La “sfogliatura” è del 10 di
luglio dell’anno 2011. Scrivevo: Ha
lasciato scritto ad imperitura nostra memoria Berthold Brecht: “Prima di tutto vennero a prendere gli
zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli
omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a
prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un
giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare".
È la magia della scrittura, è la magia
della memoria. S’avanzano. S’avanzano lenti, guardinghi, emaciati i tanti,
terrei, gli occhi affossati nei visi scarni che guardano basso; s’avanzano
tristi dal fondo nero che non è di una rappresentazione teatrale che sia ma dal
fondo nero e profondo della nostra memoria collettiva, ove vivono sepolti
affinché non siano in qualsivoglia forma ricordati; s’avanzano ora che
l’amorevole cura dell’Autore, nell’opera Sua ultima – Giuseppe Sicari (Capo d’Orlando, 1933) “Il tempio perduto” (2011) Anicia editore, pagg. 94 € 13,00 -,
dispiega la sua caritatevole forza e la sua indomita volontà affinché essi
ritornino alla luce, alla luce vivida della memoria, rischiarati da essa e
sottratti al castigo eterno dell’invisibilità, della dimenticanza, affinché
quel loro antico vivere stentato e la loro fine triste segnino in permanenza la
memoria dei viventi dell’oggi.
S’avanzano Francesca Calì e Joanna Bandira, Nicolao Compagna e Agata de Accolla, Antonino de Accolla e Petro de Accolla, Agata de Alotta e Bartolomeo de Andria, Beatrice de Andria e Joannis de Andria, Paulo de Andria ed Angela de Andria coniugi, Michele de Bernardo e Bernardo de Lippo, Bartolomeo de Mazara e Jacopello de Vita, Joannis Guillermoso e Matiota La Delia, Mariano Libertino e Vincenzo Piccolu, Jacobo Rizzo che sono i nomi trascritti, nell’appendice del volume di Giuseppe Sicari, degli abitanti di Licata, nomi rinvenuti, con amorevole ostinazione e cura dall’illustre Autore, negli elenchi stilati da quella che fu la santa Inquisizione nella chiesa della Sicilia dei secoli quindicesimo e sedicesimo. Ed è grazie alla “cura” ostinata ed amorevole del professor Sicari che tornano, editorialmente parlando, all’attenzione nostra, e ad avere quasi una nuova vita, i personaggi già intravisti – nel post del 17 di agosto dell’anno 2010 su questo blog - nell’altro pregevole Suo lavoro “Il santo marrano” - edito da Pungitopo (2010) ISBN 978-88-89244-62-3 pagg. 123 € 14,00 -, colti essi, attraverso i documenti rinvenuti, nell’affanno del vivere nel quale l’intolleranza cieca li aveva al tempo costretti, intolleranza che costringe tuttora e costringerà sempre tutti coloro che siano portatori di una verità diversa, che non siano assimilati alla verità, sempre “parziale”, di una qualsivoglia religione trasformata in “chiesa” intransigente ed assolutistica.
E s’avanza, confuso nella moltitudine di quei perseguitati, anche la figura di un chierico trasmettitore della infausta memoria degli atti persecutori di quel dannato tempo, figura in verità poco caritatevole, per come prescriverebbe la parola diffusa dall’ebreo di Nazareth, un tale chierico che aveva per nome Giovanni Di Giovanni, “canonico della santa metropolitana chiesa di Palermo ed inquisitore fiscale della Suprema Inquisizione della Sicilia” – pag. 9 -. Ché ebbe a scrivere, tra le altre infauste sue cose, essere “…eglino Cristiani in apparenza, ed internamente Ebrei, più perfidi che mai: praticavano in vista degli altri la legge del Vangelo (dallo stesso chierico Giovanni Di Giovanni bellamente disattesa, ovvero incurante egli della legge dell’amore e dell’accoglienza n.d.r.), e di nascosto tutti s’occupavan in adempiere a parte a parte le Giudaiche cerimonie” per la quale cosa sembrò essere cosa santa, buona e giusta a che nell’”anno 1472 si spedì altr’ordine toccante gli Ebrei dell’Alicata, in virtù del quale si comandava agli uffiziali della medesima città che dessero assistenza ed ajuto al P. Maestro Salvo palermitano, Inquisitore contro l’eretica pravità, il quale ivi seriamente si portava per gastigare un tal Francesco Crispo Ebreo di questa comunità che, dopo d’aver ricevuto il Santo battesimo, era tornato peggio che prima a giudaizzare” – trascritto dalla pagina 10 del novello volume del Sicari -. Ove vengon fuori, alla luce che rischiara la memoria, gli affanni quotidiani di quei tempi tristi assai, nei quali tempi tristi accadeva pure che due fratelli, tali Samuele e Merdoch Nifusi, sempre ebrei, risultassero debitori nei confronti di un tale Bartholillo de L’Aquila, puranco egli ebreo, per “somma derivante dal saldo non pagato per l’acquisto di cento salme di grano” – pag. 25 -. Ovvero, della perfidia eterna dei giudei deicidi! Ove si narra pure di un’altra perfidia giudaica di tale Chiccu Conti che “non ha factu stari contenti a li dicti medichi et speciali (Gabriele La Medica, medico, e Brancato de Follis, speziale, ebrei di Licata che avevan prestato soccorso e curato il Conti n.d.r.) li quali petinu cum instancia diviri esseri satisfacti et pagati de eorum labore et medelis”. Il merito grande del libro-ricerca del professor Sicari è di offrire, a tutta vista, uno spaccato di vita di quegli anni torbidi ove la nullità della umana persona faceva un tutt’uno con le disposizioni più aberranti di un istituto della chiesa di Roma, la cosiddetta santa Inquisizione, che permane tuttora come macchia indelebile nella storia di quella chiesa. Traggo ancora dalle pagine 45 e 46 del volume “Il tempio perduto” ove si racconta di tale Mastro Prospero Muxumeco, medico e puranco ebreo, che denuncia l’increscioso fatto di avere “comprato da tempo una schiava musulmana, in buona fede e secondo leggi, l’ho pagata al giusto prezzo e l’ho tenuta pacificamente, senz’alcun problema o contestazione, fino a quando ho saputo – poco fa – che s’è fatta cristiana, ricevendo il battesimo. Chiedo dunque che la schiava sia venduta ad un cristiano, secondo le consuetudini e le leggi, e di poterne incassare il prezzo”. “Pecunia non olet”, giammai. Dalla pregevolissima ricerca storica del professor Sicari si apprende come la vicenda finisse alla graziosa attenzione del viceré d’Acuna e di come la grazia sua disponesse che la schiava, già musulmana ma cristianizzata, “sia venduta a un cristiano abbiente e dabbene, di Licata aut de fora, al miglior prezzo che si possa ottenere, e che il ricavato sia subito depositato in un banco sicuro. Successivamente, esaminata la posizione del medico nei confronti del fisco, siano trattenute le somme da lui eventualmente dovute a qualsiasi titolo ed infine gli sia versato quanto di suo diritto”. E ti pareva che Mastro Prospero Muxumeco, medico e puranco ebreo, non fosse puranco un evasore fiscale? Diffidare è meglio, sempre. Della storia il Nostro non produce il finale, ma riporta di seguito di come l’ebreo Pasquale Sacerdoto il 23 di aprile dell’anno del signore 1456, in tutta cristianità, scambiasse “una schiava mora chiamata Fatima con un copriletto, una mula e nove tarì” – pag. 47 -. E sì che si era tra i cristiani e non tra i deicidi! Per non dire poi degli intrallazzi e della speculazione edilizia dei tempi. Ove si riporta di come un tale a nome Muxa Adila, ebreo licatese, ottenesse in data 28 di maggio dell’anno del signore 1486, in via del tutto straordinaria, per aprire bottega, “in riconoscimento dei servizi resi e da rendere alla corona da parte del predetto”, di “haviri qualsevogla potega in mencza la placza puplica, paganda ipsu Muxa lo lohiero” – pag. 57 -, ovvero, specifica l’Autore, una concessione quasi truffaldina in quanto la “concessione per la bottega deve essere trasmissibile ai suoi eredi e libera da qualsivoglia tassa e gravame” – pag. 58 -. Sembra d’essere ai perigliosi giorni nostri durante i quali si diventa possessori di un immobile d’inestimabile valore ad insaputa del suo abituale occupante, ovvero si gode di un fitto esorbitante di un immobile - € 8.500 mensili – sempre ad insaputa dell’occasionale inquilino. È che la storia si ripete sempre volgendo il più delle volte nella più beffarda delle farse. Non c’è infine da stupirsi di come l’Autore abbia dissepolto, dalle volute oscurità che ammantano la memoria nostra collettiva, il famigerato disposto, sempre contro gli ebrei deicidi, del cosiddetto “viatico”, ovvero dell’obbligo fatto alle comunità ebree della Sicilia di quel maleodorante tempo di “somministrare all’Inquisitore contro l’eretica pravità et alla sua gente tutto il bisognevole per il mantenimento quando che alcuno di essi, per fare diligenze su’ diportamenti de’ medesimi ebrei, si mettesse a viaggiare da un luogo all’altro” – pag. 74 -. Come dire, piove sempre sul bagnato. Conclude il Nostro il Suo pregevole e stimolante lavoro – pag. 81 -: “(…). In base al censimento effettuato alla vigilia dell’espulsione, gli ebrei di Licata erano circa trecento su di un totale di novemila abitanti della città. Di quei trecento si calcola che un terzo si convertirono e restarono. (…)”. E divennero i “ marrani” dei quali si è narrato. Una storia, “Il tempio perduto”, breve ma intelligente e stimolante assai, che tocca ancora una volta le corde molto spesso mute di una memoria collettiva che è invece necessario risvegliare. Da leggere.
S’avanzano Francesca Calì e Joanna Bandira, Nicolao Compagna e Agata de Accolla, Antonino de Accolla e Petro de Accolla, Agata de Alotta e Bartolomeo de Andria, Beatrice de Andria e Joannis de Andria, Paulo de Andria ed Angela de Andria coniugi, Michele de Bernardo e Bernardo de Lippo, Bartolomeo de Mazara e Jacopello de Vita, Joannis Guillermoso e Matiota La Delia, Mariano Libertino e Vincenzo Piccolu, Jacobo Rizzo che sono i nomi trascritti, nell’appendice del volume di Giuseppe Sicari, degli abitanti di Licata, nomi rinvenuti, con amorevole ostinazione e cura dall’illustre Autore, negli elenchi stilati da quella che fu la santa Inquisizione nella chiesa della Sicilia dei secoli quindicesimo e sedicesimo. Ed è grazie alla “cura” ostinata ed amorevole del professor Sicari che tornano, editorialmente parlando, all’attenzione nostra, e ad avere quasi una nuova vita, i personaggi già intravisti – nel post del 17 di agosto dell’anno 2010 su questo blog - nell’altro pregevole Suo lavoro “Il santo marrano” - edito da Pungitopo (2010) ISBN 978-88-89244-62-3 pagg. 123 € 14,00 -, colti essi, attraverso i documenti rinvenuti, nell’affanno del vivere nel quale l’intolleranza cieca li aveva al tempo costretti, intolleranza che costringe tuttora e costringerà sempre tutti coloro che siano portatori di una verità diversa, che non siano assimilati alla verità, sempre “parziale”, di una qualsivoglia religione trasformata in “chiesa” intransigente ed assolutistica.
E s’avanza, confuso nella moltitudine di quei perseguitati, anche la figura di un chierico trasmettitore della infausta memoria degli atti persecutori di quel dannato tempo, figura in verità poco caritatevole, per come prescriverebbe la parola diffusa dall’ebreo di Nazareth, un tale chierico che aveva per nome Giovanni Di Giovanni, “canonico della santa metropolitana chiesa di Palermo ed inquisitore fiscale della Suprema Inquisizione della Sicilia” – pag. 9 -. Ché ebbe a scrivere, tra le altre infauste sue cose, essere “…eglino Cristiani in apparenza, ed internamente Ebrei, più perfidi che mai: praticavano in vista degli altri la legge del Vangelo (dallo stesso chierico Giovanni Di Giovanni bellamente disattesa, ovvero incurante egli della legge dell’amore e dell’accoglienza n.d.r.), e di nascosto tutti s’occupavan in adempiere a parte a parte le Giudaiche cerimonie” per la quale cosa sembrò essere cosa santa, buona e giusta a che nell’”anno 1472 si spedì altr’ordine toccante gli Ebrei dell’Alicata, in virtù del quale si comandava agli uffiziali della medesima città che dessero assistenza ed ajuto al P. Maestro Salvo palermitano, Inquisitore contro l’eretica pravità, il quale ivi seriamente si portava per gastigare un tal Francesco Crispo Ebreo di questa comunità che, dopo d’aver ricevuto il Santo battesimo, era tornato peggio che prima a giudaizzare” – trascritto dalla pagina 10 del novello volume del Sicari -. Ove vengon fuori, alla luce che rischiara la memoria, gli affanni quotidiani di quei tempi tristi assai, nei quali tempi tristi accadeva pure che due fratelli, tali Samuele e Merdoch Nifusi, sempre ebrei, risultassero debitori nei confronti di un tale Bartholillo de L’Aquila, puranco egli ebreo, per “somma derivante dal saldo non pagato per l’acquisto di cento salme di grano” – pag. 25 -. Ovvero, della perfidia eterna dei giudei deicidi! Ove si narra pure di un’altra perfidia giudaica di tale Chiccu Conti che “non ha factu stari contenti a li dicti medichi et speciali (Gabriele La Medica, medico, e Brancato de Follis, speziale, ebrei di Licata che avevan prestato soccorso e curato il Conti n.d.r.) li quali petinu cum instancia diviri esseri satisfacti et pagati de eorum labore et medelis”. Il merito grande del libro-ricerca del professor Sicari è di offrire, a tutta vista, uno spaccato di vita di quegli anni torbidi ove la nullità della umana persona faceva un tutt’uno con le disposizioni più aberranti di un istituto della chiesa di Roma, la cosiddetta santa Inquisizione, che permane tuttora come macchia indelebile nella storia di quella chiesa. Traggo ancora dalle pagine 45 e 46 del volume “Il tempio perduto” ove si racconta di tale Mastro Prospero Muxumeco, medico e puranco ebreo, che denuncia l’increscioso fatto di avere “comprato da tempo una schiava musulmana, in buona fede e secondo leggi, l’ho pagata al giusto prezzo e l’ho tenuta pacificamente, senz’alcun problema o contestazione, fino a quando ho saputo – poco fa – che s’è fatta cristiana, ricevendo il battesimo. Chiedo dunque che la schiava sia venduta ad un cristiano, secondo le consuetudini e le leggi, e di poterne incassare il prezzo”. “Pecunia non olet”, giammai. Dalla pregevolissima ricerca storica del professor Sicari si apprende come la vicenda finisse alla graziosa attenzione del viceré d’Acuna e di come la grazia sua disponesse che la schiava, già musulmana ma cristianizzata, “sia venduta a un cristiano abbiente e dabbene, di Licata aut de fora, al miglior prezzo che si possa ottenere, e che il ricavato sia subito depositato in un banco sicuro. Successivamente, esaminata la posizione del medico nei confronti del fisco, siano trattenute le somme da lui eventualmente dovute a qualsiasi titolo ed infine gli sia versato quanto di suo diritto”. E ti pareva che Mastro Prospero Muxumeco, medico e puranco ebreo, non fosse puranco un evasore fiscale? Diffidare è meglio, sempre. Della storia il Nostro non produce il finale, ma riporta di seguito di come l’ebreo Pasquale Sacerdoto il 23 di aprile dell’anno del signore 1456, in tutta cristianità, scambiasse “una schiava mora chiamata Fatima con un copriletto, una mula e nove tarì” – pag. 47 -. E sì che si era tra i cristiani e non tra i deicidi! Per non dire poi degli intrallazzi e della speculazione edilizia dei tempi. Ove si riporta di come un tale a nome Muxa Adila, ebreo licatese, ottenesse in data 28 di maggio dell’anno del signore 1486, in via del tutto straordinaria, per aprire bottega, “in riconoscimento dei servizi resi e da rendere alla corona da parte del predetto”, di “haviri qualsevogla potega in mencza la placza puplica, paganda ipsu Muxa lo lohiero” – pag. 57 -, ovvero, specifica l’Autore, una concessione quasi truffaldina in quanto la “concessione per la bottega deve essere trasmissibile ai suoi eredi e libera da qualsivoglia tassa e gravame” – pag. 58 -. Sembra d’essere ai perigliosi giorni nostri durante i quali si diventa possessori di un immobile d’inestimabile valore ad insaputa del suo abituale occupante, ovvero si gode di un fitto esorbitante di un immobile - € 8.500 mensili – sempre ad insaputa dell’occasionale inquilino. È che la storia si ripete sempre volgendo il più delle volte nella più beffarda delle farse. Non c’è infine da stupirsi di come l’Autore abbia dissepolto, dalle volute oscurità che ammantano la memoria nostra collettiva, il famigerato disposto, sempre contro gli ebrei deicidi, del cosiddetto “viatico”, ovvero dell’obbligo fatto alle comunità ebree della Sicilia di quel maleodorante tempo di “somministrare all’Inquisitore contro l’eretica pravità et alla sua gente tutto il bisognevole per il mantenimento quando che alcuno di essi, per fare diligenze su’ diportamenti de’ medesimi ebrei, si mettesse a viaggiare da un luogo all’altro” – pag. 74 -. Come dire, piove sempre sul bagnato. Conclude il Nostro il Suo pregevole e stimolante lavoro – pag. 81 -: “(…). In base al censimento effettuato alla vigilia dell’espulsione, gli ebrei di Licata erano circa trecento su di un totale di novemila abitanti della città. Di quei trecento si calcola che un terzo si convertirono e restarono. (…)”. E divennero i “ marrani” dei quali si è narrato. Una storia, “Il tempio perduto”, breve ma intelligente e stimolante assai, che tocca ancora una volta le corde molto spesso mute di una memoria collettiva che è invece necessario risvegliare. Da leggere.
Nessun commento:
Posta un commento