Ovvero quell’”ircocervo” della politica italiana. Tratto
da “Abbiamo sbagliato rottamazione
premiando solo la fedeltà. Rimettiamo i piedi nel fango”, intervista di
Concita De Gregorio a Sara Biagiotti, ex sindaco di Sesto Fiorentino, commercialista
presso CNA, intervista pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 7 di aprile 2018: (…). «C’era
un sogno che si è visto sparire. Il più grande partito del centrosinistra
europeo che perde 6 milioni di voti non è una sconfitta: è una disfatta. Il
minimo storico, ho controllato: nel 2001 i Ds presero più voti di oggi. In
questi ultimi anni sono stata zitta, ma è stato un travaglio personale
doloroso. Se ora parlo è perché penso che se il Pd vuole risollevarsi bisogna
dire le cose che si sentono, sinceramente».
Lei era sul camper 2012, la rottamazione.
Cosa non ha funzionato? «A parte il termine, molto criticato, la rottamazione
riassumeva un’esigenza che tutti sentivamo da anni: andare verso il
rinnovamento significava più equità, giustizia, trasparenza, merito. Lotta alla
corruzione, all’evasione. Non significava certo sostituire un gruppo di potere
con un altro».
È andata cosi? Un gruppo di potere al posto
di un altro? «Purtroppo. Potere significa potere di fare le cose, cambiarle.
Non tenere il potere per sé. Guardi le banche».
Degli scandali bancari lei parlò alla
Leopolda del 2012. «Infatti. È la mia formazione. Mi occupo di bilanci. E poi
ho letto i sondaggi: a ottobre 2017 in due mesi si è perso il 3 per cento dei
consensi sulle banche. Il partito è stato identificato con l’establishment».
Era un po’ difficile non farlo col caso di
Banca Etruria. «Capisco che l’equazione sia stata Etruria uguale Boschi uguale
Renzi. Però si doveva fare in modo che gli organismi che dovevano vigilare
vigilassero senza entrare nel merito, non bisognava schierarsi. Rispondere alle
accuse a livello personale, ma non schierare il partito e sovrapporlo a quella
vicenda».
Ha scritto di aver vissuto questi anni, dopo
l’esperienza da sindaco, in assoluta solitudine. «Politica. Sul piano personale
ho tanti interessi, lavoro. Ma ho toccato con mano la perdita delle relazioni
umane nel partito. I rapporti di comunità si sono persi. Moltissime persone
sono state lasciate sole. In tanti mi hanno scritto: da tutta Italia, amministratori.
Anche noi ci siamo sentiti soli, hanno detto. Un partito che si è chiuso in
gruppi sempre più ristretti invece che aprirsi, parlare, coinvolgersi».
Boschi e Bonafè, le due compagne della
celebre foto? «Mai più sentite».
È successo qualcosa tra voi? «Niente. Che è
pure peggio».
E Renzi, il segretario? «Sette mesi dopo la
mia cessazione da sindaco, il 29 febbraio 2016: ho chiesto io l’incontro, per
parlare della situazione di Sesto alla vigilia del voto. È stato cordiale,
abbiamo parlato. Era l’epoca della campagna referendaria. Lui era d’accordo
sulla candidatura di un candidato che poi ha perso le elezioni. Ma non è stato
suo demerito. Nessuno ha voluto ascoltare la pressione dell’opinione pubblica
contraria alle due grandi opere che il Pd aveva sostenuto, l’aeroporto e il
termovalorizzatore. Ora il presidente della Regione, Rossi, lo stesso di
allora, ha cambiato idea e l’impianto non lo vuole più fare. Poteva dirlo
prima. Ci abbiamo perso la città. Un bel capolavoro».
Ha detto: in un partito non può contare solo
la fedeltà. «È così. La rottamazione doveva fare spazio ai migliori. Non puoi
scegliere quelli che ti sono più fedeli. Devi circondarti di persone più brave
di te. Se vuoi solo chi ti dice di sì hai un consenso illusorio, prima o poi ti
si ritorce contro. I fedelissimi ti fanno perdere il contatto con la realtà, ti
danno sempre ragione. Non si può considerare chi dissente come un nemico: lo
spirito critico è indispensabile. Invece ho visto denigrazione sistematica del
dissenso, cinismo».
Cinismo per ottenere cosa? «Per emergere.
Non solo tra le cosiddette correnti ma anche all’interno di un gruppo
ristretto. Ma se tra di noi, come partito, non siamo un gruppo, dove si vuole
andare? In un clima in cui ognuno cerca di prevalere sull’altro: le persone non
ci votano. Se non siamo comunità nel partito come possiamo pensare di diventare
comunità coi cittadini?».
Lei ha scritto: la gente ci odia. «È la
sensazione che ho, in autobus in treno nei luoghi normali. Gli avevamo dato una
speranza di cambiamento. Davvero c’era la sensazione di poter fare quel passo
in avanti che in tanti volevano fare. Il fatto di non essere riusciti è stato
percepito come un tradimento. Da noi non se lo aspettavano. Ci avevano
creduto».
Dove si è rotto il patto con gli elettori? «Nella
perdita di empatia con le persone reali. Guardi: Unioni civili, testamento
biologico sono cose bellissime, di grande civiltà. Ma alla gente comune di
questa roba gliene importa il giusto. Quelle sono leggi del nostro Dna ma devi
anche essere capace di stare vicino alle persone: piccole cose quotidiane, come
portare i figli a scuola se non hai mezzi di trasporto. Il lavoro, le
periferie. Anche le cose fatte non si sono condivise. La scuola, gli 80 eúro,
il jobs act. Non è stata una buona idea mettersi sulla sponda opposta dei
sindacati. È vero che ciascuno ha le sue responsabilità: il sindacato nella
perdita di una generazione – alla politica e alla militanza – ne ha molte».
Perché ha tutelato i già tutelati? «Certo. Il sindacato è indispensabile, lo dico prima. Ma ha sbagliato. Ha per lungo tempo anteposto la difesa di chi i diritti li aveva già a quella di chi non ne aveva alcuno. Ha spinto i ragazzi ad andarsene, li ha lasciati nel precariato. Come potevi pensare che si fidassero dite? Poi alla fine sono i pensionati che mantengono i nipoti senza lavoro, nelle famiglie. È un sistema da ripensare nel suo insieme. Servirebbero intellettuali».
Categoria molto impopolare ultimamente. «L’esaltazione
dell’incompetenza non è la strada. Per affrontare i grandi temi del terzo
millennio bisogna che qualcuno faccia una riflessione generale e ci vogliono
studio e approfondimento. Bisogna leggere, sapere, capire: solo dopo esprimere
il pensiero. Invece tutti hanno opinioni ma pochi hanno idee».
Leggo dal suo intervento: «Atteggiamenti
arroganti e talvolta prepotenti hanno creato disorientamento». «Sì. Non si va
alle assemblee solo per alzare la mano. È vero che è sempre successo, ma
abbiamo replicato gli errori del passato».
Leggo ancora: «Non possiamo essere il
partito degli aperitivi». «Mi ha fatto ribollire il sangue, in campagna
elettorale, leggere gli inviti: si fa l’iniziativa, si fa l’aperitivo per Caio
e Sempronio. Ma cosa? Aperitivo di che? Ti devi preparare e venire a discutere.
Non vuoi sentire le critiche delle persone? Lo so che in una sala di tre o
quattrocento persone arrivano anche gli insulti. Ma se vuoi entrare in contatto
ti devi mettere con loro. Il partito degli aperitivi è il partito delle èlite.
Bisogna tornare coi piedi nel fango».
Cosa fa in Confederazione artigiani? «Faccio
conti. Sono commercialista. Vedo la crisi. Le leggi importanti riguardano le
grandi società, ma l’Italia è fatta da aziende medio piccole al 95 per cento.
Molte sono ditte individuali, fatturati molto bassi. Farle crescere è
difficile. Bisogna aggregarsi in consorzi, per esempio per gestire un appalto:
un piccolo artigiano non potrà mai da solo. Il muratore l’idraulico
l’elettricista. Faccio questo. E poi c’è l’artigianato artistico che potrebbe
essere immenso motore di sviluppo: il restauro, i liutai, la ceramica. Sono
eccezionali, eccellenze. Andrebbero preservati, aiutati. Chi ci pensa?».
Tornerebbe a candidarsi a sindaco? «Io sono
un soldato, faccio quello di cui c’è bisogno. Sto dentro una comunità politica.
Ho fatto il sindaco molto volentieri perché mi è stato chiesto dal mio partito.
Oggi mi pare che ci sia bisogno di militanza, a partire dall’esempio. La
sobrietà, per dirne una. Una persona di sinistra deve essere sobria. Bisogna
vivere come vivono le persone che vogliamo rappresentare, con i piedi nel
fango, e guardare al futuro. Per me fare politica è questo: camminare per
strada e guardare l’orizzonte, immaginando il cambiamento».
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