Tratto da “L'onestà
è a doppio taglio”, intervista di
Wlodek Goldkorn con scrittore spagnolo Javier pubblicata sul settimanale L’Espresso
del 4 di luglio 2018: (…). «Oggi, molte parole bellissime vengono
usate come maschere, come uno specchio deformato, per dire il contrario del
loro significato originario. Si viola la libertà in nome della libertà. Si
dicono menzogne in nome della verità. Si corrompe in nome dell’onestà.
Dell’onestà parlano i politici convinti invece che l’unica cosa importante sia
la conquista del potere e quindi che il fine giustifichi i mezzi. Io invece
penso al contrario, in democrazia sono i mezzi a giustificare i fini. Uno scopo
giusto si corrompe se i mezzi per raggiungerlo non sono buoni né onesti. Ha
presente l’immagine di Barack Obama e Hillary Clinton mentre stavano guardando
sullo schermo del computer l’azione in cui veniva ucciso Bin Laden? Il
messaggio implicito in quella immagine era: è lecito usare un mezzo terribile
per fare bene? E Obama ha fatto bene? Felipe González, nostro ex premier ha
detto recentemente in tv: ho avuto la possibilità di uccidere tutta la
direzione dell’Eta ma non l’ho fatto. E ha aggiunto; non so se ho fatto bene. E
allora, González ha risparmiato vite umane o è stato codardo? Aggiungo, Max
Weber diceva: il politico fa il patto con il diavolo, perché fa il patto con la
violenza».
In fondo quella di usare mezzi sbagliati per
un fine buono e di aver stretto il patto con il diavolo, è la storia del
comunismo. «Un fine bellissimo, corrotto dai mezzi, per cui il comunismo è una
parola da non usare».
Cominciamo con le domande. Partendo da un
gigante, Tolstoj. In “Guerra e pace” Pierre Bezuchov dice a Natasha: «Se le
persone viziose sono tutte quante collegate tra di loro e perciò sono una
forza, basterebbe che le persone oneste facessero lo stesso». Anche oggi,
spesso vince l’idea che basta che gli onesti si mettano insieme contro i
corrotti e i bugiardi per cambiare il mondo. «Pierre Bezuchov è ingenuo. Ma è
un personaggio letterario».
Sappiamo che è Tolstoj a parlare con la voce
di Bezuchov. «Lo presumiamo. Comunque io non sono d’accordo con questa frase,
perché penso che il mondo non si divida tra gli onesti e i disonesti e fra i
giusti e gli ingiusti. Le persone oneste possono diventare disoneste e i giusti
possono diventare ingiusti, i coraggiosi possono rivelarsi codardi. L’animo
degli uomini e delle donne è complesso e contraddittorio. Per questo la vita
sociale ha bisogno delle regole. (…). Non sono giovanissimo e quindi mi ricordo
quando per la prima volta i socialisti spagnoli arrivarono al governo, dopo 40
anni di franchismo. Ci sembrava una festa. I socialisti erano i giusti e gli
onesti. Ma poi è successo che i socialisti sono diventati disonesti, e
corrotti».
Quindi? «Quindi la meraviglia della
democrazia non sta nel carattere delle persone ma nel rispetto delle regole.
Tutto qui».
Possiamo azzardare un’ipotesi? Dentro
l’animo di ognuno di noi - uno scrittore lo sa perché il suo mestiere è
indagare e raccontare l’animo umano - è insito un elemento del Male. Ognuno di
noi è un potenziale carnefice. Ma non tutti lo diventiamo. Vale anche per la
corruzione? «Infatti, è molto più importante capire il carnefice che la
vittima. Certo, la solidarietà con le vittime deve essere assoluta, ma dobbiamo
comprendere il boia. Sarebbe straordinario capire Hitler».
Ma ci sarà un limite all’empatia. Lei, in
“Il sovrano delle ombre” descrive un soldato franchista, Manuel Mena. Per come
lei lo racconta potrebbe essere un nostro fratello, salvo che in guerra
l’avremmo ucciso. Ma allora fin dove si può essere empatici, fin dove è lecito
capire? È una domanda sull’onestà dello scrittore e sull’etica della
letteratura e quindi sull’onestà del nostro immaginario collettivo. «Per me è
una questione essenziale. Rispondo: non c’è limite all’empatia. Quello che deve
fare uno scrittore, ma anche un filosofo, è capire tutto, capire i peggiori.
Capire non vuol dire giustificare. Ma il contrario. Capire è darci le armi per
non diventare carnefici e corrotti».
Quindi Primo Levi quando diceva che capire è
un po’ giustificare sbagliava? Lo vogliamo dire? «L’ha posta, come domanda,
Tzvetan Todorov».
Possiamo spingerci oltre? Levi, essendo una
vittima, non poteva capire il carnefice. «Appunto. Per una vittima capire il
suo boia significa autodistruggersi. Però, a pensarci bene, me la sento di dire
che Levi non sbagliava: La sua “Trilogia di Auschwitz” (in Spagna “Se questo è
un uomo”, “La tregua” e “I sommersi e i salvati” sono usciti appunto come
“Trilogia di Auschwitz”, ndr) è ovviamente un geniale tentativo di
comprensione. Uno sforzo di capire tutto».
Stiamo parlando dell’onestà letteraria e intellettuale. «Certo. E continuo. Sappiamo tutti chi era Hitler. Ma allora la domanda è come mai un pazzo, un oligofrenico come lui sia riuscito a conquistare l’animo della Germania, il Paese più colto, e anche quello di mezzo mondo. Se oggi ci fosse un Dostoevskij, un Cervantes o uno Shakespeare in grado di capire quella testa, avremmo un’arma per impedire che un personaggio come Hitler torni. È come quando abbiamo paura di una bomba che sta per scoppiare. Non basta urlare: qui c’è una bomba. Occorre un artificiere per disattivarla. A questo serve la letteratura e il pensiero complesso. E per questo non bisogna porre limiti alla letteratura e all’empatia. Del resto Shakespeare era empatico con Riccardo III, un assassino feroce. E anche chi legge “Delitto e castigo” è in grado di capire un assassino. Questa è l’onestà dello scrittore e l’etica della letteratura. Aggiungo un esempio: come faccio a giudicare Manuel Mena (il soldato franchista del romanzo “Il sovrano delle ombre”, ndr)? Quello che devo fare è comprenderlo. Aveva solo 17 anni».
(…). Cercas, che rapporto c’è tra onestà e
verità? Abbiamo parlato di Levi e della sua estrema e radicale onestà. Si può
osar dire che Levi per raccontare Auschwitz, da grandissimo scrittore quale era
- uno dei più grandi del Novecento - doveva immaginarsi Auschwitz? «Immaginare
vuol dire dare un senso». Ma se la verità nasce nel racconto, ci sono
tante verità. «Credo che la verità esista. Ma penso anche che chi crede di
possedere la verità o è uno stupido, o un fanatico, o un pazzo, o tutte e tre
le cose. Detto questo: una cosa è la verità letteraria un’altra la verità dei
fatti. La verità dei fatti è concreta, la verità letteraria è una verità
morale, universale. È la finzione che cerca di indagare su cosa succede a tutti
gli umani, in tutto il mondo e in tutti i Paesi. E questa verità è il risultato
della forma. “Guerra e pace” o “Don Chisciotte” parlano di ciascuno di noi.
Siamo tutti protagonisti di Tolstoj e di Cervantes. Ecco, non c’è verità
letteraria senza onestà. Ma l’onestà è come la democrazia. È forma».
Esiste una verità politica? «Esiste la
menzogna che è una forma di disonestà in politica. Oggi sta trionfando (basti
guardare l’esempio di Trump) perché il disprezzo della verità è enorme. Ed è
una situazione pericolosissima».
Lei, nei suoi libri si è sempre occupato del
rapporto tra onestà e memoria. Oggi, la memoria, è sacralizzata... «La interrompo
per dire che una memoria sacralizzata è come se non ci fosse».
E anche il tempo è stato abolito. È tutto
nel presente. Ed è facile essere disonesti quando non c’è più memoria. Senza
memoria si può raccontare la storia che si vuole. «Sono d’accordo. Oggi, la
possibilità di manipolare le menti e i fatti è più grande che mai. Viviamo in
una dittatura del presente. È questo uno dei risultati del potere dei media che
ormai non riflettono la realtà ma la creano. Per i mezzi di comunicazione, la
tv e i social media, la settimana scorsa è preistoria. Il passato è roba da
biblioteche, archivi, che può interessare gente strana come me. Ma una simile
tesi è menzognera. E sa perché? Perché il passato e soprattutto un passato di
cui c’è ancora la memoria e i testimoni, non è passato; è invece parte del
presente senza il quale il futuro è mutilato. Diceva T.S. Eliot: “Il tempo
presente e il passato sono forse entrambi presenti nel tempo futuro e il tempo
futuro contiene il passato”. Vede, il potere costruisce sempre un racconto
manipolato del passato, perché sa benissimo che per controllare il futuro e il
presente occorre controllare il passato. Mi ha chiesto qual è il rapporto fra
onestà e memoria? La sacralizzazione della memoria che è una forma della
sparizione della memoria, rende difficile l’onestà e facile la manipolazione.
Aggiungo: Pierre Nora, il grande storico, ha detto una volta che la memoria
viene ormai a sostituire la storia e che il Ventunesimo secolo sarebbe stato il
secolo dell’oblio».
Forse è arrivato il momento di chiederglielo
direttamente: cosa è l’onestà? «L’onestà è una virtù. E la virtù o è segreta o
non è. L’unico uomo puro dei miei libri è il soldato di Salamina, che salva una
vita (la vita del poeta franchista, ndr), ma nessuno lo sa e lui muore da solo
e nell’anonimato. L’uomo diventato famoso con la virtù è invece Enric Marco (il
protagonista di “L’impostore”, storia di Enric Marco che per decenni pretese di
essere stato prigioniero a Mauthausen; incarnava in pubblico la memoria delle
vittime del fascismo, ma si è inventato quasi tutto, ndr). Marco ha trasformato
la virtù in uno spettacolo. Ma torniamo alla guerra civile: dal punto di vista
politico i repubblicani avevano ragione. Ma dal punto di vista etico i
repubblicani hanno fatto tante cose sbagliate. Molto spesso gente onesta ha
appoggiato cause ingiuste».
Sta parlando delle suore stuprate e uccise,
dei preti assassinati. Ma parliamo invece, per un attimo, del ruolo degli
intellettuali. Uomini e donne come Zola o Camus o Hannah Arendt erano l’onestà
fatta persona. Oggi, l’intellettuale è considerato una specie di radical chic,
lontano dal popolo. Ha senso il ruolo dell’intellettuale? «Dipende cosa intende
per intellettuale».
Colui o colei che dice «il re è nudo»,
mentre tutto il mondo elogia i vestiti del re. «Io lo dico in un altro modo. Io
dico di no, quando tutti dicono di sì. Ha citato Camus. Cosa è un uomo in
rivolta? È un uomo capace di dire no. Questo è l’intellettuale. Quando il mondo
diventa sovranista io dico di no, io non lo sono. Per me l’emblema di
intellettuale è Kafka. Kafka partecipava a una riunione degli anarchici. Entrò
la polizia e intimò agli astanti di disperdersi. La gente cominciò a scappare.
Kafka invece restò fermo, immobile. E si fece arrestare. Detto questo oggi
molti intellettuali sono troppo frivoli, appoggiano cause sbagliate e dicono di
sì».
Lei una volta ha contrapposto i quadri di
Velázquez a quelli di Goya. I soldati in battaglia di Velázquez sono pervasi di
una certa gravitas, la battaglia ha un che di solenne; in Goya, la guerra è
invece cruda e crudele. «La verità di Velázquez è una verità idealizzata. Lui
dipinge gli uomini come dovrebbero essere, non come sono».
Ma non era disonesto. «Non lo era di certo.
Non nascondeva niente, ma presentava le cose come sarebbe stato bello che
fossero. Narrava la guerra come un fatto nobile. Lo faceva pure Omero e in
fondo l’epica in questo consiste: nella narrazione di gesta nobili dei
guerrieri. Goya invece era un visionario. Al Museo del Prado a Madrid ci sono due
suoi quadri sulle fucilazioni alla Moncloa (il 3 maggio 1808, durante
l’invasione francese della Spagna, ndr). Nel primo racconta la ribellione degli
spagnoli contro Napoleone. In quel quadro gli spagnoli commettono atrocità. Nel
secondo, i carnefici sono i francesi e le vittime gli spagnoli. È questa, per
me l’onestà».
Ultima domanda, di rito. Vede un futuro per
la sinistra? «Sì, a patto che sia capace di autocritica. La sinistra senza la
democrazia non è sinistra. Fidel Castro, per fare un esempio, non era di
sinistra. La sinistra è Concordia, Prosperità, Democrazia. Aggiungo anche, a
scanso di equivoci: il populismo, che sembra così forte, è solo una tecnica di
conquista del potere, ma non ha un programma. Non basta dirsi onesti per stare
dalla parte del popolo».
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