Non vi tragga in inganno il
titolo di questa “memoria”, che essa non vi meni come “can per l’aia”. Essa risale
al 21 di settembre dell’anno 2004, ma essa è come se fosse stata scritta nell’anno
primo del governo del “cambiamento”. Sono solamente
pensieri di un fine anno tra i più difficili da catalogare, ma con l’auspicio
che il prossimo possa essere decisamente diverso e migliore. Tanto per non dire
che i quasi tre lustri trascorsi da quel settembre dell’anno 2004 siano gattopardescamente
trascorsi affinché nulla cambiasse: Ammiccano
da una immagine apparsa di recente sui maggiori settimanali del bel paese tre
belle e oneste facce di tre famosi conduttori di programmi televisivi di
approfondimento o di intrattenimento. A quelle loro facce belle e oneste la
terza rete del tubo catodico del servizio pubblico si affida per un rilancio o
meglio in qualche caso per una riconferma presso la gente dei programmi prodotti, e che vengono fortunatamente
riproposti nella imminente stagione televisiva, ché una volta le stagioni in
verità erano legate a ben altri avvenimenti e scenari della natura; ai tre
programmi, che saranno condotti come sempre magistralmente dalle belle ed
oneste tre facce, si affida il compito, ahimè invero ingrato, di raccontare il
bel paese, tanto è che l’immagine in questione si presenta con un titolo che la
dice lunga sulla sua filosofia di fondo, “L’Italia
in cui viviamo” e con un sottotitolo “Tre
programmi che danno voce al Paese”. Il proposito è dei più meritevoli di
incoraggiamento e di gratificazione da parte del pubblico, e così si spera. Sono anni oramai che il servizio
pubblico ha di fatto rinunciato a svolgere convenientemente e doverosamente il suo ruolo direi istituzionale, essendosi
posto in concorrenza alla televisione commerciale con la stessa sua spregiudicatezza
ed insensatezza; per i soccombenti utenti è rimasta pur tuttavia una nicchia di
salvezza nella terza rete del che, sfidando in tante occasioni l’ordine
televisivo costituito, ha cercato di assolvere al meglio la propria funzione di
voce del servizio pubblico. I guasti
creati da una fallimentare politica di programmazione del servizio pubblico ha
fatto sì che lo stesso sia deperito in fatto di ascolti e di raccolta
pubblicitaria, a tutto vantaggio della concorrenza commerciale che si è
ingrassata sino all’inverosimile e con i ben noti ed enormi ritorni finanziari.
E non poteva che essere altrimenti. Torna
allora utile e saggio rileggere ad oltre trenta anni dalla loro pubblicazione,
ancorché attualissime, le parole scritte da Pier Paolo Pasolini il 9 di dicembre
dell’anno 1973 sul quotidiano “Corriere della sera” a proposito di
acculturazione e dell’ uso dei moderni mezzi di comunicazione per la creazione
del consenso popolare: (…). La responsabilità della televisione, (…),
è enorme. Non certo in quanto mezzo tecnico, ma in quanto strumento del potere
e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui
passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si
fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare.
È attraverso
lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo
potere. Non c’è dubbio (…)che la televisione sia autoritaria e repressiva come
mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte
sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro
rispetto a un trattore. Il fascismo, (…), non è stato
sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il
nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione
(specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata,
violata, bruttata per sempre…(…). Cronista
dei giorni nostri è invece Tobias Jones, inglese di nascita, ma che alberga nel
bel paese dall’anno 1999. Grande conoscitore ed osservatore severo e
disincantato dello stile di vita del popolo italiano, ha scritto un
interessantissimo volume dal titolo “Il
cuore oscuro dell’Italia” per i tipi Rizzoli, di cui si consiglia la
lettura. Di recente è apparso un suo resoconto
su di una sua personale esperienza di come fare televisione di pubblico
servizio dal titolo “Ricchi d’Italia”, che troverà spazio dal prossimo 26 di settembre
sempre nella nicchia del tubo catodico monopolizzato, ovvero Rai3:
Dopo aver scritto, qualche tempo fa, che la tv italiana non mi piace più di tanto, alcuni amici mi hanno lanciato una sfida. Se ne sai così tanto, perché non ci fai vedere cosa sai fare? Be’, non è né la mia lingua né il mio mestiere. Però mi scocciava ignorare la sfida. Ci pensavo. Mi chiedevo cosa avrebbero voluto vedere in tv. Con un regista geniale (Andrea Salvadore che ha fatto, tra l’altro, L’elmo di Scipio) e una casa di produzione solida (Palomar, quella di Montalbano) abbiamo messo insieme un’idea che mi convinceva: passare ventiquattr’ore con ventiquattro tra gli imprenditori, padroni e uomini ricchi più interessanti della penisola. Non per fare salamelecchi, non in stile “vippissimi” come farebbe Mediaset; ma neanche per fare critiche trotskiste, tipo “tutti i ricchi sono malvagi capitalisti”. E non volevo fare il protagonista. Volevo solo porre domande schiette e ascoltare le risposte. Domande tipo: come va l’economia? Che ne pensa del governo Berlusconi? Come se la vede con i sindacati? Quanto guadagna? Cosa mi dice del ruolo delle banche in Italia? E della burocrazia? Lei vota a sinistra o a destra? La lista era notevole: da Edoardo Garrone (Erg e Sampdoria) alla famiglia Panini (figurine); da Lapo Elkann (Fiat) a Paolo Bolici (robustissima azienda omonima di barche e alberghi). Questa è gente che di solito non parla, che non appare in tv. Le risposte, ovviamente, sono state varie e affascinanti. Non ho voluto entrare mai in uno studio televisivo. Abbiamo girato la penisola in furgone per mesi: da Mantova a Matera, da Palermo a Milano. Gli imprenditori erano cortesi. Alcuni, più nervosi, si tenevano molto vicino alla loro addetta alla comunicazione. I vecchi erano forti, pieni di energia, rabbia e garbo. Abbiamo intervistato le segretarie, i figli, gli operai, le mogli. Ho chiesto spesso quanto è pulito il business in Italia. Alcuni dicevano pulitissimo. Altri, lontano dalle telecamere, raccontavano storie allucinanti. Però, paradossalmente, il programma mi ha fatto cambiare idea su una cosa. La “razza” dei ricchi in Italia spesso ha una reputazione, come dire, non buona. Invece, facendo il programma, ho visto con i miei occhi tanti imprenditori corretti e genuini. Inoltre, mi ha fatto cambiare idea sulla ricchezza. Non sono avaro, ma chiaramente mi interessava capire cosa vuol dire avere alcuni miliardi in banca. Adesso lo so: vuol dire avere pochissimo tempo libero. Su ventiquattro, soltanto due o tre mi davano l’idea di essere ricchi in entrambi i sensi. E ho capito cosa vuol dire avere veramente poco tempo. In televisione i tempi sono pazzeschi: per esempio otto secondi per descrivere un’azienda con cinquemila dipendenti. Già posso prevedere le critiche. Innanzitutto sarò accusato d’ipocrisia. Non credo di aver commesso questo peccato, perché lo scopo del programma è molto serio, ma posso capire la critica. Spero, almeno, di essere stato altrettanto coraggioso. Diranno che il mio italiano è zoppicante. Qui sono davvero colpevole perché ho deciso, per essere naturale, di parlare a braccio. Altri diranno infine che per fare il conduttore televisivo uno dovrebbe possedere più di tre camicie e, come minimo, un pettine. Colpevole. Avrei anch’io delle critiche. Mi dispiace molto che non ci siano più donne tra i ricchi imprenditori intervistati. O più stranieri, se non extracomunitari. Purtroppo il programma riflette la realtà dell’economia italiana. Comunque, se almeno contribuisse al dibattito sulla qualità della tv – anche a costo di sentir dire che io, personalmente, faccio schifo – mi farebbe molto piacere.
Dopo aver scritto, qualche tempo fa, che la tv italiana non mi piace più di tanto, alcuni amici mi hanno lanciato una sfida. Se ne sai così tanto, perché non ci fai vedere cosa sai fare? Be’, non è né la mia lingua né il mio mestiere. Però mi scocciava ignorare la sfida. Ci pensavo. Mi chiedevo cosa avrebbero voluto vedere in tv. Con un regista geniale (Andrea Salvadore che ha fatto, tra l’altro, L’elmo di Scipio) e una casa di produzione solida (Palomar, quella di Montalbano) abbiamo messo insieme un’idea che mi convinceva: passare ventiquattr’ore con ventiquattro tra gli imprenditori, padroni e uomini ricchi più interessanti della penisola. Non per fare salamelecchi, non in stile “vippissimi” come farebbe Mediaset; ma neanche per fare critiche trotskiste, tipo “tutti i ricchi sono malvagi capitalisti”. E non volevo fare il protagonista. Volevo solo porre domande schiette e ascoltare le risposte. Domande tipo: come va l’economia? Che ne pensa del governo Berlusconi? Come se la vede con i sindacati? Quanto guadagna? Cosa mi dice del ruolo delle banche in Italia? E della burocrazia? Lei vota a sinistra o a destra? La lista era notevole: da Edoardo Garrone (Erg e Sampdoria) alla famiglia Panini (figurine); da Lapo Elkann (Fiat) a Paolo Bolici (robustissima azienda omonima di barche e alberghi). Questa è gente che di solito non parla, che non appare in tv. Le risposte, ovviamente, sono state varie e affascinanti. Non ho voluto entrare mai in uno studio televisivo. Abbiamo girato la penisola in furgone per mesi: da Mantova a Matera, da Palermo a Milano. Gli imprenditori erano cortesi. Alcuni, più nervosi, si tenevano molto vicino alla loro addetta alla comunicazione. I vecchi erano forti, pieni di energia, rabbia e garbo. Abbiamo intervistato le segretarie, i figli, gli operai, le mogli. Ho chiesto spesso quanto è pulito il business in Italia. Alcuni dicevano pulitissimo. Altri, lontano dalle telecamere, raccontavano storie allucinanti. Però, paradossalmente, il programma mi ha fatto cambiare idea su una cosa. La “razza” dei ricchi in Italia spesso ha una reputazione, come dire, non buona. Invece, facendo il programma, ho visto con i miei occhi tanti imprenditori corretti e genuini. Inoltre, mi ha fatto cambiare idea sulla ricchezza. Non sono avaro, ma chiaramente mi interessava capire cosa vuol dire avere alcuni miliardi in banca. Adesso lo so: vuol dire avere pochissimo tempo libero. Su ventiquattro, soltanto due o tre mi davano l’idea di essere ricchi in entrambi i sensi. E ho capito cosa vuol dire avere veramente poco tempo. In televisione i tempi sono pazzeschi: per esempio otto secondi per descrivere un’azienda con cinquemila dipendenti. Già posso prevedere le critiche. Innanzitutto sarò accusato d’ipocrisia. Non credo di aver commesso questo peccato, perché lo scopo del programma è molto serio, ma posso capire la critica. Spero, almeno, di essere stato altrettanto coraggioso. Diranno che il mio italiano è zoppicante. Qui sono davvero colpevole perché ho deciso, per essere naturale, di parlare a braccio. Altri diranno infine che per fare il conduttore televisivo uno dovrebbe possedere più di tre camicie e, come minimo, un pettine. Colpevole. Avrei anch’io delle critiche. Mi dispiace molto che non ci siano più donne tra i ricchi imprenditori intervistati. O più stranieri, se non extracomunitari. Purtroppo il programma riflette la realtà dell’economia italiana. Comunque, se almeno contribuisse al dibattito sulla qualità della tv – anche a costo di sentir dire che io, personalmente, faccio schifo – mi farebbe molto piacere.
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