trotzkista libertario, meno dogmatico
degli altri, che pubblicava una bella rivista che si chiamava Soviet".
(…).
Comunque il gruppo si era sciolto, la
rivista aveva chiuso e avevi anche lasciato la pallanuoto. "A 17 anni ero
bravissimo, giocavo in serie A ed ero nazionale giovanile, ma ho abbandonato
quando avrei dovuto insistere. Era come se fare politica e attività agonistica
fossero cose incompatibili, nessuno te lo diceva ma questo era quello che
sentivi. Lo sport, la politica, tutto mi sembrava già consumato e allora,
finito il liceo, istintivamente mi sembrò che il cinema fosse il mezzo più
adatto per buttare fuori quelle cose che avevo urgenza di comunicare agli altri
e a me. Quando ci fu il golpe avevo appena finito di girare il mio primo
filmino in Super 8. Si chiamava La sconfitta e raccontava la storia di un
giovane militante extraparlamentare sullo sfondo di un'enorme manifestazione di
metalmeccanici".
Perché per la tua generazione il golpe in
Cile rimane il punto di svolta con cui leggere il mondo e la politica
internazionale? "C'era una simmetria tra i due Paesi: Democrazia
cristiana, Partito socialista, Partito comunista, consigli di fabbrica, sinistra
socialista, sinistra rivoluzionaria (in Cile lo era davvero). Ci fu una
identificazione immediata con la vicenda della sinistra cilena, per questo quel
golpe ci colpì moltissimo. Era la fine di un sogno: la sinistra era andata al
governo per la prima volta con libere elezioni, non con le armi. C'era una
differenza enorme dalle altre esperienze socialiste, era un esperimento allegro
e democratico e si stava cercando una soluzione originale che non fosse vicina
all'esperienza sovietica o cinese, ma nemmeno a quella cubana. Colpisce nelle
testimonianze che ho raccolto, durante le interviste, proprio l'allegria di
quel periodo. Non ho fatto parlare esperti o storici ma persone che hanno
vissuto sulla loro pelle quella vicenda. Persone che c'erano. Nelle loro voci si
percepisce la sofferenza di quei giorni, la paura. Molti si commuovono e non
riescono ad andare avanti nel racconto, dopo tanti anni è una ferita ancora
aperta. E poi c'è il ruolo accertato degli Stati Uniti e di Kissinger nel colpo
di Stato".
Nonostante questo hai scelto di dare voce
anche ai militari. "Ne ho intervistati due che hanno storie molto diverse.
Uno è stato militare tutta la vita e non è stato accusato di nulla, l'altro è
stato invece condannato per omicidio e sequestro di persona e sta scontando la
sua pena. Dicono cose opposte. Quello che sta in carcere dice "abbiamo
obbedito agli ordini", l'altro sostiene che "non ci fu nessun ordine
per le torture da parte della giunta militare" e anzi rivendica il golpe
sostenendo che è servito a "reinstaurare la democrazia". Non volevo
fare un documentario classicamente militante ma volevo dare la parola anche ai
cattivi, mi ero fissato che volevo entrare in carcere per vedere e sentire come
giustificavano quegli atti abnormi. Volevo capire umanamente come giustificassero
l'atrocità del golpe".
Che clima hai trovato a Santiago?
"Quando ho girato c'era ancora una presidente di sinistra, Michelle
Bachelet, oggi anche lì ha vinto la destra e le cose stanno cambiando. Comunque
ora in Cile si parla del colpo di Stato e della dittatura molto più che negli
anni Novanta. Contemporaneamente al ritorno della democrazia ci fu una strana
rimozione collettiva. Per poter andare avanti si diceva: non parliamo degli
anni della dittatura, non provochiamo i militari, possono sempre tornare. Pensa
che Pinochet, dopo il referendum perso nel 1988, ha continuato ad essere capo
delle forze armate per dieci anni e senatore a vita fino al 2002. La cosa
curiosa è che a Pinochet la destra ha perdonato tutto, in primo luogo le
torture e le violazioni dei diritti umani, ma non di aver rubato. Ha perso
l'appoggio della destra solo quando sono stati scoperti i conti
all'estero".
Nel film sono continui i rimandi e le
analogie tra i due Paesi, ne vedi anche oggi? "Oggi il Cile è diviso in
due, si coltivano due memorie opposte. C'è gente che l'11 settembre,
nell'anniversario del golpe, mette la bandiera sul balcone per celebrarlo. Così
in Italia, dove fino a 25 anni fa c'era una memoria condivisa su antifascismo e
resistenza. L'abbiamo persa negli anni di Berlusconi, da allora non c'è più un
patrimonio di valori condivisi tra progressisti e conservatori e questo mi
preoccupa perché, certo, ci si può dividere sulle scelte politiche ma non sui
valori fondamentali. Oggi invece trionfa l'irresponsabilità, è molto in voga
quel tratto arci-italiano di non prendersi la responsabilità di ciò che si dice
e di ciò che si fa".
Siamo di nuovo tornati all'Italia di oggi,
da molto tempo la tua voce non si sente. Come vedi il nostro Paese? "Ci
sono forze politiche che vengono votate non nonostante la loro violenza verbale
ma proprio perché ne fanno uso. La solidarietà, l'umanità, la curiosità e la
compassione verso gli altri sembrano essere bandite. E questa è la cosa che fa
più impressione, c'è uno slittamento progressivo ma inarrestabile verso la
mancanza di umanità e di pietà. Ci si dimentica, quando si parla delle persone
sui barconi in mare, che sono esseri umani. Spero non sia una strada senza
ritorno".
Il consenso per Salvini, per un'idea di
chiusura del Paese cresce. Esistono antidoti? "Salvini fa il suo lavoro di
uomo di destra, di estrema destra, certo non europea e non tradizionalmente
conservatrice, ma fa il suo mestiere. Sono le persone di sinistra che non
riescono a fare il loro. Ho letto molti articoli sul rischio di estinzione del
Partito democratico, eppure mai come oggi ci sarebbe spazio per una forza
razionale, seriamente riformista ed europeista. Ma se poi loro esauriscono
tutte le energie in piccoli battibecchi interni e questo diventa gran parte del
loro lavoro politico, allora siamo perduti. I loro bisticci e capricci non
interessano a nessuno. Devono tornare a parlare tra le persone, delle persone e
con le persone".
Dove hanno sbagliato? "Per me è stata
una cosa gravissima non aver nemmeno tentato di far passare la legge per la
cittadinanza, il cosiddetto Ius soli, lasciando migliaia e migliaia di ragazzi
italiani senza un'identità. È una macchia per la sinistra italiana, una
battaglia di civiltà non fatta. Lo trovo incomprensibile e vergognoso.
Sbagliato rincorrere la destra sulla sua agenda, cominciare a balbettare e ad
avere paura anche della propria ombra. Non sono stati capaci di spiegare che
una cosa erano gli sbarchi e un'altra dare la cittadinanza a bambini nati e
cresciuti in Italia, bambini italiani. Hanno dimostrato non tanto che non erano
di sinistra ma soprattutto che non erano capaci di comunicare, che non erano
bravi a fare il loro lavoro. Lo stesso è accaduto con il reddito di
cittadinanza: il Pd ha fatto una misura molto simile ma non lo ha saputo
nessuno". (…).
Perché nel documentario appari così poco? Si
sente la voce ma non ci sei. "In questa occasione non volevo esibirmi, non
volevo essere protagonista".
Però ad un certo punto, durante l'intervista
al militare che sta nel carcere di Punta Peuco, entri in scena e mentre lui sta
dicendo che si augura che tu non dia giudizi sulla sua vicenda tu sbotti:
"Io non sono imparziale". "Non era voluto, l'intervista era
finita e quello era uno scambio di battute fuori onda. Oggi come allora non
possiamo essere imparziali. Non ho mai sopportato l'idea che l'imparzialità, la
terzietà sia un valore. Per troppo tempo si sono messe sullo stesso piano le
goffaggini del centrosinistra e un uomo come Berlusconi che, per sua indole,
era estraneo a una cosa chiamata democrazia e invece ogni tanto veniva
considerato addirittura uno statista. Non sono imparziale sul golpe e non lo
posso essere oggi. Non possiamo essere imparziali di fronte a quello che
accade".
Nel tuo film come nelle tue parole c'è il
richiamo al valore dei comportamenti individuali. "In Italia la colpa è
sempre degli altri, non ci assumiamo mai le nostre responsabilità. Anche le
folle che gridano "Onestà, onestà" stanno pensando agli altri che
devono essere onesti, non a loro stessi. Invece ci vuole un'assunzione di
responsabilità da parte di tutti, dei singoli. (…).
Da dove nasce questa tendenza? "So di
non fare testo, perché non sono su Twitter e su Facebook, però credo che in
questa arroganza ignorante di oggi la rete abbia svolto un ruolo, eccome se lo
ha svolto, in questo odio per la competenza, per il sapere, per cui tutto è
casta, tutto è élite da abbattere". (…).
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