Da “Mediaset
Premier” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 17 di
aprile 2018: Chi vuole sbirciare dietro le quinte della politica di questi giorni
deve ricordare quel che accadde cinque anni fa. Anche allora si era votato da
poco, le urne avevano partorito tre blocchi non autosufficienti e pareva quasi
impossibile che due di essi facessero un governo. Allora però c’era un
presidente – Napolitano, fra l’altro in scadenza – smaccatamente di parte (la
sua), portatore di un progetto politico ben preciso: l’inciucio Pd-Pdl-Centro,
già sperimentato col governo Monti e platealmente bocciato dagli elettori, per
tagliar fuori i 5Stelle. (…). Bersani puntava a un “governo di cambiamento” e
di minoranza (almeno al Senato, dove neppure col Porcellum la coalizione Pd-Sel
aveva i numeri), presieduto da lui con l’appoggio esterno dei 5Stelle, e giurava
di non volersi alleare con B.: proprio come oggi Di Maio, pronto a governare
col Pd o con la Lega, ma non con B.. Il quale nel 2013 smaniava per rendersi
indispensabile a un governo purchessia, da ricattare per i soliti affari suoi:
proprio come oggi. I 5Stelle, atterrati su un pianeta inesplorato, sospettavano
di tutti e non volevano allearsi con nessuno: proprio come il Pd oggi. In
quello stallo – culminato nel famoso incontro-scontro in streaming fra Bersani
& Letta e Crimi & Lombardi – si infilò B., con la complicità delle sue
quinte colonne del Pd, che lavorarono con lui a logorare Bersani fino a
scippargli il partito. In pochi giorni, complice l’iniziale ottusità degli
inesperti grillini che si fecero usare dal partito dell’inciucio senza neppure
accorgersene, il Caimano che aveva appena perso 6 milioni e mezzo di voti tornò
protagonista e si riprese il centro della scena piazzando chi voleva lui prima
al Quirinale e poi a Palazzo Chigi. Anche allora, come sempre e come oggi, a
fare la spola fra i palazzi del potere c’erano gli eterni mediatori del Partito
Mediaset: Fedele Confalonieri e Gianni Letta. Due fiduciari di un’azienda
privata, mai eletti da nessuno né investiti di incarichi politici in FI, eppure
regolarmente ricevuti con tutti gli onori come ambasciatori di uno Stato
sovrano e alleato. Il loro obiettivo, tramontata la candidatura al Colle
dell’amico Franco Marini (scelto da B. in una rosa di nomi proposti dal Pd),
era lasciare Re Giorgio lì dov’era, per sventare la minaccia di un antiberlusconiano
storico e impenitente come Prodi al Quirinale e il coinvolgimento dei 5Stelle
nell’area di governo. Però B. non aveva i numeri per farcela: gli occorreva una
sponda nel Pd. Tanto più che intanto il M5S era uscito dal freezer candidando
Rodotà al Quirinale, appoggiato da Sel e molto amato dagli elettori di
centrosinistra. E Grillo aveva dichiarato al Fatto: “Abbiamo proposte come
l’anticorruzione, la legge sul conflitto d’interessi e quella
sull’ineleggibilità della Salma (Berlusconi, ndr). Bersani ci pensi. Eleggere
Rodotà insieme sarebbe il primo passo per governare insieme”. Non un governo di
minoranza appoggiato dall’esterno, ma un governo politico con tutti i crismi:
un incubo, per il Partito del Biscione e per tutto l’Ancien Régime, che avrebbero
perso il controllo. B. mosse le sue pedine nel Pd, fece balenare a D’Alema un
possibile appoggio per il Colle e allo scalpitante Renzi le elezioni anticipate
che gli avrebbero consentito di candidarsi a premier. La mattina del 19 aprile,
per tenere unito il Pd, Bersani propose Prodi all’assemblea dei suoi grandi
elettori. Il Professore – (…) – conosceva bene i suoi polli: un pezzo del Pd
era di proprietà di B., infatti il Corriere parlava di 120 parlamentari dem
pronti a firmare un documento contro di lui. Dunque pregò Bersani di procedere
con voto segreto. Ma appena il segretario disse “Prodi”, l’assemblea scattò in
piedi: standing ovation, approvato per acclamazione. E Sel si accodò. Bersani
avvertì telefonicamente il Prof, ma non lo convinse. Prodi chiamò la moglie
Flavia, a Bologna: “Vai pure alla tua riunione tranquilla, tanto presidente non
lo divento di sicuro”. La sua candidatura fu lanciata alla quarta votazione, la
prima con maggioranza del 50% più 1. Bastavano 504 voti su 1007 elettori. Pd e
Sel ne avevano 496: con una decina di centristi montiani in libera uscita era
fatta. E infatti alcuni montiani e qualche grillino votarono Prodi. Al quale
però mancarono 101 voti. Quindi i franchi traditori erano almeno 120. Tutti
targati Pd: Sel aveva marchiato tutte le sue schede facendo scrivere dai suoi
“R. Prodi”. Renzi, da Firenze, fu il più lesto ad annunciare: “La candidatura
Prodi non esiste più”. Anche perché, con Prodi, spariva pure il suo rivale
Bersani, che si dimise subito. Fu un’operazione di killeraggio in grande stile,
studiata a tavolino nei minimi dettagli, col concorso attivo di tutte le
correnti (prodiani esclusi). Tanti sicari in simultanea, (…). E un solo
utilizzatore finale: B., che chiamò subito Napolitano per chiedergli di
restare. Questi, che ancora il 14 aprile definiva “pasticcio ridicolo”
l’eventuale rielezione, l’indomani accettò. Previo pellegrinaggio al Colle di
tutti i leader sconfitti alle elezioni. Il Corriere riferì di un “lungo,
caloroso abbraccio” fra B. e Re Giorgio, che lo ringraziò per il suo
“comportamento da statista”. Così Napolitano fu rieletto il 20 aprile e il 24
incaricò Letta jr. per il governo di larghe intese. E l’Italia, dal possibile
rinnovamento, ripiombò in piena Restaurazione. Chissà quanti di quei 120 traditori
siedono ancora tra i banchi del Pd. Lo vedremo presto, quando dovranno
scegliere fra un premier di cambiamento e un Mediaset Premier. L’ennesimo.
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