Tanto per aggiornare i termini
della questione trascrivo quanto Curzio Maltese, nella Sua rubrica “Contromano”
sul settimanale “il Venerdì” del 30 di marzo 2018, ha scritto in “I padroni sì che hanno fantasia”: (…). L’utopia,
nel senso della capacità d’immaginare e preparare un futuro impensabile ai
contemporanei, era un tempo anche il mestiere della sinistra, prima che finisse
prigioniera di un ceto di burocrati, scambiando la rassegnazione per
realpolitik. Oggi il compito della sinistra è censurare e auto censurare qualsiasi
fantasia progressiva. Lo si vede nel dibattito sul cosiddetto reddito di
cittadinanza, termine improprio. Si tratta di un semplice aiuto temporaneo a
chi è in cerca di lavoro ed esiste in varie forme nella maggioranza dei Paesi
europei, ma in Italia, con un quarto di popolazione sulla soglia della povertà,
è presentato come il sogno di Pulcinella. Non parliamo di fare una patrimoniale
per aggiustare i conti pubblici e abbassare le tasse ai lavoratori, dio ne
scampi. La forza dell’utopia è passata negli ultimi decenni nel campo del
potere. La scuola di Chicago, il turbo liberismo, sono stati fonti inesauribili
di idee pazze e puntualmente realizzate. Nessuno poteva immaginare trent’anni
fa che si sarebbero abbassate le tasse soltanto ai più ricchi o che i giovani
avrebbero accettato lavori precari e perfino gratuiti o che si potesse un
giorno privatizzare tutto, dalla sanità all’acqua. Uno straordinario esempio di
utopia del potere sono i monopoli di Internet. Quattro miliardari americani,
ricchi come metà della popolazione terrestre, cui è lasciato l’immenso potere
della rete, in un regime di Far West delle regole, senza un contraltare
pubblico e nemmeno chiedere in cambio che paghino le tasse: pazzesco. È
un’illogica utopia, (…), l’azione della Bce. Di fronte a un sistema bancario
cronicamente insolvente, fondato sulla speculazione da casinò dei derivati,
Francoforte ha reagito con la più folle delle mosse. Stampare montagne di euro.
Undicimila miliardi creati dal nulla, senza alcun legame con l’economia reale,
da pompare nel sistema finanziario. Una bolla al cui confronto i precedenti
storici impallidiscono, dalla Tulipomania del Seicento fino ai Bitcoin, sono
scherzi da bambini. Undicimila miliardi, uguale cinquanta milioni di posti di
lavoro, la scomparsa della povertà dal continente. Tutto questo mentre i
socialisti europei bocciavano come spreco assurdo l’idea di trovare qualche
decina di miliardi per evitare il massacro della Grecia, che aveva già ripagato
in interessi e più volte il proprio debito pubblico. Non abbiatene a
male; è che non mi pare essere stato conveniente avere staccato la famosa “spina”
della cittadinanza vigile e riflessiva così come è avvenuto nel nostro Paese. Abbagliati
da mirabolanti ragionamenti e prospettive che era evidente non si sarebbero mai
realizzate. Che dire ora? Che fare? Quali scusanti avanzare per la nostra collettiva
noncuranza, per la nostra dabbenaggine? Eppure segnali premonitori non sono
mancati.
Ne scriveva il 15 di agosto dell’anno 2011 – sul quotidiano la Repubblica - Nadia Urbinati nel Suo “La vittoria del neo-liberalismo”, che di seguito trascrivo in parte; così come ne aveva scritto in “La politica ai tempi dell’estrema destra economica” Furio Colombo su “il Fatto quotidiano”, analisi quest’ultima che ci aveva iniziati, allargando e sollevando lo sguardo a volte colpevolmente miope, alla fase nuova della politica planetaria che dall’illustre Autore veniva contraddistinta come l’era della “estrema destra economica” che soppianta, nelle decisioni dei governi, l’era della “estrema destra politica” con tutto ciò che ne deriva in fatto di sovranità degli stessi stati nazionali. Non abbiatene quindi a male se la lettura tratta dalla analisi di Nadia Urbinati ricalca il liet-motiv delle analisi fatte anche da Furio Colombo. Durante un incontro con carissimi amici lamentavo della sensazione provata di un impoverimento della mia vita intellettuale ed anche spirituale ogni qual volta la notizia della dipartita di uno degli ultimi “maestri” del pensiero mi coglie, infondendomi come un improvviso smarrimento che si accompagna al dolore per la scomparsa di quelle personalità. Scriveva con una lungimiranza che ha dello straordinario, negli anni che vanno dal 1835 al 1840, un certo Alexis de Tocqueville nella Sua celebre opera “De la démocratie en Amérique”: (…). La specie di oppressione da cui i popoli democratici sono minacciati non somiglierà a nulla di quel l’ha preceduta al mondo; i nostri contemporanei non riuscirebbero a trovarne l’immagine nei loro ricordi. Cerco invano in me stesso un’espressione che riproduca esattamente l’idea che io me ne formo e che la racchiuda. Gli antichi nomi di dispotismo e di tirannia non sono appropriati. La cosa nuova, bisogna quindi sforzarsi di definirla, dato che non riesco a denominarla. (…). Ecco il punto: “la cosa nuova” che si affaccia all’orizzonte del mondo bisogna capirla, conoscerla a fondo, per contrapporsi ad essa con la consapevolezza necessaria e la combattività che da essa ne deriva. Brancolare nel buio non giova. I “maestri” del pensiero che ci accompagnano nel periglioso tragitto del vivere ci soccorrono come sempre. È necessario cercarli; è necessario trovarli; è necessario prestare loro l’ascolto dovuto. Ha scritto Nadia Urbinati: (…). Il mercato finanziario, non il mercato semplicemente, sembra essere la nuova sorgente di sovranità, una sorgente che per di piú è insindacabile anche perché impossibile da localizzare, impersonale e soggetta a leggi che vengono concepite e applicate come se fossero naturali. Di fronte a questa quasi divinità o naturalità la decisione politica sembra impotente: incapace di imporre le sue ragioni che dovrebbero essere quelle di una vita decente e liberamente progettata da parte degli uomini e delle donne che vivono in società. Eppure la politica non è un terreno neutro e, diciamo pure, non è incolore rispetto al sovrano mercato. Evidentemente esiste una politica organica o funzionale a questa fase del dominio dei mercati finanziari che è disposta a ordinare le scelte secondo la logica della rendita. La politica neoliberale (ciò che da noi si chiama liberismo) è l´ideologia che caratterizza questo tempo e le manovre dei governi – con più o meno resistenza – ne sono il segno. (…). Il dominio del denaro, più che il dominio del mercato, è il centro del problema, e la trasformazione della scienza economica in scienza del business e applicazione del calcolo matematico ai fattori numerici dei movimenti di borsa ne è il segno distintivo. È sufficiente affacciarsi alla porta dei dipartimenti di economia di tutte le università del pianeta per comprendere la dimensione di questa trasformazione; la trasformazione di questa scienza da scienza umana a scienza matematica è il riflesso del potere insindacabile del mercato finanziario sulla società. E la politica, una parte di essa, si sente a suo agio con questa trasformazione. Si tratta di quella particolare coniugazione del liberalismo che, soprattutto a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, ha creato il fatto semplice dell´interesse individuale (self-interest), facendone un attributo che appartiene a ciascuno di noi come una qualità sostanziale che determina la nostra razionalità e il calcolo dei costi e dei benefici che in ogni momento della giornata guida le nostre azioni, siano esse di tipo sentimentale o economico appunto. La concezione dottrinaria dell´interesse sulla quale il pensiero neo-liberale (in gergo liberista) si è posizionato nel corso dei decenni ha avuto di mira un obiettivo centrale: quello di tenere la legge fuori dalla sfera dei beni e la formazione della ricchezza. La legge, ovvero lo Stato, è chiamato a intervenire quando l´irrazionalità delle passioni o dell´errore di conoscenza interrompono il fluire delle scelte: quindi Stato gendarme e regolatore delle relazioni sociali per contenere i conflitti e sostenere al massimo chi è sconfitto nella lotta per la vita. (…). Il liberalismo conservatore del nostro tempo è nato all´interno della società democratica come una gemmazione del liberalismo economico; si è manifestato come una reazione a ogni forma di società che vuole programmare le sue scelte economiche per poter distribuire oneri e beni più equamente; non è un caso se insieme alla stretta sulla spesa dello Stato i mercati finanziari chiedano di lasciare a loro tutti i servizi che in questi ultimi sessant´anni sono stati finanziati, regolati e gestiti dai governi. Il neo-liberalismo è la politica di oggi. Ma è politica. È comunque un uso del potere dello Stato per attuare piani e progetti che hanno committenti e scopi specifici e razionali. E la sua dottrina è la seguente: tutti i beni che le società producono e dai quali si può estrarre un profitto devono essere lasciati al mercato – se necessario anche la coercizione (in alcuni stati degli Stati Uniti anche i servizi carcerari sono gestiti da società private). Ciò che si chiama declino della sovranità degli Stati sembra dunque rassomigliare più a un riassestamento del rapporto tra Stato e sfera economica in una direzione che va verso uno Stato socialmente irrilevante e coercitivamente forte. Lo Stato non scompare, né la sua sovranità si erode, si ridefinisce invece in funzione di un ruolo solo che è essenzialmente quello di gestire l´uso della violenza.(…).
Ne scriveva il 15 di agosto dell’anno 2011 – sul quotidiano la Repubblica - Nadia Urbinati nel Suo “La vittoria del neo-liberalismo”, che di seguito trascrivo in parte; così come ne aveva scritto in “La politica ai tempi dell’estrema destra economica” Furio Colombo su “il Fatto quotidiano”, analisi quest’ultima che ci aveva iniziati, allargando e sollevando lo sguardo a volte colpevolmente miope, alla fase nuova della politica planetaria che dall’illustre Autore veniva contraddistinta come l’era della “estrema destra economica” che soppianta, nelle decisioni dei governi, l’era della “estrema destra politica” con tutto ciò che ne deriva in fatto di sovranità degli stessi stati nazionali. Non abbiatene quindi a male se la lettura tratta dalla analisi di Nadia Urbinati ricalca il liet-motiv delle analisi fatte anche da Furio Colombo. Durante un incontro con carissimi amici lamentavo della sensazione provata di un impoverimento della mia vita intellettuale ed anche spirituale ogni qual volta la notizia della dipartita di uno degli ultimi “maestri” del pensiero mi coglie, infondendomi come un improvviso smarrimento che si accompagna al dolore per la scomparsa di quelle personalità. Scriveva con una lungimiranza che ha dello straordinario, negli anni che vanno dal 1835 al 1840, un certo Alexis de Tocqueville nella Sua celebre opera “De la démocratie en Amérique”: (…). La specie di oppressione da cui i popoli democratici sono minacciati non somiglierà a nulla di quel l’ha preceduta al mondo; i nostri contemporanei non riuscirebbero a trovarne l’immagine nei loro ricordi. Cerco invano in me stesso un’espressione che riproduca esattamente l’idea che io me ne formo e che la racchiuda. Gli antichi nomi di dispotismo e di tirannia non sono appropriati. La cosa nuova, bisogna quindi sforzarsi di definirla, dato che non riesco a denominarla. (…). Ecco il punto: “la cosa nuova” che si affaccia all’orizzonte del mondo bisogna capirla, conoscerla a fondo, per contrapporsi ad essa con la consapevolezza necessaria e la combattività che da essa ne deriva. Brancolare nel buio non giova. I “maestri” del pensiero che ci accompagnano nel periglioso tragitto del vivere ci soccorrono come sempre. È necessario cercarli; è necessario trovarli; è necessario prestare loro l’ascolto dovuto. Ha scritto Nadia Urbinati: (…). Il mercato finanziario, non il mercato semplicemente, sembra essere la nuova sorgente di sovranità, una sorgente che per di piú è insindacabile anche perché impossibile da localizzare, impersonale e soggetta a leggi che vengono concepite e applicate come se fossero naturali. Di fronte a questa quasi divinità o naturalità la decisione politica sembra impotente: incapace di imporre le sue ragioni che dovrebbero essere quelle di una vita decente e liberamente progettata da parte degli uomini e delle donne che vivono in società. Eppure la politica non è un terreno neutro e, diciamo pure, non è incolore rispetto al sovrano mercato. Evidentemente esiste una politica organica o funzionale a questa fase del dominio dei mercati finanziari che è disposta a ordinare le scelte secondo la logica della rendita. La politica neoliberale (ciò che da noi si chiama liberismo) è l´ideologia che caratterizza questo tempo e le manovre dei governi – con più o meno resistenza – ne sono il segno. (…). Il dominio del denaro, più che il dominio del mercato, è il centro del problema, e la trasformazione della scienza economica in scienza del business e applicazione del calcolo matematico ai fattori numerici dei movimenti di borsa ne è il segno distintivo. È sufficiente affacciarsi alla porta dei dipartimenti di economia di tutte le università del pianeta per comprendere la dimensione di questa trasformazione; la trasformazione di questa scienza da scienza umana a scienza matematica è il riflesso del potere insindacabile del mercato finanziario sulla società. E la politica, una parte di essa, si sente a suo agio con questa trasformazione. Si tratta di quella particolare coniugazione del liberalismo che, soprattutto a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, ha creato il fatto semplice dell´interesse individuale (self-interest), facendone un attributo che appartiene a ciascuno di noi come una qualità sostanziale che determina la nostra razionalità e il calcolo dei costi e dei benefici che in ogni momento della giornata guida le nostre azioni, siano esse di tipo sentimentale o economico appunto. La concezione dottrinaria dell´interesse sulla quale il pensiero neo-liberale (in gergo liberista) si è posizionato nel corso dei decenni ha avuto di mira un obiettivo centrale: quello di tenere la legge fuori dalla sfera dei beni e la formazione della ricchezza. La legge, ovvero lo Stato, è chiamato a intervenire quando l´irrazionalità delle passioni o dell´errore di conoscenza interrompono il fluire delle scelte: quindi Stato gendarme e regolatore delle relazioni sociali per contenere i conflitti e sostenere al massimo chi è sconfitto nella lotta per la vita. (…). Il liberalismo conservatore del nostro tempo è nato all´interno della società democratica come una gemmazione del liberalismo economico; si è manifestato come una reazione a ogni forma di società che vuole programmare le sue scelte economiche per poter distribuire oneri e beni più equamente; non è un caso se insieme alla stretta sulla spesa dello Stato i mercati finanziari chiedano di lasciare a loro tutti i servizi che in questi ultimi sessant´anni sono stati finanziati, regolati e gestiti dai governi. Il neo-liberalismo è la politica di oggi. Ma è politica. È comunque un uso del potere dello Stato per attuare piani e progetti che hanno committenti e scopi specifici e razionali. E la sua dottrina è la seguente: tutti i beni che le società producono e dai quali si può estrarre un profitto devono essere lasciati al mercato – se necessario anche la coercizione (in alcuni stati degli Stati Uniti anche i servizi carcerari sono gestiti da società private). Ciò che si chiama declino della sovranità degli Stati sembra dunque rassomigliare più a un riassestamento del rapporto tra Stato e sfera economica in una direzione che va verso uno Stato socialmente irrilevante e coercitivamente forte. Lo Stato non scompare, né la sua sovranità si erode, si ridefinisce invece in funzione di un ruolo solo che è essenzialmente quello di gestire l´uso della violenza.(…).
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