Da “Il Paese
smantellò la patria, la Resistenza la ricostruì” di Eugenio Scalfari,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 26 di aprile dell’anno 2015: (…). Le
brigate partigiane entrarono per prime a Milano, Torino, Genova dopo 18 mesi di
resistenza sulle montagne alpine, prealpine e appenniniche e lo spirito che le
unificò fu l'antifascismo. Nelle varie brigate c'era quello spirito comune a
tutti e molto variamente rappresentato: le brigate Garibaldi erano comuniste ed
erano le più numerose, ma c'erano anche quelle di Giustizia e Libertà del
Partito d'Azione, quelle Matteotti socialiste, quelle cattoliche, quelle monarchiche
ed anche repubblicane e liberali. Complessivamente erano alcune migliaia di
giovani e c'erano anche donne con loro, ma il grosso che comprendeva una parte
considerevole della popolazione italiana da Firenze in tutta la valle del Po e
all'arco alpino era fatto dalle famiglie che abitavano quei luoghi e che
rifornivano di cibo i partigiani e li ospitavano nelle notti in cui scendevano
a valle per procurarsi quanto era loro necessario, comprese armi e munizioni. Fu
questo un movimento di popolo che diede vita alla Resistenza e mise la base
etica e politica di quell'Italia democratica delle istituzioni repubblicane e
della Costituzione che abbiamo votato con le elezioni e il referendum del 2
giugno del 1946. (…). Ma l'inizio di tutti quei moti popolari avvenne prima
d'ogni altro a Napoli con quattro giornate di rivoluzione; le truppe alleate
erano ancora a Salerno e arrivarono nella città partenopea a rivoluzione già
avvenuta che aveva messo i tedeschi in fuga. (…). …c'è da spiegare perché la
Resistenza è considerata da molti storici e politici come il secondo atto del
movimento risorgimentale. (…). Gli esponenti principali di quel glorioso
movimento risorgimentale furono Mazzini, Cavour, Garibaldi ed anche i Cairoli,
Manara, Berchet, Mameli, Bixio, Pisacane e molti altri segregati nelle carceri
austriache. Anche il Risorgimento ebbe le sue ombre che segnarono profondamente
il movimento e in parte ancora si protraggono con il dualismo economico tra
Nord e Sud che proprio allora ebbe inizio. Proprio in quegli anni si manifestò
anche il fenomeno mafioso che è andato via via crescendo fino a diventare
un'organizzazione delinquenziale le cui radici restano al Sud ma le cui
propaggini sono ormai arrivate fino a Roma, all'Emilia, alla Lombardia, al
Piemonte, al Veneto e addirittura a Marsiglia e ad Amburgo. La storia è sempre
e ovunque molto complessa, il che non toglie che nel periodo di cui stiamo ora
parlando il contenuto eticopolitico e sociale sia stato comunque positivo. Ma
il nostro Paese è arrivato alla sua unità e alla trasformazione economica e
sociale con grande ritardo rispetto al resto d'Europa. Questo sfasamento
temporale ha avuto effetti profondamente negativi sulla democrazia italiana che
è stata fin dall'inizio dello Stato unitario fragilissima. La causa è evidente:
molti italiani hanno considerato e tuttora considerano lo Stato come un'entità
estranea o addirittura nemica, oppure come strumento da utilizzare per i propri
particolari interessi anziché a tutela degli interessi generale e del bene
comune. La diffusione non solo della mafia ma delle clientele e della
corruzione così radicata sono fenomeni che hanno come causa prima il ritardo di
secoli della nascita dello Stato unitario, sorto centocinquanta anni fa mentre
in Francia, in Inghilterra, in Austria, in Spagna era nato quattro secoli prima
e con esso economie molto più avanzate rispetto alla nostra. Ogni tanto ci sono
in Italia ventate di patriottismo, ma sono fenomeni passeggeri e non a caso
avvengono quando al vertice dello Stato si insedia - col
favore di popolo - un dittatore. Le istituzioni per molti
italiani sono estranee rispetto ai loro interessi ed è questa la causa della
fragilità democratica che anche ora è tutt'altro che cessata. I malanni di un
Paese fortemente in ritardo rispetto all'orologio della storia dovrebbero tuttavia
produrre degli anticorpi. È così che avviene in ogni organismo. Se vive ma ha
batteri e virus che lo minacciano, gli anticorpi cercano di migliorare la
situazione e di guarire la malattia. Ma accade qualche volta un fenomeno assai
singolare: gli anticorpi invece di aggredire virus, batteri e corpi estranei
che minacciano la vita, si rivolgono contro se stessi e finiscono per
distruggersi lasciando campo libero al male ed anzi aggravandolo con la loro
autodistruzione. Se guardiamo alla storia dell'Italia moderna questo fenomeno è
largamente diffuso. Gli anticorpi dovrebbero mettere riparo alla fragilità
della nostra democrazia e dovrebbe essere il Partito democratico a produrli,
specialmente ora che alla sua guida c'è un personaggio coraggioso, eloquente,
dotato di molte capacità di convincere amici e avversari. Ma il fatto strano
degli anticorpi che distruggono se stessi si sta invece verificando con
preoccupante intensità ed è proprio Matteo Renzi, che adottando lo slogan del
cambiamento, sta cambiando la democrazia italiana non rafforzandola ma
rendendola ancora più fragile sì da consentirgli di decidere e comandare da
solo.
Renzi sta smontando la democrazia parlamentare col rischio di trasformarla in democrazia autoritaria. Forse non ne è consapevole, è possibile, ma quella è la strada che sta battendo (…). …mi piace ricordare come passai la giornata del 25 aprile del 1945. Ero a Sanremo dove avevo frequentato il liceo e dove risiedevo con i miei genitori. Nel '41 andai all'Università di Roma ma per le vacanze estive tornavo a Sanremo dove ritrovato tutti i miei amici, Calvino, Roero, Pigati, Donzella, Cossu, Maiga, Turco e insomma quella che noi stessi chiamavano la banda, e con i quali avevamo vissuto il passaggio dall'adolescenza alla giovinezza. (…). L'8 settembre ci furono due fenomeni contemporanei: gli italiani distrussero il loro Paese e contemporaneamente una parte di essi lo ricostruì su basi nuove, moderne e democratiche. Voglio raccontarla quella storia e spero che interessi i lettori. "Fu una tristissima giornata che per noi arrivò quasi d'improvviso dopo la caduta del fascismo avvenuta nel luglio precedente e la precaria euforia che essa aveva suscitato di una riconquistata libertà. Dall'inizio di agosto avevamo visto con crescente sgomento le colonne motorizzate tedesche che scendevano sull'Aurelia verso sud e lunghi convogli ferroviari che trasportavano nella stessa direzione i carri armati con la croce uncinata sulle fiancate. Finché arrivò l'8 settembre e ancora una volta, come tutte i giorni dall'inizio della guerra, ascoltammo la voce che leggeva le notizie del giornale radio dagli altoparlanti di piazza Colombo. Quella voce la risento ancora quando ci ripenso: leggeva il comunicato di Badoglio con la notizia dell'armistizio e ordinava alle truppe di collaborare con gli angloamericani opponendosi a chiunque volesse impedirlo. All'annuncio del capovolgimento di fronte, peraltro atteso e già avvenuto nella coscienza di gran parte degli italiani, l'intera nazione visse un attimo di silenzio sospeso. Poi cominciò lo sfascio che in poche ore abbatté lo Stato in tutte le sue simboliche presenze: l'esercito prima di tutto, l'autorità del governo, le leggi, la monarchia. Il sentimento comune fu la fuga. Disperdersi. Pensare a sé e alla propria famiglia. Anche il nostro piccolo gruppo di amici si scompose e i nostri destini si separarono. Ma prima facemmo ancora una cosa insieme: ci demmo appuntamento per la mattina dopo e andammo al deposito della Marina, un piccolo edificio di poche stanze, sopra gli scogli sulla strada litoranea per Bordighera. C'erano soltanto quattro marinai che stavano preparando i loro sacchi per andarsene. Noi dicemmo di esser lì per conto del Comune. Loro non sapevano evidentemente nulla dei poteri e delle competenze, ma soprattutto avevano soltanto voglia di lasciare quel luogo al più presto e andarsene a casa propria. Domandammo se c'erano esplosivi. Risposero: "Esplosivi no, ci sono soltanto proiettili per i cannoni costieri". "Ci sono anche i cannoni?". Risposero di no. "I cannoni sono nelle postazioni della guardia costiera. Qui ci sono le munizioni di riserva". Noi dicemmo che le prendevamo in consegna per conto del Comune e ci offrimmo di fare ricevuta dopo l'inventario. Loro risposero che se ne andavano, della ricevuta non avrebbero saputo che farsene. Ci dettero la chiave del deposito e quella del portone. E via. Lavorammo per tre ore a portar su i proiettili e gettarli sugli scogli. Pesavano un bel po' e ne buttammo a mare la metà. Non sapevamo perché stessimo facendo quella fatica assolutamente inutile e priva di senso. Probabilmente fu il nostro modo di esprimere smarrimento e rabbia. Alla fine, stanchi e sudati, decidemmo di piantarla lì. Ci salutammo alla svelta e senza abbracci. Io dissi che appena possibile sarei partito per Roma con mio padre e mia madre. Due giorni dopo telefonai a Italo, gli dissi che partivo col treno delle sei del pomeriggio. Ci salutammo ancora al telefono, ma poi me lo vidi alla stazione. Ero già salito e affacciato al finestrino. Lo ringraziai d'essere venuto. "Ci vedremo presto", gli dissi. "Non credo" rispose lui. Il treno si mosse. Lui disse "ciau" con la u". (…).
Renzi sta smontando la democrazia parlamentare col rischio di trasformarla in democrazia autoritaria. Forse non ne è consapevole, è possibile, ma quella è la strada che sta battendo (…). …mi piace ricordare come passai la giornata del 25 aprile del 1945. Ero a Sanremo dove avevo frequentato il liceo e dove risiedevo con i miei genitori. Nel '41 andai all'Università di Roma ma per le vacanze estive tornavo a Sanremo dove ritrovato tutti i miei amici, Calvino, Roero, Pigati, Donzella, Cossu, Maiga, Turco e insomma quella che noi stessi chiamavano la banda, e con i quali avevamo vissuto il passaggio dall'adolescenza alla giovinezza. (…). L'8 settembre ci furono due fenomeni contemporanei: gli italiani distrussero il loro Paese e contemporaneamente una parte di essi lo ricostruì su basi nuove, moderne e democratiche. Voglio raccontarla quella storia e spero che interessi i lettori. "Fu una tristissima giornata che per noi arrivò quasi d'improvviso dopo la caduta del fascismo avvenuta nel luglio precedente e la precaria euforia che essa aveva suscitato di una riconquistata libertà. Dall'inizio di agosto avevamo visto con crescente sgomento le colonne motorizzate tedesche che scendevano sull'Aurelia verso sud e lunghi convogli ferroviari che trasportavano nella stessa direzione i carri armati con la croce uncinata sulle fiancate. Finché arrivò l'8 settembre e ancora una volta, come tutte i giorni dall'inizio della guerra, ascoltammo la voce che leggeva le notizie del giornale radio dagli altoparlanti di piazza Colombo. Quella voce la risento ancora quando ci ripenso: leggeva il comunicato di Badoglio con la notizia dell'armistizio e ordinava alle truppe di collaborare con gli angloamericani opponendosi a chiunque volesse impedirlo. All'annuncio del capovolgimento di fronte, peraltro atteso e già avvenuto nella coscienza di gran parte degli italiani, l'intera nazione visse un attimo di silenzio sospeso. Poi cominciò lo sfascio che in poche ore abbatté lo Stato in tutte le sue simboliche presenze: l'esercito prima di tutto, l'autorità del governo, le leggi, la monarchia. Il sentimento comune fu la fuga. Disperdersi. Pensare a sé e alla propria famiglia. Anche il nostro piccolo gruppo di amici si scompose e i nostri destini si separarono. Ma prima facemmo ancora una cosa insieme: ci demmo appuntamento per la mattina dopo e andammo al deposito della Marina, un piccolo edificio di poche stanze, sopra gli scogli sulla strada litoranea per Bordighera. C'erano soltanto quattro marinai che stavano preparando i loro sacchi per andarsene. Noi dicemmo di esser lì per conto del Comune. Loro non sapevano evidentemente nulla dei poteri e delle competenze, ma soprattutto avevano soltanto voglia di lasciare quel luogo al più presto e andarsene a casa propria. Domandammo se c'erano esplosivi. Risposero: "Esplosivi no, ci sono soltanto proiettili per i cannoni costieri". "Ci sono anche i cannoni?". Risposero di no. "I cannoni sono nelle postazioni della guardia costiera. Qui ci sono le munizioni di riserva". Noi dicemmo che le prendevamo in consegna per conto del Comune e ci offrimmo di fare ricevuta dopo l'inventario. Loro risposero che se ne andavano, della ricevuta non avrebbero saputo che farsene. Ci dettero la chiave del deposito e quella del portone. E via. Lavorammo per tre ore a portar su i proiettili e gettarli sugli scogli. Pesavano un bel po' e ne buttammo a mare la metà. Non sapevamo perché stessimo facendo quella fatica assolutamente inutile e priva di senso. Probabilmente fu il nostro modo di esprimere smarrimento e rabbia. Alla fine, stanchi e sudati, decidemmo di piantarla lì. Ci salutammo alla svelta e senza abbracci. Io dissi che appena possibile sarei partito per Roma con mio padre e mia madre. Due giorni dopo telefonai a Italo, gli dissi che partivo col treno delle sei del pomeriggio. Ci salutammo ancora al telefono, ma poi me lo vidi alla stazione. Ero già salito e affacciato al finestrino. Lo ringraziai d'essere venuto. "Ci vedremo presto", gli dissi. "Non credo" rispose lui. Il treno si mosse. Lui disse "ciau" con la u". (…).
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