"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 15 ottobre 2023

Memoriae. 83 Federico Garcia Lorca: «C’è gente che pensa che i figli si facciano in un giorno. Però ci vuole tempo. Molto».

                                Sopra. Pedro Almodovar e la Madre.

«E una donna che stringeva un bimbo al seno chiese: parlaci dei figli. Ed egli disse: i vostri figli non sono i vostri figli. Essi sono i figli e le figlie della smania della Vita per se stessa. Vengono attraverso di voi, ma non da voi, e benché stiano con voi, tuttavia non vi appartengono. Voi potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri, poiché essi hanno i propri pensieri. Potete dare alloggio ai loro corpi, ma non alle loro anime, poiché le loro anime dimorano nella casa del futuro che voi non potete visitare neppure in sogno. Voi potete sforzarvi di essere come loro, ma non cercate di renderli simili a voi. Poiché la vita non va all’indietro e non si trattiene sullo ieri. Voi siete gli archi dai quali i vostri figli vengono proiettati in avanti, come frecce viventi. (…)». (Da “Il Profeta” di Kahlil Gibran).

Madri&Figli”. “Il sogno di mia madre”, racconto di Pedro Almodovar pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 6 di ottobre 2023: Quando esco in strada, sabato, scopro che è una giornata molto soleggiata. È il primo giorno con il sole e senza mia madre. Piango dietro gli occhiali. Nel corso della giornata lo farò molte volte. Dopo una notte insonne, cammino come un orfano fino a trovare il taxi che mi porterà alla Casa funeraria Sud. Sebbene non sia il tipo di figlio generoso nelle visite e nelle smancerie, mia madre è un personaggio essenziale nella mia vita. Non ho avuto la gentilezza di inserire il suo cognome nel mio nome pubblico, come le sarebbe piaciuto. «Tu ti chiami Pedro Almodóvar Caballero. Cos’è ’sta roba di Almodóvar soltanto!» mi aveva detto una volta, quasi arrabbiata. Le madri vanno sempre sul sicuro. «C’è gente che pensa che i figli si facciano in un giorno. Però ci vuole tempo. Molto» diceva Lorca. Neanche le madri sono cosa di un giorno. E non hanno bisogno di fare nulla di speciale per essere essenziali, importanti, indimenticabili, didattiche. Io ho imparato molto da mia madre, senza che né lei né io ce ne rendessimo conto. Ho imparato qualcosa di fondamentale per il mio lavoro, la differenza tra finzione e realtà, e come la realtà abbia bisogno di essere completata dalla finzione per rendere la vita più facile. Ricordo mia madre in tutti i momenti della sua vita; il più epico, forse, fu quello che si svolse in un paese della provincia di Badajoz, Orellana la Vieja, ponte fra i due grandi universi in cui ho vissuto prima di essere inghiottito da Madrid: La Mancia e l’Estremadura. Anche se alle mie sorelle non piace che lo ricordi, in quei primi passi estremegni la situazione economica famigliare era precaria. Mia madre è stata sempre creativa, la persona con più iniziativa che abbia mai conosciuto. Nella Mancia si dice: «È capace di cavare latte da un’oliera». La strada in cui ci toccò vivere non aveva luce, la pavimentazione era di mattoni crudi, non c’era modo di farla sembrare pulita, con l’acqua si trasformava in fango. Lontana dal centro del paese, era sorta su un terreno di ardesia. Non credo che le ragazze potessero camminare con i tacchi su quel suolo scivoloso. Per me quella non era una strada, ricordava più un villaggio di qualche film western. Vivere lì era duro, ma economico. In compenso, i nostri vicini si rivelarono persone meravigliose e molto ospitali. Erano anche analfabeti. Per integrare il salario di mio padre, mia madre iniziò l’attività di scrittura e lettura di lettere, come in Central do Brasil. Io avevo otto anni, normalmente ero io a scrivere le lettere, mentre lei leggeva quelle che ricevevano i nostri vicini. In più di un’occasione, controllavo il testo mentre mia madre leggeva e scoprivo con stupore che non corrispondeva esattamente a quello che c’era scritto sul foglio: mia madre si inventava parte di ciò che leggeva. Le vicine non lo sapevano, perché la parte inventata era sempre un prolungamento delle loro vite, e rimanevano estasiate dalla lettura. Dopo avere scoperto che mia madre non si atteneva mai al testo originale, un giorno mentre tornavamo a casa glielo rimproverai. «Perché le hai letto che pensa sempre a sua nonna, e ha nostalgia di quando la pettinava sul portone, con la bacinella piena d’acqua? Nella lettera la nonna non è nemmeno nominata» le dissi. «Ma hai visto com’è stata contenta?» mi disse lei. Aveva ragione. Mia madre riempiva i vuoti delle lettere, leggeva alle vicine quello che volevano ascoltare, a volte cose che probabilmente l’autore aveva dimenticato e che avrebbe sottoscritto con piacere. Quelle improvvisazioni racchiudevano una grande lezione per me. Stabilivano la differenza tra finzione e realtà, e dicevano come la realtà abbia bisogno della finzione per essere più completa, più gradevole, più vivibile. Per un narratore questa è una lezione essenziale. Io l’ho capita con il tempo. Mia madre ha lasciato questo mondo esattamente come le sarebbe piaciuto. E non è stato un caso, aveva deciso lei così, scopro proprio oggi, nella casa funeraria. Vent’anni fa, mia madre aveva detto a mia sorella maggiore, Antonia, che era giunto il momento di preparare il sudario. «Siamo andate a calle Postas» mi racconta mia sorella davanti al cadavere di nostra madre avvolta nel sudario «a comprare l’abito di sant’Antonio, marrone, e il cordone». Mia madre le aveva anche detto che voleva il simbolo dello stesso santo agganciato al petto. E gli scapolari della Dolorosa. E la medaglia di san Isidro. E un rosario tra le mani. «Uno di quelli vecchi» aveva specificato a mia sorella, «quelli buoni teneteli voi» (e intendeva lei e mia sorella María Jesús). Per coprirle la testa avevano comprato anche una specie di scialle nero che adesso le scende lungo i fianchi fino alla vita. Ho chiesto a mia sorella il significato dello scialle nero. Anticamente, le vedove si mettevano uno scialle di garza nera molto fitta per segnalare il loro dolore e la loro perdita. Via via che passava il tempo e il loro dolore diminuiva, lo scialle si andava accorciando. All’inizio arrivava quasi alla vita e, alla fine, soltanto alle spalle. Questa spiegazione mi ha fatto pensare che mia madre volesse ufficialmente andarsene vestita da vedova. Mio padre è morto vent’anni fa, ma naturalmente per lei non c’è stato un altro uomo né un altro marito. Aveva detto anche che voleva essere scalza, senza calze né scarpe. «Se mi legano i piedi» aveva detto a mia sorella, «slegatemeli prima di mettermi nella tomba. Là dove vado, voglio entrare leggera». Aveva chiesto anche una messa completa, non soltanto il responso. Così abbiamo fatto ed è venuto l’intero paese (Calzada de Calatrava) a darci la cabezada, il cenno del capo, che è come chiamano lì le condoglianze. A mia madre sarebbero piaciute moltissimo tutte quelle corone di fiori che c’erano sull’altare, e la presenza dell’intero paese. «È venuto tutto il paese» è il non plus ultra per questo tipo di eventi. E così è stato. Ringrazio da qui: grazie, Calzada. Si sarebbe anche sentita orgogliosa per il ruolo da perfetti anfitrioni che i miei fratelli, Antonia, María Jesús e Agustín, hanno svolto sia a Madrid sia a Calzada. Io mi sono limitato a lasciarmi trascinare, con lo sguardo annebbiato, e tutto sfocato intorno a me. Nonostante il marasma di viaggi promozionali in cui vivo (ora ci sono le prime di Tutto su mia madre in quasi tutto il mondo, fortunatamente mi sono deciso a dedicare il film a lei, come madre e come attrice; ho esitato molto, perché non sono mai stato sicuro che i miei film le piacessero), per fortuna ero a Madrid e al suo fianco. Noi figli siamo sempre stati con lei. Due ore prima che «tutto» si scatenasse, Agustín e io siamo entrati a vederla nella mezz’ora di visita consentita al reparto di terapia intensiva, mentre le mie sorelle aspettavano in sala d’attesa. Mia madre dormiva. L’abbiamo svegliata. Il sogno doveva essere molto piacevole e tanto coinvolgente che non l’ha abbandonata, sebbene abbia parlato con noi con perfetto buon senso. Ci ha domandato se fuori c’era un temporale e le abbiamo detto di no. Le abbiamo chiesto come si sentiva e ci ha detto che stava molto bene. Ha chiesto a mio fratello Agustín come stavano i suoi figli, appena tornati dalle vacanze. Agustín le ha detto che sarebbero stati da lui nel fine settimana e che avrebbero pranzato insieme. Mia madre gli ha chiesto se era già andato a fare la spesa per il pranzo e mio fratello le ha detto di sì. Io le ho detto che due giorni dopo sarei dovuto andare in Italia, per la promozione, ma che se lei voleva sarei rimasto a Madrid. Lei mi ha detto di andare, e di fare tutto quello che dovevo fare. Riguardo al viaggio, era preoccupata per i figli di Tinín. «E i bambini, con chi rimangono?» ha chiesto. Agustín le ha detto che lui non sarebbe venuto con me, che sarebbe rimasto lì. A lei è sembrata una buona cosa. È venuta un’infermiera e, oltre a dirci che il tempo della visita era terminato, ha annunciato a mia madre che le avrebbe portato il pranzo. Mamma ha commentato: «Questo pranzo mi farà poco fumo in corpo». Ho trovato quel commento bello e strano. Tre ore dopo moriva. Di tutto ciò che ha detto in quell’ultima visita mi è rimasto impresso quando ci ha chiesto se c’era un temporale. Quel venerdì era un giorno di sole e parte della sua luce entrava dalla finestra. A quale temporale si riferiva mia madre nel suo ultimo sogno?

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