Tratto da “Il
Buco che ci ha ingoiati” di Giuseppe Genna, pubblicato sul settimanale L’Espresso
del 9 di dicembre 2018: È il 12 dicembre 1969, ore 16.37, Milano.
Succede questo: un’esplosione a pochi metri dietro il Duomo, nella nebbia una
vampata di luce. È cominciata la storia d’Italia, per l’ennesima volta, una
vicenda che si trascina come un ferito nelle nebbie di un dopobomba perenne. È
scoppiata la bomba di piazza Fontana. Un giovane vicecommissario si trova
davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, dove l’ordigno ha devastato
uomini donne bambini e cose. È Achille Serra, destinato a evolvere nel tempo in
un prefetto leggendario. Entra a pochi secondi dall’esplosione, in un luogo che
costituirà la scena primaria della nazione, che è sempre una scena del crimine:
corpi sciolti, a brandelli, un bambino urla, cadaveri tra le macerie. Serra si
precipita al telefono in una cabina, chiede l’invio di cento ambulanze. Non gli
credono, lo prendono in giro, poi mandano davvero cento lettighe sul posto. Su
una barella, che fa il suo ingresso nella banca, c’è accidentalmente il
corredino di un neonato, che è nato proprio alle 16.37, insieme con la madre di
tutte le stragi. Quel neonato sono io. Ho, dunque, due madri: la mia e quella
di tutte le bombe. Io avvengo insieme a piazza Fontana, crescerò avendo per
fratelli tutti i fantasmi, i morti, gli assassinati successivi, gli accusati,
gli innocenti, i commentatori, i leggendari giornalisti, le spie, i
neofascisti, gli anarchici - il teatro umano che da quasi cinquant’anni si
muove intorno a una strage, rimasta senza colpevoli fino al 2005, quando i
responsabili sono stati identificati da una sentenza di Cassazione,
nell’impossibilità di processarli, perché assolti in precedenza. Nasco insieme
a piazza Fontana. Cresco con l’ossessione della strage. Il sospetto è per me un
obbligo. Appena capace di consapevolezza, scruto ossessivamente le foto in bianco
e nero, scattate poco dopo l’esplosione. Al centro della scena, sotto un tavolo
pesante, sbalzato dalla conflagrazione, si è creato un buco nel pavimento. Il
Buco diviene l’emblema nazionale. È il buco dei proiettili nel corpo inerte di
Aldo Moro, rannicchiato nel baule della Renault 4, essa stessa un ulteriore
buco, orizzontale, che sfigura la memoria di tutti i bambini come me. È il buco
in cui sprofonda e resterà invisibile, piangente nel pozzo artesiano, il
piccolo Alfredino Rampi a Vermicino, foro su cui si china il capo dello Stato e
in cui finiamo tutti, a favore delle televisioni unite. È il buco in cui
scompare infinitamente Emanuela Orlandi. È un Paese con il Buco, l’Italia.
Buchi ovunque, a partire da quelli che costellano le indagini. Il giovane Bruno
Vespa compare, nel permanente bianco e nero, microfono in mano, a dare in
diretta la notizia della colpevolezza indiscutibile dell’anarchico Pietro
Valpreda. Quando Vespa inaugura l’oscenità televisiva, svezzando la nazione, io
ho quattro giorni di vita, come la strage. Il giorno precedente è stato
assassinato Giuseppe Pinelli, volato dalla finestra della questura per un
evento catalogato come “malore attivo”, durante un interrogatorio, mentre il
commissario Luigi Calabresi si trova fuori dalla stanza - il momento enorme in
cui Calabresi incomincia a morire, il 17 maggio 1972, per mano di terroristi
che non avevano compreso nulla o forse avevano compreso troppo. Aldo Moro,
nell’istante in cui io nasco e la bomba deflagra, si trova a Parigi e nelle
lettere dal carcere brigatista, pressato dall’angoscia, sbaglia il ricordo e
colloca l’esplosione al mattino del 12 dicembre. L’allora ministro degli
Esteri, autentico artefice della Repubblica, è autore di una controinchiesta,
che svela da subito responsabilità, connivenze, scenario in cui la strage si è
prodotta. Un ulteriore memoriale Moro. Che annoterà dal carcere Br:
«Personalmente ed intuitivamente, non ebbi mai dubbi e continuai a ritenere (e
manifestare) almeno come solida ipotesi che questi ed altri fatti che si
andavano sgranando fossero di chiara matrice di destra ed avessero l’obiettivo
di scatenare un’offensiva di terrore indiscriminato (tale è proprio la
caratteristica della reazione di destra), allo scopo di bloccare certi sviluppi
politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di
ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata
del potere». Era tutta la verità. I fantasmi si scatenarono, dagli schermi dei
televisori invasero le menti degli italiani, che si allenavano a diventare un
popolo di spettatori.
Quella fosforescenza in bianco e nero è una forma della Repubblica. Si rivedono in bianco e nero i funerali delle 17 vittime (i feriti furono 88, tra cui un bambino a cui verrà amputata la gamba: un altro fantasma personale e generazionale), partecipati da “una folla composta” e oceanica, nel gelo decembrino milanese e nel clima glaciale che andrà a ossessionare non soltanto me, ma tutta l’Italia, per anni. In bianco e nero avviene l’apparizione sconcertante dell’imputato Franco Giorgio Freda, ordinovista, stalagmite nazimaoista, nel 1977, quando sto alle elementari e il processo per piazza Fontana è stato trasferito da Milano nella città di Catanzaro, che io e i miei coetanei scopriamo esistere come luogo in cui compare questo anti-Moro dai capelli precocemente imbiancati, il golf chiaro a collo alto accecante come la sua cofana, il volto scolpito e il lessico antisalgariano, tutto metafore taglienti e verbi squadrati (nel confronto con l’agente segreto Guido Giannettini, secondo Freda costui «afferma una menzogna con notevole impudenza» e deve «estrinsecarsi»). Freda sarà assolto per insufficienza di prove, ma resterà stampato nell’orrendo Parnaso italiano del terrore. Mi tornerà addosso quando io e la strage compiamo vent’anni, come reggente del Fronte Nazionale, una formazione extraparlamentare di estrema destra, che ha per simbolo una svastica a metà e aggredisce l’invasione dei migranti, chiamandoli “allogeni extraeuropei”. In quel caso, a difendere Freda sarà Carlo Taormina, avvocato pop nell’arco della seconda Repubblica, in cui, rivestendo la carica di sottosegretario agli Interni, attaccherà i procedimenti su piazza Fontana, che continuano a perseguire una verità inaccertabile. L’Italia rovinava con i suoi misteri, ombrosi a chiunque e chiarissimi a tutti. Io e la strage invecchiavamo insieme. Non mi riusciva di dire, come Pasolini nella memorabile poesia “Patmos”, «oppongo al cordoglio un certo manierismo». La strage era un’esplosione inestinta, che non smetteva di esplodere, così come la ragazza Orlandi non smetteva di scomparire, Alfredino non smetteva di inabissarsi, Moro non smetteva di parlare la sua lingua precisa e articolata. Non smettevano di morire. Le bombe erano due o erano una? E gli americani? Adriano Sofri precisava davvero la realtà dei fatti nel suo “43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film”? Perché non cessava di rimbombare l’inchiesta di Camilla Cederna su Pinelli? (…). …il Buco diventa lo spazio abissale in cui la memoria affonda, la verità e la menzogna non hanno interrotto il loro eterno lavorìo tutto italiano, mentre l’oblio è un nuovo valore collettivo. Io, noi, invece: ricordo, ricordiamo. I giudici Calogero e Stiz, D’Ambrosio che indaga i fascisti e poi diviene uno dei volti dell’affaire Tangentopoli, Ventura che in Argentina pubblica le poesie di Zanzotto, l’inchiesta di Franco Lattanzi detto Sbancor che viene trovato morto mentre sta scrivendo un testo cruciale sulla strage, l’agente neofascista internazionale Guérin Sérac, Pietrostefani e Bompressi, il questore Guida, quelli del Sid, i supposti pentiti Digilio, Delfo Zorzi, il giudice Salvini, le vedove, i parenti delle vittime, gli agenti in sonno di Gladio - la danse macabre di Piazza Fontana attraversa la storia italiana. Da quarantanove anni io sono lì, il 12 dicembre alle 16.37, in piazza Fontana. Da decenni ci vado fisicamente, misuro l’estinguersi progressivo della folla che interviene al pubblico ricordo, sono sempre meno, non si alzano più i pugni, nel giardinetto davanti al comando dei vigili c’è la lapide a Pinelli, “ucciso innocente”. La notte della Repubblica era questa: le tenebre della violenza e poi il buio della dimenticanza. A mia madre, che mi aveva partorito in quel momento tragico, ridiedero il corredino, ritrovato come uno straccio tra i ruderi, accanto al buco al centro della Banca dell’Agricoltura. Il cognome rammendato a filo azzurrino aveva permesso di riportare in ospedale il reperto. Il ricordo, come tutti i ricordi, era santo e raccapricciante. Il cotone bianco era macchiato di sangue coagulato. Il loro sangue era ricaduto su di me: su noi tutti.
Quella fosforescenza in bianco e nero è una forma della Repubblica. Si rivedono in bianco e nero i funerali delle 17 vittime (i feriti furono 88, tra cui un bambino a cui verrà amputata la gamba: un altro fantasma personale e generazionale), partecipati da “una folla composta” e oceanica, nel gelo decembrino milanese e nel clima glaciale che andrà a ossessionare non soltanto me, ma tutta l’Italia, per anni. In bianco e nero avviene l’apparizione sconcertante dell’imputato Franco Giorgio Freda, ordinovista, stalagmite nazimaoista, nel 1977, quando sto alle elementari e il processo per piazza Fontana è stato trasferito da Milano nella città di Catanzaro, che io e i miei coetanei scopriamo esistere come luogo in cui compare questo anti-Moro dai capelli precocemente imbiancati, il golf chiaro a collo alto accecante come la sua cofana, il volto scolpito e il lessico antisalgariano, tutto metafore taglienti e verbi squadrati (nel confronto con l’agente segreto Guido Giannettini, secondo Freda costui «afferma una menzogna con notevole impudenza» e deve «estrinsecarsi»). Freda sarà assolto per insufficienza di prove, ma resterà stampato nell’orrendo Parnaso italiano del terrore. Mi tornerà addosso quando io e la strage compiamo vent’anni, come reggente del Fronte Nazionale, una formazione extraparlamentare di estrema destra, che ha per simbolo una svastica a metà e aggredisce l’invasione dei migranti, chiamandoli “allogeni extraeuropei”. In quel caso, a difendere Freda sarà Carlo Taormina, avvocato pop nell’arco della seconda Repubblica, in cui, rivestendo la carica di sottosegretario agli Interni, attaccherà i procedimenti su piazza Fontana, che continuano a perseguire una verità inaccertabile. L’Italia rovinava con i suoi misteri, ombrosi a chiunque e chiarissimi a tutti. Io e la strage invecchiavamo insieme. Non mi riusciva di dire, come Pasolini nella memorabile poesia “Patmos”, «oppongo al cordoglio un certo manierismo». La strage era un’esplosione inestinta, che non smetteva di esplodere, così come la ragazza Orlandi non smetteva di scomparire, Alfredino non smetteva di inabissarsi, Moro non smetteva di parlare la sua lingua precisa e articolata. Non smettevano di morire. Le bombe erano due o erano una? E gli americani? Adriano Sofri precisava davvero la realtà dei fatti nel suo “43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film”? Perché non cessava di rimbombare l’inchiesta di Camilla Cederna su Pinelli? (…). …il Buco diventa lo spazio abissale in cui la memoria affonda, la verità e la menzogna non hanno interrotto il loro eterno lavorìo tutto italiano, mentre l’oblio è un nuovo valore collettivo. Io, noi, invece: ricordo, ricordiamo. I giudici Calogero e Stiz, D’Ambrosio che indaga i fascisti e poi diviene uno dei volti dell’affaire Tangentopoli, Ventura che in Argentina pubblica le poesie di Zanzotto, l’inchiesta di Franco Lattanzi detto Sbancor che viene trovato morto mentre sta scrivendo un testo cruciale sulla strage, l’agente neofascista internazionale Guérin Sérac, Pietrostefani e Bompressi, il questore Guida, quelli del Sid, i supposti pentiti Digilio, Delfo Zorzi, il giudice Salvini, le vedove, i parenti delle vittime, gli agenti in sonno di Gladio - la danse macabre di Piazza Fontana attraversa la storia italiana. Da quarantanove anni io sono lì, il 12 dicembre alle 16.37, in piazza Fontana. Da decenni ci vado fisicamente, misuro l’estinguersi progressivo della folla che interviene al pubblico ricordo, sono sempre meno, non si alzano più i pugni, nel giardinetto davanti al comando dei vigili c’è la lapide a Pinelli, “ucciso innocente”. La notte della Repubblica era questa: le tenebre della violenza e poi il buio della dimenticanza. A mia madre, che mi aveva partorito in quel momento tragico, ridiedero il corredino, ritrovato come uno straccio tra i ruderi, accanto al buco al centro della Banca dell’Agricoltura. Il cognome rammendato a filo azzurrino aveva permesso di riportare in ospedale il reperto. Il ricordo, come tutti i ricordi, era santo e raccapricciante. Il cotone bianco era macchiato di sangue coagulato. Il loro sangue era ricaduto su di me: su noi tutti.
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