La “sfogliatura” che si propone oggi
risale al martedì 17 di agosto dell’anno 2010. Scrivevo in quel tempo andato: “Il
Santo marrano”. È, nella storia
della chiesa di Roma, anzi era, un ebreo convertitosi alla fede cristiana. Per
folgorazione? Per illuminazione dall’alto?
Per convenienza, considerati i tempi, tempestosi, di fuoco? Per
opportunità di salvezza della pelle propria? O di quant’altro? Non ho risposte.
Angelo da Gerusalemme, che come tale è rintracciabile nella storiografia di
quella chiesa, divenuto cristiano e pur cattolico ma sempre “marrano”, divenne un carmelitano e
poi, addirittura sebbene “marrano”,
patrono della città della Sicilia che è nomata Licata. Ma anche il protagonista
dell’eccellente lavoro letterario del professor Giuseppe Sicari da Capo
d’Orlando, “Il Santo marrano” edito
da Pungitopo – ISBN 978-88-89244-62-3 pagg. 123 € 14,00 - e presentato di
recente nella canicolare atmosfera che ha gravato e che grava tuttora
sull’ameno paesotto dei monti Nebrodi, in faccia alle splendide Eolie, anche il
protagonista di quell’eccellente lavoro ha nome Angelo. Angelo Maniscalco, “alguacil” di mestiere, che oggigiorno
lo si definirebbe un investigatore, figura che buca magistralmente gli schermi
della comunicazione di massa. Un antesignano quell’Angelo, datato assai. Poiché
la storia, narrata magistralmente dal professor Sicari, ha il suo dipanarsi dal
24 di aprile dell’anno del signore 1492 al 28 di dicembre dello stesso anno.
Angelo Maniscalco è un uomo che si è riscattato, e si è riscattato nell’unico
modo che gli era possibile al tempo, convertendosi alla religione cristiana,
anzi divenendo cattolico. Poiché l’Angelo del professor Sicari era un ebreo. Un
“marrano” quindi.
E di quella sua condizione, ne porta irrimediabilmente le conseguenze. Le tracce. Come di un marchio, indelebile. Come le cifre tatuate sulle braccia dei dannati di Auschwitz. E di quella sua condizione, di “marrano”, nel sentire e soppesare di continuo la sua esistenza, che è pur sempre precaria, se ne ritrova traccia nel corso della interessante lettura. 1492, ovvero l’inizio dell’età moderna, secondo una vulgata. Con quel tale che, pensando di compiere una certa impresa, ne compì un’altra, aprendo all’universo mondo insperate occasione di ruberie e massacri di innocenti. Tanto per ripetere della “brutalità” della storia dei cosiddetti esseri umani. Ed il libro si apre con una “brutalità”, ovvero il ritrovamento di un cadavere peraltro evirato. Il cadavere di un essere ignoto ai più. Ignoto ma non tanto. Si scoprirà essere, oggi si direbbe, un infiltrato, degli allora servizi segreti. Siamo in tema con i canicolari giorni nostri. Un infiltrato. Il lavoro del professor Sicari sembra poi abbandonare la pista dell’infiltrato morto ammazzato ed evirato per percorrere una molteplicità di piste di narrazione sempre avvincente. Ma l’immagine dell’evirato getta ombre sinistre, inquietanti, come preludio di ben altre sopravvenienti “brutalità” degli umani. Gli illustri intervenuti alla presentazione del lavoro del professor Sicari, presentazione brillantemente coordinata dal dottor Pippo Galipò a nome dell’associazione culturale “Rosso di San Secondo” di Capo d’Orlando, hanno aggettivato il lavoro come romanzo ”storico”. E “moderno”. Ne hanno indagato la trama e l’ordito. Non poteva essere diversamente. La ricostruzione degli ambienti, degli usi e costumi e della lingua trascritta, rappresentano il pezzo forte del brillante lavoro letterario. E sicuramente il lavoro del professor Sicari ha trovato un indispensabile supporto nei preziosi lavori storici dei fratelli Bartolomeo e Giuseppe Lagumina, pubblicati tra gli anni 1884 e 1885, e che hanno dato corpo al Loro celeberrimo “Codice diplomatico dei Giudei di Sicilia”. È che il lavoro del professor Giuseppe Sicari getta un fascio di preziosa luce “divulgativa” su alcune pagine della Storia della Sicilia e non solo, pagine amare, disumane, che sarebbe importante fare conoscere ai più e dibattere affinché certi errori non abbiano a ripetersi nell’imprevidenza dei più, per non dire, nell’indifferenza quasi generale. E la Storia ne ha dato prove e riprove nel corso dei tempi. 1492. Quando le loro maestà cattolicissime, Isabella e Ferdinando, s’incaricarono di dare inizio alla cosiddetta età moderna. Ma a quale prezzo! Di mio aggiungerei una considerazione. Accanto alla storicità del lavoro del professor Sicari mi pare necessario aggiungere di una coralità a tutto tondo. Un “romanzo corale”, anche. A più voci, come in tutti i cori che si rispettino. Solo che, nell’occasione, la coralità ne soffre assai. In che senso? C’è una coralità di fondo, della “ggente” di Licata si direbbe oggi con detestabile populismo, che sente, avverte sulla propria pelle, come le tragedie annunciate e che verranno a realizzarsi in tempi brevi assai, siano ad essa estranee, non volute, avendo intrapreso con la comunità ebraica di Licata una convivenza serena e di reciproco rispetto e vantaggio. Ne fanno fede, nel corso della lettura, le preoccupazioni, a tutti i livelli sociali espresse, per un paventato allontanamento della comunità ebraica dalle mura cittadine. Opportunismo? Interessi immediati da difendere? Quotidianità che ne subirebbe gravi danni? Forse. Ma la paura espressa in più punti del lavoro letterario, da parte dei tanti personaggi, di perdere con l’allontanamento degli ebrei tanti mestieri e tante arti, di quelle che oggigiorno definiremmo arti liberali, rappresenta nella coralità del lavoro del professor Sicari l’emergere di una coscienza che di certo sopravanza la mera necessità, per aprirsi invece alla necessaria pratica dell’accoglienza che è cosa ben diversa dalla semplice accettazione o tolleranza del “diverso”. Una lezione di umanità. Una lezione di sana e genuina lungimiranza. È che le stecche, nel coro, ci sono. E sono le stecche di sempre. Le stecche dell’intolleranza. Le stecche di una religione fattasi chiesa. Una chiesa che è detentrice al contempo di una incerta spiritualità e di un potere temporale, enorme e nefasto. Crudele assai. E nel coro de “Il Santo marrano” quelle voci appaiono decisamente dissonanti, stridule e minacciose come sempre, voci di chi vuole imporre la propria verità come verità incontrovertibile e necessaria per tutti. Una verità semplicemente e tragicamente imposta. La verità del terrore. “Romanzo corale”. Nel quale la coralità di fondo, della “ggente” che fatica e si distrugge in una quotidianità di stenti, stenta a farsi sentire, anzi la sua coralità non si può o non si vuol far sentire in alto, ove tutto si decide, ed è in sofferenza quella coralità, al contrario delle voci altisonanti e false di un clero cieco di fronte alla modernità che, pur tra tante contraddizioni, avanza, clero arrogante, autoreferenziale, “volutamente inconsapevole” della limitatezza propria, capace di soggiogare menti e coscienze, allora come sempre sarà, nella mortificazione delle pluralità e nella imposizione della propria parzialità come verbo universale. Ovvero, l’arte della dissacrazione degli altri, della demonizzazione dei “diversi”. La lezione de “Il Santo marrano” è anche qui; il messaggio alto che ne viene da una storia delle epoche cosiddette oscure, affinché nell’epoca illuminata dalla razionalità, che il secolo dei lumi seppe diffondere, non si abbiano a ripetere le nefandezze proprie degli assolutismi di qualsivoglia origine. Una preziosissima lezione corrente. Per l’oggi. Per sempre. Ha scritto Moni Ovadia, ebreo, nella Sua rubrica del sabato sul quotidiano l’Unità:
(…). Il vero problema è che le istituzioni religiose non hanno saputo cogliere le preziose opportunità offerte dal formarsi di società democratiche e aperte per farsi maestre di una spiritualità laica fondata sull'etica del primato della coscienza, della libertà, dell'uguaglianza della giustizia sociale, dell'amore. Hanno continuato a baloccarsi col potere per garantirsi le solite rendite di posizione, o si sono accaniti con furori normativi sui presunti fondamenti naturali della sessualità, non solo manifestamente falsi ma persino ridicoli, hanno preteso di confinare la famiglia entro schemi storicamente frusti, la famiglia, una struttura sociale in evoluzione e in particolare negli ultimi lustri in impetuosa evoluzione. (…). Le istituzioni religiose si ostinano a pretendere il potere della verità assoluta su l'origine della vita, sul senso ultimo della morte e solo a parole accettano il confronto laico delle opinioni sui grandi temi della bioetica. Ossessionate dal monopolio della verità, le religioni hanno abbandonato l'uomo al culto di Mamona.” Titolo della riflessione del grande artista e pensatore: “Il vuoto delle religioni”. Per l’appunto. Di tutte le religioni, che sono solo parzialità di un più universale sentire. Dell’universalità dello spirito degli esseri umani.
E di quella sua condizione, ne porta irrimediabilmente le conseguenze. Le tracce. Come di un marchio, indelebile. Come le cifre tatuate sulle braccia dei dannati di Auschwitz. E di quella sua condizione, di “marrano”, nel sentire e soppesare di continuo la sua esistenza, che è pur sempre precaria, se ne ritrova traccia nel corso della interessante lettura. 1492, ovvero l’inizio dell’età moderna, secondo una vulgata. Con quel tale che, pensando di compiere una certa impresa, ne compì un’altra, aprendo all’universo mondo insperate occasione di ruberie e massacri di innocenti. Tanto per ripetere della “brutalità” della storia dei cosiddetti esseri umani. Ed il libro si apre con una “brutalità”, ovvero il ritrovamento di un cadavere peraltro evirato. Il cadavere di un essere ignoto ai più. Ignoto ma non tanto. Si scoprirà essere, oggi si direbbe, un infiltrato, degli allora servizi segreti. Siamo in tema con i canicolari giorni nostri. Un infiltrato. Il lavoro del professor Sicari sembra poi abbandonare la pista dell’infiltrato morto ammazzato ed evirato per percorrere una molteplicità di piste di narrazione sempre avvincente. Ma l’immagine dell’evirato getta ombre sinistre, inquietanti, come preludio di ben altre sopravvenienti “brutalità” degli umani. Gli illustri intervenuti alla presentazione del lavoro del professor Sicari, presentazione brillantemente coordinata dal dottor Pippo Galipò a nome dell’associazione culturale “Rosso di San Secondo” di Capo d’Orlando, hanno aggettivato il lavoro come romanzo ”storico”. E “moderno”. Ne hanno indagato la trama e l’ordito. Non poteva essere diversamente. La ricostruzione degli ambienti, degli usi e costumi e della lingua trascritta, rappresentano il pezzo forte del brillante lavoro letterario. E sicuramente il lavoro del professor Sicari ha trovato un indispensabile supporto nei preziosi lavori storici dei fratelli Bartolomeo e Giuseppe Lagumina, pubblicati tra gli anni 1884 e 1885, e che hanno dato corpo al Loro celeberrimo “Codice diplomatico dei Giudei di Sicilia”. È che il lavoro del professor Giuseppe Sicari getta un fascio di preziosa luce “divulgativa” su alcune pagine della Storia della Sicilia e non solo, pagine amare, disumane, che sarebbe importante fare conoscere ai più e dibattere affinché certi errori non abbiano a ripetersi nell’imprevidenza dei più, per non dire, nell’indifferenza quasi generale. E la Storia ne ha dato prove e riprove nel corso dei tempi. 1492. Quando le loro maestà cattolicissime, Isabella e Ferdinando, s’incaricarono di dare inizio alla cosiddetta età moderna. Ma a quale prezzo! Di mio aggiungerei una considerazione. Accanto alla storicità del lavoro del professor Sicari mi pare necessario aggiungere di una coralità a tutto tondo. Un “romanzo corale”, anche. A più voci, come in tutti i cori che si rispettino. Solo che, nell’occasione, la coralità ne soffre assai. In che senso? C’è una coralità di fondo, della “ggente” di Licata si direbbe oggi con detestabile populismo, che sente, avverte sulla propria pelle, come le tragedie annunciate e che verranno a realizzarsi in tempi brevi assai, siano ad essa estranee, non volute, avendo intrapreso con la comunità ebraica di Licata una convivenza serena e di reciproco rispetto e vantaggio. Ne fanno fede, nel corso della lettura, le preoccupazioni, a tutti i livelli sociali espresse, per un paventato allontanamento della comunità ebraica dalle mura cittadine. Opportunismo? Interessi immediati da difendere? Quotidianità che ne subirebbe gravi danni? Forse. Ma la paura espressa in più punti del lavoro letterario, da parte dei tanti personaggi, di perdere con l’allontanamento degli ebrei tanti mestieri e tante arti, di quelle che oggigiorno definiremmo arti liberali, rappresenta nella coralità del lavoro del professor Sicari l’emergere di una coscienza che di certo sopravanza la mera necessità, per aprirsi invece alla necessaria pratica dell’accoglienza che è cosa ben diversa dalla semplice accettazione o tolleranza del “diverso”. Una lezione di umanità. Una lezione di sana e genuina lungimiranza. È che le stecche, nel coro, ci sono. E sono le stecche di sempre. Le stecche dell’intolleranza. Le stecche di una religione fattasi chiesa. Una chiesa che è detentrice al contempo di una incerta spiritualità e di un potere temporale, enorme e nefasto. Crudele assai. E nel coro de “Il Santo marrano” quelle voci appaiono decisamente dissonanti, stridule e minacciose come sempre, voci di chi vuole imporre la propria verità come verità incontrovertibile e necessaria per tutti. Una verità semplicemente e tragicamente imposta. La verità del terrore. “Romanzo corale”. Nel quale la coralità di fondo, della “ggente” che fatica e si distrugge in una quotidianità di stenti, stenta a farsi sentire, anzi la sua coralità non si può o non si vuol far sentire in alto, ove tutto si decide, ed è in sofferenza quella coralità, al contrario delle voci altisonanti e false di un clero cieco di fronte alla modernità che, pur tra tante contraddizioni, avanza, clero arrogante, autoreferenziale, “volutamente inconsapevole” della limitatezza propria, capace di soggiogare menti e coscienze, allora come sempre sarà, nella mortificazione delle pluralità e nella imposizione della propria parzialità come verbo universale. Ovvero, l’arte della dissacrazione degli altri, della demonizzazione dei “diversi”. La lezione de “Il Santo marrano” è anche qui; il messaggio alto che ne viene da una storia delle epoche cosiddette oscure, affinché nell’epoca illuminata dalla razionalità, che il secolo dei lumi seppe diffondere, non si abbiano a ripetere le nefandezze proprie degli assolutismi di qualsivoglia origine. Una preziosissima lezione corrente. Per l’oggi. Per sempre. Ha scritto Moni Ovadia, ebreo, nella Sua rubrica del sabato sul quotidiano l’Unità:
(…). Il vero problema è che le istituzioni religiose non hanno saputo cogliere le preziose opportunità offerte dal formarsi di società democratiche e aperte per farsi maestre di una spiritualità laica fondata sull'etica del primato della coscienza, della libertà, dell'uguaglianza della giustizia sociale, dell'amore. Hanno continuato a baloccarsi col potere per garantirsi le solite rendite di posizione, o si sono accaniti con furori normativi sui presunti fondamenti naturali della sessualità, non solo manifestamente falsi ma persino ridicoli, hanno preteso di confinare la famiglia entro schemi storicamente frusti, la famiglia, una struttura sociale in evoluzione e in particolare negli ultimi lustri in impetuosa evoluzione. (…). Le istituzioni religiose si ostinano a pretendere il potere della verità assoluta su l'origine della vita, sul senso ultimo della morte e solo a parole accettano il confronto laico delle opinioni sui grandi temi della bioetica. Ossessionate dal monopolio della verità, le religioni hanno abbandonato l'uomo al culto di Mamona.” Titolo della riflessione del grande artista e pensatore: “Il vuoto delle religioni”. Per l’appunto. Di tutte le religioni, che sono solo parzialità di un più universale sentire. Dell’universalità dello spirito degli esseri umani.
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