Da “Feticcio Facebook” di Federico Rampini, pubblicato sul settimanale
“D” del 30 di aprile dell’anno 2011: La dittatura si rovescia con internet? Che
idiozia. Non c'è strumento di rivoluzione di massa che non sia bipartisan.
Dov'è finita "la rivoluzione di Facebook e di Twitter", come tanti
osservatori occidentali hanno frettolosamente definito la rivolta
antiautoritaria in Egitto? Mentre scrivo, i militari che governano il paese
stanno mostrando un'inquietante tendenza a usare metodi simili a quelli di
Mubarak. I Fratelli musulmani hanno di fatto vinto la prima prova del consenso,
il voto sulle prossime regole elettorali è andato come volevano loro. La parte
dell'opinione pubblica che propende per una vera liberaldemocrazia si è
rivelata minoritaria, circoscritta alle città del Cairo e di Alessandria. La
presunta onnipotenza di Facebook e Twitter, l'idea che le tecnologie siano di
per sé capaci di suscitare rivoluzioni, ne esce un po' malconcia. Attribuire a
questi strumenti il potere di cambiare il corso degli eventi, di plasmare la
storia, di imporre nuovi valori è puro "feticismo tecnologico". Una
perversione in cui l'Occidente sembra cadere sempre più spesso. "Internet
cambierà la Cina", profetizzava alcuni anni fa Bill Gates, e intendeva
dire che il sistema autoritario di Pechino non avrebbe retto all'immenso flusso
di informazioni dal mondo. Poi si è scoperto che internet non ha affatto il
potere di cambiare il sistema politico cinese. Finora è accaduto il contrario:
è stato il governo di Pechino a "cambiare internet". Ha eretto la
Grande Muraglia di Fuoco, il più sofisticato sistema di cyber-censura. Ha messo
la museruola a Google al punto da costringerla di fatto ad autoesiliarsi dal
più vasto mercato del pianeta. Il regime ha consentito un ampio uso di internet
perché gli conviene: un'economia globalizzata come quella cinese deve poter
comunicare efficacemente col resto del mondo. Ma sul web opera anche la
propaganda di regime. Ci sono blog specializzati nel dare la "caccia alle
streghe", criminalizzando il dissenso o soffiando sul fuoco del
nazionalismo antioccidentale ogni volta che Obama o la Merkel osano ricevere il
Dalai Lama. E che dire dell'altra teoria in voga un anno fa, secondo la quale
Twitter avrebbe rovesciato la dittatura islamica in Iran? Che io sappia
Ahmadinejad è sempre al suo posto. In quanto a Twitter, è stato un efficace
strumento di comunicazione per contestare i brogli elettorali del regime e
organizzare le grandi manifestazioni di protesta a Teheran; ma poi anche la
polizia iraniana a imparato a usarlo per pedinare elettronicamente i
dissidenti.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
lunedì 30 aprile 2018
domenica 29 aprile 2018
Quodlibet. 74 “Non i «barbari» ma il vuoto di valori ci finirà”.
Da “Non i «barbari»
ma il vuoto di valori ci finirà” di Massimo Fini, pubblicato su “il Fatto Quotidiano
del 29 di aprile dell’anno 2017: Siamo
in una situazione molto simile a quella in cui dovettero trovarsi i Romani nei
decenni che precedettero il crollo dell’Impero. C’è nell’aria un sensus finis,
un’assenza di speranze, collettive e individuali, uno sfinimento, uno
sfibramento, una mancanza di vitalità, un sentimento di impotenza: classici
segni di un mondo in decadenza. I “barbari” sono alle porte, molti già dentro
le mura, premono, come ai tempi dell’Impero, ai nostri confini. I Goti, i Burgundi,
i Franchi, i Vandali poterono averla vinta sulle ben più potenti e organizzate
armate romane, fino a conquistarne la Capitale, riducendola ai tempi dei
Lanzichenecchi a 37 mila abitanti, perché nei secoli precedenti l’Impero e le
sue strutture istituzionali e mentali erano state corrose da un tarlo chiamato
cristianesimo. Invano gli imperatori, da Diocleziano in poi fino all’ultimo e
disperato tentativo di Giuliano l’Apostata, avevano cercato di estirpare, con
la repressione e la violenza, questo tarlo. Il mondo pagano, corrotto fino al
midollo proprio a cagione della propria potenza, verrebbe da dire della
Superpotenza, non poté nulla contro un’ideologia che portava in sé valori
fortissimi e nuovi (almeno parzialmente, perché originavano dal giudaismo). Perciò
nel giro di pochi secoli il cristianesimo poté avere di fatto la meglio sul
mondo germanico, apparentemente vincitore, convertendolo a sé com’è documentato
dai canti dell’Edda. Alle quasi infinite superstizioni che avevano attraversato
quel mondo, ma che avevano anche, per misteriosi canali, molti punti di
contatto con la Bibbia e il Vangelo, se n’era sostituita un’altra, unica, più
forte, più convincente, più coinvolgente. Ma anche il cristianesimo, tradotto
da San Paolo in una struttura potente come la Chiesa, aveva in sé i germi e i
prodromi della sua fine. Dopo 20 secoli di egemonia e ascesa il pensiero
cristiano nelle sue varie declinazioni cattolica, ortodossa, protestante ha
terminato la sua fase propulsiva, per dirla con le parole di Enrico Berlinguer
in riferimento al comunismo sovietico.
sabato 28 aprile 2018
Terzapagina. 26 “Sinistra di bramini, Destra di mercanti: la crescita della diseguaglianza”.
Da “La disuguaglianza
ha mille facce” di Nadia Urbinati, pubblicato sul quotidiano la Repubblica
del 27 di aprile 2018: (…). Per la prima volta da quando la
democrazia è rinata, dopo la seconda guerra mondiale, l’andamento delle
relazioni tra classi e forze politiche ha subito un mutamento profondo che
cambia il significato dei termini “destra” e “sinistra”. Se fino agli anni ’ 80
il voto ai partiti di sinistra o centrosinistra era associato a basso tenore di
vita, meno cultura e minor reddito, dalla fine del secolo si è sempre più
associato alle élite con alta educazione e buoni redditi. A raccontarlo con i
sondaggi post-elettorali comparando il voto in tre Paesi (Usa, Regno Unito e
Francia) è Thomas Piketty nel suo nuovo progetto dal titolo, Sinistra di
bramini contro Destra di mercanti: la crescita della diseguaglianza e la mutata
struttura del conflitto politico. Piketty dimostra non solo che la media e
upper class acculturata vota a sinistra e la media e upper class ricca per il
centrodestra. Dimostra soprattutto che le classi “ up” — ricchi o ricchi e
acculturati o entrambi — occupano tutto lo spettro della democrazia dei
partiti, che egli chiama un “ multiple- élite party system”, ovvero una
democrazia che ha una pluralità di partiti di élite, non più semplicemente una
pluralità di partiti per tutti. Una larga porzione dei “tutti”, infatti, è nel
corso degli ultimi due decenni diventata più povera e anche meno acculturata,
un’associazione che fa parlare di plebeizzazione (…) in aggiunta a questo
svantaggio assoluto, i “ molti” hanno perso i loro tradizionali referenti
rappresentativi, occupati dalle classi più alte. È questa, secondo Piketty, una
delle ragioni della nascita o del successo repentino di movimenti e partiti
populisti, radicalmente xenofobi e fascisti oppure qualunquisti e anti-
partito. L’anti- partitismo che il populismo coltiva e alimenta ha quindi un
sapore classista, come reazione alle classi forti che si sono prese tutto lo
spazio partitico esistente. Dopo un’ondata di astensione, di ritiro dalla
partecipazione elettorale, i molti trattati come cittadini di serie B trovano
il loro fronte rappresentativo: qui sta l’origine dell’impennata populista, che
ha quindi radici economiche e socio- culturali. Il popolo dei lavoratori,
quello che trovava sicuro porto nei partiti storici della sinistra, ha subito
una plebeizzazione, anche in ragione del fatto che non ha più luoghi
aggregativi dove consolidare la cittadinanza attiva e il civismo.
Partiti-cartello o circoli elettorali per le classi agiate, e deserto per la
massa, che o assiste allo spettacolo nell’arena dei social o si fa i suoi
movimenti. Questo fenomeno ha radici nella crescente diseguaglianza, un termine
che Piketty suggerisce di coniugare al plurale: diseguaglianze di ricchezza, di
reddito, di istruzione, di cultura, di genere, di età, di razza, di religione.
Il paradosso è che queste diseguaglianze quanto più si sommano tanto più
perdono rappresentanti. Essere povero e vivere in un quartiere in cui la
maggioranza è povera comporta altre condizioni di svantaggio e la massima forma
di esclusione: non avere alcun partito che si batta per i propri bisogni.
Essere cittadino con meno voce per manifestare le proprie rivendicazioni e con
meno potere. Fino agli anni ’80, sostiene Piketty, le classi lavoratrici erano
nobilitate non solo nell’identità operaia, quando il lavoro era segno di valore
sociale e non di precarietà, ma anche nella cittadinanza e nell’identità
d’appartenenza della bandiera rossa ( sapere di avere un rappresentante-
difensore dava dignità; e soprattutto consentiva ai molti di stare al gioco, di
lottare per correggere le diseguaglianze). I partiti della sinistra hanno
nobilitato la cittadinanza dei lavoratori togliendo loro lo stigma
dell’inadeguatezza; hanno edificato buone scuole pubbliche e perseguito una
politica delle eguali opportunità. Sinistra e democrazia sono per questo andate
di pari passo. Ma ora che la sinistra attira i raffinati intellettuali, i
professionisti, i benestanti, a quale parte organizzata si rivolgono coloro che
la globalizzazione e la crescita della diseguaglianza ha reso meno acculturati
e soprattutto più pressati dai bisogni primari? La sinistra per i pochi
comporta fatalmente che anche i beni pubblici assumano diverso valore a seconda
di chi ne usufruisce: le scuole pubbliche cessano di essere buone dovunque e la
loro qualità segue il quartiere e i ceti che attraggono. E così sarà anche per
gli ospedali e la qualità della vita nelle città. Insomma, la sinistra presa
dai pochi lascia la maggioranza non solo senza sostenitori politici ma anche
senza una condizione dignitosa certa. La democrazia come “multi-élite party
system” ha anche una biforcazione ideologica: i partiti che attraggono le
destre moderate (dei ricchi e basta) e le sinistre tradizionali (dei ricchi e
colti) sono per lo più votati ai valori universalistici e liberali, europeisti
e cosmopoliti, anche quando coniugati in accezione conservatrice; fuori di qui,
tra i partiti populisti, si coltiva una visione opposta, come il nazionalismo e
il comunitarismo. Come spiega Piketty, i partiti dell’establishment serrano i
ranghi — quelli di centrosinistra diventano “ braminici” (castali e
sacerdotali) e quelli di centrodestra di “mercanti” — e si trovano alleati
naturali contro l’anti- partitismo populista, identitario nazionalista o
blandamente gentista. Questa biforcazione è presente in tutti i Paesi
occidentali e scuote le intelligenze. Non si può restare ad assistere allo
scempio che le diseguaglianze producono alle nostre democrazie.
giovedì 26 aprile 2018
Quodlibet. 73 “#sedecollaAlitaliadecollal’Italia”.
Da “Le
avventure di M. R. il toscano, l’inefferrabile re delle cronache” di Alessandro
Robecchi, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 26 di aprile dell’anno 2017: Con
tutto quello che succede sul pianeta,
dal derby nucleare tra le due persone peggio pettinate del mondo alla manovrina
di Padoan, dagli ordini di Trump a Gentiloni alle primarie del Pd, saranno
sfuggite ai lettori alcune notizie di cronaca. Cerchiamo di rimediare con un
piccolo riassunto. Firenze. Gli addetti della Polfer di Firenze hanno sorpreso
un uomo intento a cambiarsi in una toelette della stazione. Si tratta di M. R.,
già noto alle cronache e con numerosi precedenti per trasformismo, che tentava
di travestirsi da Emmanuel Macron, incorrendo così in diversi reati, tra cui
atti osceni in luogo pubblico e scambio di persona. “Lo abbiamo visto cianotico
e siamo intervenuti”, hanno detto gli agenti, accertato che M. R. cercava di
sembrare quaranta chili più magro. La vicenda si è chiusa con un verbale e un
ammonimento a non riprovarci, a cui M. R. ha risposto con “Bien sûr, au revoir!
Vive l’Europe!”. Non è la prima volta che M. R. cerca di travestirsi da
vincitore, era già successo in occasione di un défilé con la camicia bianca,
insieme a leader in camicia bianca tutti finiti malissimo. Roma. Una pattuglia
di Carabinieri ha sedato una rissa tra gang rivali nei pressi del ministero del
Tesoro. Le due bande che si sono fronteggiate erano capitanate da M. R.,
contrarissimo all’aumento dell’Iva prima delle primarie del Pd e poi prima
delle elezioni, e M. R., ex Presidente del Consiglio, inventore delle clausole
di salvaguardia nella passata legge di stabilità, che contenevano l’aumento
dell’Iva. Come sempre, lo scontro è iniziato con male parole e provocazioni,
per poi degenerare. I due M. R. interrogati separatamente, si sono rivelati la
stessa persona e si aspetta ora un confronto all’americana. Il bilancio dei
tafferugli è di un contuso: si tratta di un passante ignaro convolto nello
scontro, un tecnico, tale Pier Carlo Padoan, che ha riportato ferite
all’autostima curabili in dieci giorni. Pontassieve. Un noto blogger della
provincia di Firenze ha intrattenuto online gli iscritti al suo blog, Facebook,
Twitter, Instagram, PacMan e PokemonGo, oltre ai clienti della sua app, sui suoi pensieri alla
vigilia dell’incoronazione del nuovo/vecchio segretario del Pd che avverrà
domenica prossima. Ordinaria amministrazione, vanterie e chiacchiere, fino
all’atroce minaccia: subito dopo le primarie M. R. si occuperà di scuola, di
una nuova riforma della scuola, di nuove riflessioni sulla scuola, di inedite
soluzioni politiche per la scuola. La popolazione civile è stata avvertita,
professori, studenti e famiglie si apprestano a scendere nei rifugi. Timidi e
per ora prudenti i commenti delle associazioni del docenti: “Assistiamo con
rispettosa curiosità le prossime riflessioni del comandante Schettino sulla
riforma della navigazione”. Fiumicino.
Finalmente restaurato, tornerà nei cinema un capolavoro del giugno 2015,
sempre apprezzatissimo dalla critica e poco conosciuto al grande pubblico. Si
tratta di un raro documentario in cui un certo M. R., in evidente trance
agonistica, ammoniva di allacciarsi le cinture, perché “si decolla”, perché “Se
decolla Alitalia decolla l’Italia”. Secondo i recensori più acuti, si tratta di
un capolavoro di recitazione, perfetta sintesi del metodo Stanislavskij, in cui
l’attore esaspera il meccanismo dell’identificazione, diventa pietra, poi
albero, poi – esercizio di difficilissimo – salvatore di Alitalia. Per chi
studia recitazione si tratta di un documento prezioso, specie nei passaggi in
cui M. R. confessa di aver sempre sognato di fare lo steward e attacca
frontalmente i gufi che non credono al prodigioso rilancio della compagnia di
bandiera. Meno di due anni dopo, il film sarà proiettato a bordo degli aerei
Easy Jet e di tutte le compagnie di bandiera non affidate alle sapienti cure di
Montezemolo.
mercoledì 25 aprile 2018
Primapagina. 87 “Il 25 aprile, la banalizzazione del «Ventennio» e la sinistra disorientata e sconfitta”.
A lato. Fotogramma tratto da "Novecento" di Bernardo Bertolucci.
Da “Una
domanda alla sinistra” di Guido Crainz, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 23 di aprile 2018: Da sempre il 25 aprile è il segnale di un
clima: "racconta" il modificarsi di un Paese, il suo vivere il
proprio passato e il suo immaginare il futuro. Ed è uno sfregio il primo
segnale venuto quest'anno, il rifiuto della giunta di centrodestra di Todi di
dare il proprio patrocinio alle celebrazioni dell'Anpi: l'antifascismo sarebbe
"di parte", per una giunta che ha il sostegno di CasaPound. Non è
affatto un segnale minore, mentre sul proscenio si susseguono incauti osanna
alla "Terza Repubblica". E ancora una volta il 25 aprile chiama in
causa tutte le parti in campo: "rivela" la cultura - o l'incultura -
dei vincitori, ma anche la capacità di risposta - e la cultura - di chi non si
rassegna, di chi non è disposto a cedere il campo quando sono in discussione i
valori fondativi della comunità nazionale. Interroga dunque i nuovi
"vincitori", il 25 aprile di quest'anno, e da essi esige risposte:
anche da chi le ha sempre eluse. E interroga al tempo stesso la sinistra, la costringe
a riflettere su se stessa. O meglio: su quella "dissipazione di sé"
che sembra prevalere. E l'urgenza di una riflessione non episodica è rafforzata
e accentuata da molti altri, allarmanti segnali venuti nei mesi scorsi. Una
riflessione che coinvolga l'educazione quotidiana alla democrazia (la
quotidiana "pedagogia della Costituzione") e la mobilitazione
politica e civile: così come è sempre stato nella nostra storia, lontana o
recente. Può essere utile ricordare il clima di vent'anni fa o poco più, quando
venne proclamato l'avvento di una seducente "Seconda Repubblica". In
quel 1994 andava al governo, sotto il segno di Berlusconi, una coalizione che
comprendeva per la prima volta anche il Movimento sociale di Gianfranco Fini
(un Movimento non ancora depurato a Fiuggi dalle sue radici neofasciste),
assieme a una Lega che alimentava umori secessionisti. E se Fini proclamava
allora Mussolini "il più grande statista del secolo", trovando la
"comprensione" di Berlusconi, gli faceva eco la allora presidente
della Camera, Irene Pivetti: "Le cose migliori per le donne e la famiglia
le ha fatte Mussolini", disse (era leghista, Pivetti, ma non disse cose
molto diverse cinque anni fa la capogruppo grillina a Montecitorio, Roberta
Lombardi). A completare il quadro venne allora un programma televisivo sulla
caduta del fascismo, Combat film, che proponeva un messaggio di sostanziale
equiparazione fra le due parti in conflitto. Fascismo e Resistenza pari sono
per la Rai, commentava Mario Pirani su questo giornale, mentre Barbara Spinelli
osservava: in pochi giorni è avvenuto qualcosa di importante in Italia,
"c'è clima di banalizzazione del Ventennio, di libertinismo verbale,
licenza assoluta di dire. Morta la "Prima Repubblica" tutto diventa
possibile, tutto diventa permesso". Un giudizio scritto allora, ma che
rischia di ritornare drammaticamente attuale. In quel 1994 la risposta fu
chiara e netta: una sinistra disorientata e sconfitta seppe ritrovare se stessa
e le proprie ragioni (anche se il primo stimolo non venne dai partiti o dai
sindacati, ma da un piccolo quotidiano, il manifesto). La mobilitazione fu
realmente ampia e confluì nella grande manifestazione nazionale del 25 aprile
di quell'anno, a Milano: "un'altra Italia" non era scomparsa e a
partire da essa era possibile ricostruire nella coscienza di tutti le ragioni
della democrazia. E questo avvenne, in una "Seconda Repubblica" per
altri versi infausta: si avviò da quel 1994 il percorso che portò una destra
sin lì neofascista a rinnegare le proprie radici (un merito di Gianfranco Fini
che non può essere dimenticato). E il 25 aprile si impose anche a chi, come
Silvio Berlusconi, si era sempre sentito estraneo a esso: (…).
martedì 24 aprile 2018
Terzapagina. 25 “Risorgimento e Resistenza”.
Da “Il Paese
smantellò la patria, la Resistenza la ricostruì” di Eugenio Scalfari,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 26 di aprile dell’anno 2015: (…). Le
brigate partigiane entrarono per prime a Milano, Torino, Genova dopo 18 mesi di
resistenza sulle montagne alpine, prealpine e appenniniche e lo spirito che le
unificò fu l'antifascismo. Nelle varie brigate c'era quello spirito comune a
tutti e molto variamente rappresentato: le brigate Garibaldi erano comuniste ed
erano le più numerose, ma c'erano anche quelle di Giustizia e Libertà del
Partito d'Azione, quelle Matteotti socialiste, quelle cattoliche, quelle monarchiche
ed anche repubblicane e liberali. Complessivamente erano alcune migliaia di
giovani e c'erano anche donne con loro, ma il grosso che comprendeva una parte
considerevole della popolazione italiana da Firenze in tutta la valle del Po e
all'arco alpino era fatto dalle famiglie che abitavano quei luoghi e che
rifornivano di cibo i partigiani e li ospitavano nelle notti in cui scendevano
a valle per procurarsi quanto era loro necessario, comprese armi e munizioni. Fu
questo un movimento di popolo che diede vita alla Resistenza e mise la base
etica e politica di quell'Italia democratica delle istituzioni repubblicane e
della Costituzione che abbiamo votato con le elezioni e il referendum del 2
giugno del 1946. (…). Ma l'inizio di tutti quei moti popolari avvenne prima
d'ogni altro a Napoli con quattro giornate di rivoluzione; le truppe alleate
erano ancora a Salerno e arrivarono nella città partenopea a rivoluzione già
avvenuta che aveva messo i tedeschi in fuga. (…). …c'è da spiegare perché la
Resistenza è considerata da molti storici e politici come il secondo atto del
movimento risorgimentale. (…). Gli esponenti principali di quel glorioso
movimento risorgimentale furono Mazzini, Cavour, Garibaldi ed anche i Cairoli,
Manara, Berchet, Mameli, Bixio, Pisacane e molti altri segregati nelle carceri
austriache. Anche il Risorgimento ebbe le sue ombre che segnarono profondamente
il movimento e in parte ancora si protraggono con il dualismo economico tra
Nord e Sud che proprio allora ebbe inizio. Proprio in quegli anni si manifestò
anche il fenomeno mafioso che è andato via via crescendo fino a diventare
un'organizzazione delinquenziale le cui radici restano al Sud ma le cui
propaggini sono ormai arrivate fino a Roma, all'Emilia, alla Lombardia, al
Piemonte, al Veneto e addirittura a Marsiglia e ad Amburgo. La storia è sempre
e ovunque molto complessa, il che non toglie che nel periodo di cui stiamo ora
parlando il contenuto eticopolitico e sociale sia stato comunque positivo. Ma
il nostro Paese è arrivato alla sua unità e alla trasformazione economica e
sociale con grande ritardo rispetto al resto d'Europa. Questo sfasamento
temporale ha avuto effetti profondamente negativi sulla democrazia italiana che
è stata fin dall'inizio dello Stato unitario fragilissima. La causa è evidente:
molti italiani hanno considerato e tuttora considerano lo Stato come un'entità
estranea o addirittura nemica, oppure come strumento da utilizzare per i propri
particolari interessi anziché a tutela degli interessi generale e del bene
comune. La diffusione non solo della mafia ma delle clientele e della
corruzione così radicata sono fenomeni che hanno come causa prima il ritardo di
secoli della nascita dello Stato unitario, sorto centocinquanta anni fa mentre
in Francia, in Inghilterra, in Austria, in Spagna era nato quattro secoli prima
e con esso economie molto più avanzate rispetto alla nostra. Ogni tanto ci sono
in Italia ventate di patriottismo, ma sono fenomeni passeggeri e non a caso
avvengono quando al vertice dello Stato si insedia - col
favore di popolo - un dittatore. Le istituzioni per molti
italiani sono estranee rispetto ai loro interessi ed è questa la causa della
fragilità democratica che anche ora è tutt'altro che cessata. I malanni di un
Paese fortemente in ritardo rispetto all'orologio della storia dovrebbero tuttavia
produrre degli anticorpi. È così che avviene in ogni organismo. Se vive ma ha
batteri e virus che lo minacciano, gli anticorpi cercano di migliorare la
situazione e di guarire la malattia. Ma accade qualche volta un fenomeno assai
singolare: gli anticorpi invece di aggredire virus, batteri e corpi estranei
che minacciano la vita, si rivolgono contro se stessi e finiscono per
distruggersi lasciando campo libero al male ed anzi aggravandolo con la loro
autodistruzione. Se guardiamo alla storia dell'Italia moderna questo fenomeno è
largamente diffuso. Gli anticorpi dovrebbero mettere riparo alla fragilità
della nostra democrazia e dovrebbe essere il Partito democratico a produrli,
specialmente ora che alla sua guida c'è un personaggio coraggioso, eloquente,
dotato di molte capacità di convincere amici e avversari. Ma il fatto strano
degli anticorpi che distruggono se stessi si sta invece verificando con
preoccupante intensità ed è proprio Matteo Renzi, che adottando lo slogan del
cambiamento, sta cambiando la democrazia italiana non rafforzandola ma
rendendola ancora più fragile sì da consentirgli di decidere e comandare da
solo.
domenica 22 aprile 2018
Lalinguabatte. 55 “La giornata della Terra. Ma mi faccia il piacere!”
Oggi, il 22 di aprile, è stato
dichiarato la “giornata della Terra”. È tra le tante inutili giornate che il
bipede reso umano si congegna di creare. A che pro? E come direbbe quel gran
maestro della commedia all’italiana oserei dire anch’io “ma mi faccia il piacere!”.
sabato 21 aprile 2018
Cronachebarbare. 51 “Le relazioni umane”.
Me ne andavo spensieratamente percorrendo e godendo
di una straordinaria giornata di sole sul lungomare di C***, lungomare che si
snoda lungo il litorale laddove i monti boscosi dei Nebrodi vi degradano
dolcemente. Un passeggiare il mio per godere di inaspettati sole e tepore dopo mesi
uggiosi e godendo a pieni polmoni come di una raggiunta fuoruscita da una
stagione lunga ed avversa. A non molta distanza intravvedo Pippo L. venirmi
incontro. Il suo incedere ha come un rallentamento studiato al suo
approssimarsi ad una panchina sulla quale stavano seduti due uomini intenti a
smanettare sui loro smart-phone. “Peppuccio” – come fraternamente viene chiamato
da tutti coloro che gli vogliono bene - rallenta in quei pressi e dal labiale,
del quale posso intravvedere i movimenti, essendomi nel frattempo avvicinato
abbastanza alla scena, intuisco di un suo gratuito “buon giorno” all’indirizzo
dei due. I due che continuano a smanettare incuranti di quel saluto. Giunsi ad
essere dappresso a “Peppuccio” con il quale scambiai i soliti amichevoli convenevoli.
Fu a quel punto che sopravvenne una coppia in perfetto abbigliamento turistico,
come si conviene agli amanti del sole e del mare di questa terra benedetta – ma
non tanto, considerata la sua Storia - che è la Sicilia. Alla nostra altezza il
loro andare lesto si accompagnò come ad un rallentamento seguito da un inatteso
augurio di “buona giornata”, sì proprio un saluto di “buona giornata”, augurio
che contraccambiammo. Fu a questo punto della storia che “Peppuccio” ebbe a
chiedermi “e chisti dui cu’ sunnu” – che tradotto sta per chi fossero
quei due salutanti “alieni” -. Evidentemente quell’inatteso saluto da parte di
due sconosciuti aveva reso sgomento il caro “Peppuccio”. Certamente “Peppuccio”
non ha avuto il tempo, considerata la rapidità dello svolgimento della scena,
di riflettere (e di mettere in relazione) tanto sul mancato saluto dei due
seduti sulla panchina – che forse gli sarà apparso in linea con gli usi e
costumi dei tanti, tantissimi del luogo - quanto con lo spontaneo saluto della
coppietta di turisti, per dedurne infine quelle logiche, consequenziali
considerazioni di una diversità sì antropologica ma anche e soprattutto culturale.
Siamo nella terra che ha come regola aurea “cu’ picca pallò mai si pentiu” – chi
poco ha parlato mai si è pentito - che è tutto un dire in quali considerazioni
possano essere tenute “le relazioni umane” nelle ridenti –
si fa per dire - contrade della Trinacria.
giovedì 19 aprile 2018
Primapagina. 86 “19 aprile 2013: 120 «sicari in simultanea»”.
Da “Mediaset
Premier” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 17 di
aprile 2018: Chi vuole sbirciare dietro le quinte della politica di questi giorni
deve ricordare quel che accadde cinque anni fa. Anche allora si era votato da
poco, le urne avevano partorito tre blocchi non autosufficienti e pareva quasi
impossibile che due di essi facessero un governo. Allora però c’era un
presidente – Napolitano, fra l’altro in scadenza – smaccatamente di parte (la
sua), portatore di un progetto politico ben preciso: l’inciucio Pd-Pdl-Centro,
già sperimentato col governo Monti e platealmente bocciato dagli elettori, per
tagliar fuori i 5Stelle. (…). Bersani puntava a un “governo di cambiamento” e
di minoranza (almeno al Senato, dove neppure col Porcellum la coalizione Pd-Sel
aveva i numeri), presieduto da lui con l’appoggio esterno dei 5Stelle, e giurava
di non volersi alleare con B.: proprio come oggi Di Maio, pronto a governare
col Pd o con la Lega, ma non con B.. Il quale nel 2013 smaniava per rendersi
indispensabile a un governo purchessia, da ricattare per i soliti affari suoi:
proprio come oggi. I 5Stelle, atterrati su un pianeta inesplorato, sospettavano
di tutti e non volevano allearsi con nessuno: proprio come il Pd oggi. In
quello stallo – culminato nel famoso incontro-scontro in streaming fra Bersani
& Letta e Crimi & Lombardi – si infilò B., con la complicità delle sue
quinte colonne del Pd, che lavorarono con lui a logorare Bersani fino a
scippargli il partito. In pochi giorni, complice l’iniziale ottusità degli
inesperti grillini che si fecero usare dal partito dell’inciucio senza neppure
accorgersene, il Caimano che aveva appena perso 6 milioni e mezzo di voti tornò
protagonista e si riprese il centro della scena piazzando chi voleva lui prima
al Quirinale e poi a Palazzo Chigi. Anche allora, come sempre e come oggi, a
fare la spola fra i palazzi del potere c’erano gli eterni mediatori del Partito
Mediaset: Fedele Confalonieri e Gianni Letta. Due fiduciari di un’azienda
privata, mai eletti da nessuno né investiti di incarichi politici in FI, eppure
regolarmente ricevuti con tutti gli onori come ambasciatori di uno Stato
sovrano e alleato. Il loro obiettivo, tramontata la candidatura al Colle
dell’amico Franco Marini (scelto da B. in una rosa di nomi proposti dal Pd),
era lasciare Re Giorgio lì dov’era, per sventare la minaccia di un antiberlusconiano
storico e impenitente come Prodi al Quirinale e il coinvolgimento dei 5Stelle
nell’area di governo. Però B. non aveva i numeri per farcela: gli occorreva una
sponda nel Pd. Tanto più che intanto il M5S era uscito dal freezer candidando
Rodotà al Quirinale, appoggiato da Sel e molto amato dagli elettori di
centrosinistra. E Grillo aveva dichiarato al Fatto: “Abbiamo proposte come
l’anticorruzione, la legge sul conflitto d’interessi e quella
sull’ineleggibilità della Salma (Berlusconi, ndr). Bersani ci pensi. Eleggere
Rodotà insieme sarebbe il primo passo per governare insieme”. Non un governo di
minoranza appoggiato dall’esterno, ma un governo politico con tutti i crismi:
un incubo, per il Partito del Biscione e per tutto l’Ancien Régime, che avrebbero
perso il controllo. B. mosse le sue pedine nel Pd, fece balenare a D’Alema un
possibile appoggio per il Colle e allo scalpitante Renzi le elezioni anticipate
che gli avrebbero consentito di candidarsi a premier. La mattina del 19 aprile,
per tenere unito il Pd, Bersani propose Prodi all’assemblea dei suoi grandi
elettori. Il Professore – (…) – conosceva bene i suoi polli: un pezzo del Pd
era di proprietà di B., infatti il Corriere parlava di 120 parlamentari dem
pronti a firmare un documento contro di lui. Dunque pregò Bersani di procedere
con voto segreto. Ma appena il segretario disse “Prodi”, l’assemblea scattò in
piedi: standing ovation, approvato per acclamazione. E Sel si accodò. Bersani
avvertì telefonicamente il Prof, ma non lo convinse. Prodi chiamò la moglie
Flavia, a Bologna: “Vai pure alla tua riunione tranquilla, tanto presidente non
lo divento di sicuro”. La sua candidatura fu lanciata alla quarta votazione, la
prima con maggioranza del 50% più 1. Bastavano 504 voti su 1007 elettori. Pd e
Sel ne avevano 496: con una decina di centristi montiani in libera uscita era
fatta. E infatti alcuni montiani e qualche grillino votarono Prodi. Al quale
però mancarono 101 voti. Quindi i franchi traditori erano almeno 120. Tutti
targati Pd: Sel aveva marchiato tutte le sue schede facendo scrivere dai suoi
“R. Prodi”. Renzi, da Firenze, fu il più lesto ad annunciare: “La candidatura
Prodi non esiste più”. Anche perché, con Prodi, spariva pure il suo rivale
Bersani, che si dimise subito. Fu un’operazione di killeraggio in grande stile,
studiata a tavolino nei minimi dettagli, col concorso attivo di tutte le
correnti (prodiani esclusi). Tanti sicari in simultanea, (…). E un solo
utilizzatore finale: B., che chiamò subito Napolitano per chiedergli di
restare. Questi, che ancora il 14 aprile definiva “pasticcio ridicolo”
l’eventuale rielezione, l’indomani accettò. Previo pellegrinaggio al Colle di
tutti i leader sconfitti alle elezioni. Il Corriere riferì di un “lungo,
caloroso abbraccio” fra B. e Re Giorgio, che lo ringraziò per il suo
“comportamento da statista”. Così Napolitano fu rieletto il 20 aprile e il 24
incaricò Letta jr. per il governo di larghe intese. E l’Italia, dal possibile
rinnovamento, ripiombò in piena Restaurazione. Chissà quanti di quei 120 traditori
siedono ancora tra i banchi del Pd. Lo vedremo presto, quando dovranno
scegliere fra un premier di cambiamento e un Mediaset Premier. L’ennesimo.
mercoledì 18 aprile 2018
Quodlibet. 72 “Politiche 2013: gli italiani non vogliono cambiare”.
Da “I tre illusionismi e il principio di realtà” di Giancarlo Bosetti,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 18 di aprile dell’anno 2013: (…).
…la paralisi seguita alle elezioni (di domenica 24 e lunedì 25 febbraio
dell’anno 2013 n.d.r.) non è solo conseguenza dell’ingorgo
istituzionale o di una sfortunata aritmetica, ma la semplice diretta
conseguenza delle scelte degli elettori che si sono lasciati conquistare (in
modo ripartito per tre, con qualche resto) da leadership indecise, pigre,
illusioniste ed evasive. Nonostante le apparenze e le declamazioni in
contrario, una vera radicale svolta dell’economia e della società per rimettere
l’Italia in linea con la competizione internazionale non la voleva davvero
nessuno. (…). Le tre minoranze, vincenti/perdenti, hanno variamente eluso il
problema delle riforme radicali (dolorose, ma cariche di futuro migliore) che
sono necessarie per portarci strutturalmente fuori dalla recessione. La
paralisi, in sostanza, non è solo dovuta alle geometrie politiche sbilenche e a
una orribile legge elettorale, ma è proprio di sistema. Gli italiani non
vogliono cambiare, o meglio vorrebbero ma senza pagarne il prezzo. E nessuno ha
carattere e autorità sufficienti per dare la scossa. È come se il paziente
avesse in mano il bisturi per incidere il bubbone, ma non lo fa perché fa male.
E neppure i candidati dottori lì intorno hanno il coraggio di sfidare la paura
del paziente, perché dipendono dal suo voto, ora non dopodomani. Il risultato è
la cancrena avanzante. La scossa non è venuta dalle elezioni perché le elezioni
democratiche in fase di recessione sono una gara a chi le spara più dolci.
Eppure una soluzione può venire solo dall’alto di una politica, che sapesse
stare in alto, perché gli impulsi dal basso, a quanto pare, spingono ad evadere
a oltranza. Dubbi sul fatto che gli illusionismi sono tre, di tutti e tre:
centrosinistra, centrodestra e Cinque Stelle? Si può concedere al Pd che è
andato un po’ più vicino a una proposta di cambiamento e di verità, anche
perché era il più convinto di vincere, e governare subito dopo. Ma non tanto
più vicino. Bersani nell’alleanza con Sel e facendosi scudo del sindacato ha
scelto, delle due possibili, la via più tranquillizzante e più elusiva: la
manutenzione (sperata) del suo pacchetto elettorale, poco attraente per
l’Italia dei giovani disoccupati al quasi 40 per cento, non incisiva rispetto
alle plaghe in mano alla crimina-lità, ai vizi della spesa pubblica e della
macchina dello Stato, alla rabbia nei confronti del ceto politico. (…). Berlusconi
ha confermato la sua palese vocazione professionale a eludere le questioni
sgradevoli: negazionismo sistematico, non c’è una crisi italiana, le colpe sono
dell’Europa, degli eurocrati e dei comunisti; ci sono dei persecutori da
cacciare e sono peraltro gli stessi che si accaniscono contro di lui e le sue
aziende, sono le toghe rosse, i media avversi. Regolati quei conti, i problemi
si risolverebbero da sé.
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