Da “Insider Renzing” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 10 di gennaio 2018: (…). Tutto comincia a metà gennaio 2015: la Consob, organo di vigilanza sulla Borsa, nota un’improvvisa fibrillazione attorno ai titoli di alcune banche popolari. La più appetita è Etruria, che a furia di acquisti sale di valore fino al 65%. Cosa induce tanti investitori a comprare azioni di quella e di altre banchette pericolanti? Sanno qualcosa che i comuni mortali ignorano? La Consob attiva la Guardia di Finanza, che acquisisce dai broker gli ordini di acquisto sospetti (tutti registrati per legge). Uno è di De Benedetti che il 16 gennaio, un mese dopo aver definito in tv Renzi “un fuoriclasse”, telefona al suo broker di fiducia, Gianluca Bolengo. E l’invita a investire nei titoli di alcune banche popolari, visto che Renzi gli ha appena annunciato che sta per riformarle per decreto. De Benedetti: “Il governo farà un provvedimento sulle popolari per tagliare la storia del voto capitario nei prossimi mesi… una o due settimane”. B.: “Questo è molto buono (…)”. D.B.: “Quindi volevo capire una cosa … salgono le popolari?”. B.: “Sì su questo, se passa un decreto fatto bene, salgono”. D.B.: “Passa, ho parlato con Renzi ieri, passa”. B.: “Se passa è buono, sarebbe da avere un basket sulle popolari (…)”. Poche ore dopo il broker di De Benedetti inizia a comprare titoli di sei banche popolari poi coinvolte dal decreto. Di cui ancora nessuno sa niente (a parte l’Ingegnere e chissà chi altri): solo vaghe indiscrezioni sui giornali, ma nessun accenno alle date né tantomeno alla scelta del decreto a effetto immediato. Poi puntualmente, il 20 gennaio, il governo Renzi approva il Decreto Popolari, e i titoli delle banche interessate – ora che la notizia è pubblica – salgono ancora. Così, in quattro giorni, l’editore di Repubblica ed Espresso realizza con la sua finanziaria Romed una plusvalenza di 600 mila euro: soldi che non avrebbe incassato se non avesse saputo (da Renzi, dice lui) ciò che non avrebbe dovuto sapere. Cioè se fosse stato un cittadino come gli altri. L’11 febbraio il presidente Consob Giuseppe Vegas rivela alla Camera che una serie di “soggetti hanno effettuato acquisti prima del 16 gennaio, eventualmente accompagnati da vendite nella settimana successiva”, creando “plusvalenze effettive o potenziali stimabili in 10 milioni di euro”. La Consob ipotizza un insider trading di “secondo livello” (depenalizzato nel 2004 da B. a illecito amministrativo), ma anche ipotesi di reato, infatti trasmette le carte alla Procura di Roma. Alla fine la Consob archivierà la sua istruttoria, con voto a maggioranza dei commissari e astensione di Vegas. Che fa la Procura di Roma, con quelle intercettazioni in mano? Poco o nulla: non iscrive né intercetta Renzi, De Benedetti e altri possibili soffiatori o profittatori di notizie riservate (cosa che invece fecero i pm di Milano e la gup Forleo nel 2005, alle prime avvisaglie dei reati finanziari dei “furbetti”, gettando una rete così vasta che alla fine acchiappò persino il governatore Fazio). Si limita a sentire in gran segreto il premier e l’Ingegnere come testi. L’unico indagato (per ostacolo alla vigilanza) è Bolengo, di cui 18 mesi fa il pm chiede l’archiviazione (per ora non accolta dal gip). La tesi è che non si possono sospettare Renzi e De Benedetti di insider trading perché l’Ingegnere non è preciso sulle due “informazioni privilegiate” che potrebbero integrare il reato: con Bolengo non parla esplicitamente di decreto (lo fa invece il broker, ma “in modo del tutto generico e non tecnico”), né mostra di conoscerne la data. Il 14 dicembre, in Commissione banche, Vegas parla non solo della Boschi, ma anche degli incontri fra Renzi e De Benedetti prima del Decreto Popolari. E subito la Procura si precipita a precisare che “non ha istruito alcun procedimento a carico di Renzi e De Benedetti”. Come se questo fosse un vanto. (…).
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
mercoledì 28 febbraio 2018
Primapagina. 70 “D.B.: Passa, ho parlato con Renzi ieri, passa”.
Da “Insider Renzing” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 10 di gennaio 2018: (…). Tutto comincia a metà gennaio 2015: la Consob, organo di vigilanza sulla Borsa, nota un’improvvisa fibrillazione attorno ai titoli di alcune banche popolari. La più appetita è Etruria, che a furia di acquisti sale di valore fino al 65%. Cosa induce tanti investitori a comprare azioni di quella e di altre banchette pericolanti? Sanno qualcosa che i comuni mortali ignorano? La Consob attiva la Guardia di Finanza, che acquisisce dai broker gli ordini di acquisto sospetti (tutti registrati per legge). Uno è di De Benedetti che il 16 gennaio, un mese dopo aver definito in tv Renzi “un fuoriclasse”, telefona al suo broker di fiducia, Gianluca Bolengo. E l’invita a investire nei titoli di alcune banche popolari, visto che Renzi gli ha appena annunciato che sta per riformarle per decreto. De Benedetti: “Il governo farà un provvedimento sulle popolari per tagliare la storia del voto capitario nei prossimi mesi… una o due settimane”. B.: “Questo è molto buono (…)”. D.B.: “Quindi volevo capire una cosa … salgono le popolari?”. B.: “Sì su questo, se passa un decreto fatto bene, salgono”. D.B.: “Passa, ho parlato con Renzi ieri, passa”. B.: “Se passa è buono, sarebbe da avere un basket sulle popolari (…)”. Poche ore dopo il broker di De Benedetti inizia a comprare titoli di sei banche popolari poi coinvolte dal decreto. Di cui ancora nessuno sa niente (a parte l’Ingegnere e chissà chi altri): solo vaghe indiscrezioni sui giornali, ma nessun accenno alle date né tantomeno alla scelta del decreto a effetto immediato. Poi puntualmente, il 20 gennaio, il governo Renzi approva il Decreto Popolari, e i titoli delle banche interessate – ora che la notizia è pubblica – salgono ancora. Così, in quattro giorni, l’editore di Repubblica ed Espresso realizza con la sua finanziaria Romed una plusvalenza di 600 mila euro: soldi che non avrebbe incassato se non avesse saputo (da Renzi, dice lui) ciò che non avrebbe dovuto sapere. Cioè se fosse stato un cittadino come gli altri. L’11 febbraio il presidente Consob Giuseppe Vegas rivela alla Camera che una serie di “soggetti hanno effettuato acquisti prima del 16 gennaio, eventualmente accompagnati da vendite nella settimana successiva”, creando “plusvalenze effettive o potenziali stimabili in 10 milioni di euro”. La Consob ipotizza un insider trading di “secondo livello” (depenalizzato nel 2004 da B. a illecito amministrativo), ma anche ipotesi di reato, infatti trasmette le carte alla Procura di Roma. Alla fine la Consob archivierà la sua istruttoria, con voto a maggioranza dei commissari e astensione di Vegas. Che fa la Procura di Roma, con quelle intercettazioni in mano? Poco o nulla: non iscrive né intercetta Renzi, De Benedetti e altri possibili soffiatori o profittatori di notizie riservate (cosa che invece fecero i pm di Milano e la gup Forleo nel 2005, alle prime avvisaglie dei reati finanziari dei “furbetti”, gettando una rete così vasta che alla fine acchiappò persino il governatore Fazio). Si limita a sentire in gran segreto il premier e l’Ingegnere come testi. L’unico indagato (per ostacolo alla vigilanza) è Bolengo, di cui 18 mesi fa il pm chiede l’archiviazione (per ora non accolta dal gip). La tesi è che non si possono sospettare Renzi e De Benedetti di insider trading perché l’Ingegnere non è preciso sulle due “informazioni privilegiate” che potrebbero integrare il reato: con Bolengo non parla esplicitamente di decreto (lo fa invece il broker, ma “in modo del tutto generico e non tecnico”), né mostra di conoscerne la data. Il 14 dicembre, in Commissione banche, Vegas parla non solo della Boschi, ma anche degli incontri fra Renzi e De Benedetti prima del Decreto Popolari. E subito la Procura si precipita a precisare che “non ha istruito alcun procedimento a carico di Renzi e De Benedetti”. Come se questo fosse un vanto. (…).
martedì 27 febbraio 2018
Primapagina. 69 “Il PD e la leccocrazia”.
Da “PD, la
leccocrazia formato scimpanzè” di Pietrangelo Buttafuoco, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 31 di gennaio 2018: (…). Più che un partito, (…), il Partito
democratico che Renzi consegna al giudizio degli elettori è un branco; con lui
stesso nel ruolo di Elemento Alfa, e con gli altri al suo seguito, tutti
chiamati a stargli dietro, col muso appiccicato a pelo della sua stessa coda di
Capo. Il luogo dove stanno tutti, la polis, è diventato un posto per uomo solo
al comando. Una condizione a tal punto innaturale, quella dell’assolutismo, che
neppure il Papa – pur aiutato dallo Spirito Santo – riesce ad avere coi propri
cardinali, e però è uno status che la compilazione delle liste elettorali in
gara per il 4 marzo prossimo, seppure nella forma della caricatura, conclama.
Ed è una conferma più che sfacciata – questa della leccocrazia – quando i
candidati, ancorché miracolati per avere avuto un posto dal Capo, annullano
quell’idea stessa della pluralità, delle competenze, delle idee e anche quella
dei conflitti, sempre più necessari, attraverso cui un’identità si rigenera,
pronunciando voti di sempre più rovente fedeltà. Portatori di voti, sì, Renzi
se li prende. Alla corte dei fedelissimi, aggiunge la corte dei feudatari
locali, i vari De Luca, i D’Alfonso e i Sammartino. Portatori d’idee, giammai.
Più che un movimento di idee, di storie, di territori e di progetti, una piazza
d’arme di pedine a ranghi serrati in vista della più luccicante coda. Non Luigi
Manconi, non Ermete Realacci, non Nicola Latorre, non più politici, insomma,
tutti malauguratamente aristotelici. Niente meritocrazia, nessuna competenza.
Ma solo e soltanto i fedelissimi bravi a inghiottire qualunque cosa arrivi da quella
coda se la prova elettorale – già nel primo passaggio, farsi mettere in lista –
è ormai qualcosa a metà tra una sensalia e la lotteria. L’uomo si riconosce
dalla parola, il bue – invece – dalle corna. E ha ragione Rosario Crocetta
quando si sente buggerato da Renzi che per non candidarlo alle regionali in
Sicilia, gli promette di farlo barone a Roma – “ma che dico barone, duca conte,
anzi, principino regnante…” – e poi invece lo “posa” senza neppure rispondergli
più. Manco fosse, Matteo, il famoso scimpanzé, quello che acchiappa gli
esploratori nella boscaglia, quello che d’improvviso prende, possiede, travolge
e poi… e poi non parla, non chiama, non telefona e manco una cartolina manda.
Così fan tutti, si dirà. (…). Così s’è fatto, a volte. Al parco giochi del
berlusconismo, dove pure se ne sono viste di cotte e di crude – dove perfino
Nunzia De Girolamo, sgradita ai cacicchi di Purpetta, ha rischiato di essere
depennata dalle liste di Forza Italia – si aggiunge questo capitolo curioso
assai per ciò che fu il Pd. Un partito dove pure, sotto l’emblema di Falce e
Martello ebbe casa “il centralismo democratico”, dove il comunismo officiava la
propria dogmatica nel segno del “collettivismo” e che adesso si capovolge
nell’estetica della comitiva, l’opera buffa dei ragazzi del muretto reclutati
all’ombra del Giglio Magico, in una sorta di vendetta di chissà quale vecchia
talpa della storia. Magari quella che sullo Scudo Crociato democristiano
sovrappone la Fidelitas a Libertas, con Renzi proiettato nella dismissione di
qualunque complicazione che non comprenda il suo io-io-io, il famoso raglio con
cui la tracotanza tenta di cancellare il “noi” della politica. Lo scimpanzé che
prende possesso del territorio è quello che se li trascina, i gregari. E non
serve più la politologia per capirne, ma l’etologia, la scienza che studia il
comportamento degli animali per saperne di più degli uomini e di ciò che capita
loro in assenza di libertà e spirito critico. Il quadrupede al comando si
lascia annusare il popò e non servono meriti nell’agoràdel branco. Ma solo e
soltanto fedeltà. Pronta a essere barattata nel momento stesso in cui il capo
inciampa. E sempre inciampa, il capo. Manco fosse, il famoso scimpanzé.
lunedì 26 febbraio 2018
Sfogliature. 92 “C’è tanta m…, non fate l’onda!”.
Il sabato 6 di marzo dell’anno
2010 – sembra un secolo addietro –
postavo la “sfogliatura” di oggi. Mancano appena sei giorni al 4 di marzo p. v.
ma è come se la “sfogliatura” di allora fosse la cartolina dell’esistente di
oggi. Quella “sfogliatura” aveva per inizio “c’è tanta m...” in giro
per il bel paese che oggigiorno, a ben otto anni quasi compiuti, quella “tanta m…” di allora non fa più
scandalo, anzi più se ne produce e se ne scopre più ci si sente come liberati
da un incubo. Poiché la logica che corre e neanche tanto sottaciuta è che se
quella “tanta m…” è ben distribuita tra tutti, ne consegue - o ne conseguirebbe
- che l’impunità debba prevalere e valere per tutti e per sempre. E di questo
passo non taciuto si fa forte una certa idea malsana della politica più becera.
Piove a dirotto e si è in attesa del ciclone Burian. Incontro inaspettatamente G.
– che non vedevo da mesi – e ripariamo in un bar per un caldo caffè. G. è un
formidabile “affabulatore”, avvince ascoltarlo, ha una memoria di ferro per
fatti, luoghi e nomi. Mi affascina ascoltarlo. Per il nostro passato politico
condiviso mi spingo a chiedergli del 4 di marzo. Nessun tentennamento da parte
sua: voterà come sempre, spinto in tal senso anche dall’ultimo invito pervenuto
a “turarsi il naso”. La sua sicurezza mi confonde, ma non mi sorprende tanto.
Gli chiedo il perché di quel voto. Mi risponde: per non dare il paese in mano
alla destra. Lo incalzo e gli chiedo dove abbia ravvisato e/o ravvisasse tutt’ora
la cesura tra il governo della destra e quello della sinistra sopravvenutole.
Ne conviene che nessuna cesura sia sopravvenuta tra le due sponde
destra/sinistra e che nel maramaldeggiare dell’una ha corrisposto il
maramaldeggiare dell’altra. Ed allora? Gli rammento come la prima – la destra –
sia stata poco rispettosa delle altre istituzioni del paese – per la giustizia
innanzitutto -, così come poco rispettosa lo sia stata in seguito la sinistra
soi-disant. Che né l’una né l’altra abbiano mai avuto a cuore il cosiddetto
“bene comune” che, se ce ne fosse il bisogno, la tragicomica scelta della
destra prima – con il suo “porcellum” – e della sedicente sinistra poi – con il
suo “rosatellum”, che è il colore proprio del porcello – stanno lì a confermarlo, procedendo al cambio
delle leggi elettorali vigenti in un paese della comunità europea in prossimità
delle scadenze di voto, in barba proprio a quelle direttive dell’unione europea
stessa che in concomitanza di tali evenienze prevedono il non luogo a procedersi
per il varo di nuove leggi elettorali. Non volevo convincere G. nella sua
determinazione di voto e ci siamo lasciati sotto una pioggia torrenziale con
l’affetto e la simpatia di sempre. Per chi voterò il 4 di marzo? Boh! Che fare?
Scrivevo: “C’è tanta m…” e lo scrivevo non senza un certo imbarazzo,
allora. Oggigiorno, questa condizione è salutata a destra, come nella sedicente
sinistra, come la benvenuta, una manna, poiché in essa si affoga in buona
compagnia. Bene, leggiamo quel di allora: “C’è tanta m…, non fate l’onda per favore.
L’onda ci sommergerà”. Dice la
figuretta posta a sinistra nell’ultima vignetta di Altan pubblicata sul
quotidiano “la Repubblica”: - Ammetta
almeno che l’avete fatta fuori dal vaso! – Risponde la figuretta posta a
destra della vignetta: - Fuori o dentro
è questione di forma: quel che conta è la sostanza -. Domanda: il pitale è
colmo? Non sembra ancora. Resta vuoto. Eppure tutta la m… è visibile, sotto gli
occhi di tutti, viene a galla prepotentemente. Anzi con la prepotenza di sempre
dei vincitori incontrastati. Puzza. È maleodorante. Di m… naturalmente;
sostanza grezza e nobile al contempo. Frutto delle intestine trasformazioni
organiche. Perfetta alchimia dell’organico! Trascrivo di seguito, in parte,
l’editoriale di Marco Travaglio “Forza
Mussolini” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 5 di marzo 2010. Scrittura
esilarante, come sempre. Forse i tempi non combaciano. La macchina del tempo sarà
andata in tilt. Gli strenui difensori della rappresentatività elettorale del
popolo bue di oggi si esprimevano nei termini di seguito specificati nel marzo
dell’anno del signore 2005
in occasione delle elezioni regionali del Lazio. Da “trombare”, allora, Alessandra
Mussolini, transfuga infedele dalle schiere ordinate e compatte del cavaliere
di Arcore. Siamo al marzo dell’anno del signore 2010: svaniti gli impeti
legalitari dei sicofanti di turno di allora, riaffiorano pericolosamente, per
il bel paese, i peggiori istinti populistici nelle schiere dell’egoarca di
Arcore. In un contesto nauseabondo. La m… ci sommergerà: è oramai certo: (…). - Le firme sono macroscopicamente
false! -, tuonava il Giovanardi, - procure e uffici preposti escludano le liste
presentate in modo irregolare! -. - Le autorità competenti facciano controlli a
campione sull’autenticità delle firme! -, strillava il Tajani. – È una truffa
agli elettori! -, fremeva il Landolfi. (…) – È una partita a carte truccate -, si stracciava
le vesti Storace, - qui si gioca sporco, la campagna elettorale va combattuta
ad armi pari -. (…). Storace: - Ha raccolto firme false, è finita -.
Martusciello: - Quando ci sono le elezioni bisogna rispettare le regole -.
Gasparri: - Diamo un premio ai pochi che han messo la firma vera -. La Russa: -
Possono capitare 2,3,10 firme contestabili, ma qui si parla di centinaia!
Pecioni! Dicono di aver dietro falangi, poi non mettono insieme 4 firme
regolari -. Gasparri nei panni di pm: - È un reato associativo, un attentato
alla democrazia. Cosa c’è di più antidemocratico che falsare la competizione
elettorale con firme false? Il capo dello Stato non ha nulla da dire ? -.
Calderoli: - Predicano bene e razzolano male, parlano di moralità e poi
ricorrono a mezzucci -. Formigoni (…): - Le regole vanno sempre rispettate. È giusto
che ci sia un controllo rigoroso degli eventuali abusi e che siano puniti
coloro che ne hanno commessi. Gli organi preposti verifichino se le firme sono
corrette o false -. Ri-Gasparri: - Non è una vicenda politica, ma giudiziaria.
La democrazia è in pericolo, ci sono profili penali. Vanno cancellate le liste
con firme false e vanno perseguiti quelli che le han facilitate. (…). -.
Maroni: - Voglio sanzioni ancor più gravi della semplice esclusione delle
liste: chi raccoglie firme false fa una truffa elettorale -. Alemanno: -
Decidano i giudici. Moltiplichiamo i controlli: sono regole fondamentali per la
democrazia -. Capezzone (…) stava per chiamare i Caschi blu: - S’impongono
controlli a tappeto anche con l’ausilio di osservatori internazionali
(chiedendo un intervento immediato dell’Ocse), su tutte le liste presentate in
tutt’Italia -. Matteoli: - Falsari -. Bondi: - Comportamento disgustoso e
immorale della sinistra che non condanna chi viola le leggi -. (…) Castelli: -
Le firme van raccolte onestamente secondo la legge -. (…) Landolfi: - Sconcertante
-. Bartolini: - I giudici stabiliscono il principio di illegalità, gli elettori
puniranno i truffatori- .
domenica 25 febbraio 2018
Primapagina. 68 “Alla crema di Calend(ul)a”.
Da “Crema di
Calenda” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 24 di
febbraio 2018: (…). Poteva mancare (…) l’illuminato parere del ministro-prezzemolo
onnisciente e onnipontificante Carlo Calenda, detto Crema di Calendula perché è
un impacco che si porta su tutto, dai foruncoli alla crisi di Roma, dalla
micosi del piede ai disastri Ilva e Alitalia, dall’acne giovanile al caso
Embraco? Non poteva. “Sostengo la coalizione di centrosinistra perché abbiamo
bisogno di una classe dirigente seria”, twitta il Calenda, “ma ogni volta che
vedo (sic, ndr) una dichiarazione di Emiliano la determinazione vacilla. Non
comprendo cosa c’entri con il Pd”. Ora, per carità, va bene tutto. Ma Emiliano
è da 11 anni il segretario del Pd pugliese, è stato due volte sindaco Pd a
Bari, è presidente Pd della Regione e un anno fa si è candidato a segretario
Pd. Invece Calenda, che distribuisce e revoca tessere del Pd a chi pare a lui,
al Pd non è nemmeno iscritto perché lo giudica “un circolo chiuso”. Del resto,
alle elezioni 2013 si candidò con la Lista Monti e fu ovviamente trombato.
Perché lui porta sempre buono. Era a bordo anche dell’altro celebre Titanic
della politica italiana: Italia Futura di Montezemolo (in qualità nientemeno
che di “coordinatore politico sul territorio”, infatti Italia Futura sfuggiva
ai radar), col quale aveva collaborato alla Ferrari prima di passare a
Confindustria. A quei tempi ripeteva prima e dopo i pasti, che “l’Agenda Monti
è l’unica strada per la modernità” e “noi siamo alternativi ai Dem, li
batteremo” (Corriere, 2.1.2013). Siccome però quelli come lui, nati bene e
cresciuti anzi pasciuti anche meglio, non possono vivere un solo giorno col
culetto scoperto, appena bocciato dagli elettori Calenda fu raccattato dal
governo Letta come viceministro dello Sviluppo. Renzi lo confermò, ma nel 2016
lo spedì a Bruxelles come un pacco postale, in veste di “Rappresentante
permanente dell’Italia presso l’Ue”. Permanente si fa per dire: Calenda arrivò
il 21 marzo e il 10 maggio era già di ritorno. Giusto il tempo di far incazzare
i diplomatici di carriera, poi abbandonò l’amata Europa per afferrare al volo
il ministero dello Sviluppo lasciato vacante dalla Guidi e riservato, com’è
noto, agli emissari di Confindustria. Lì piantò radici e restò imbullonato
anche con Gentiloni. La sua attività ministeriale s’è trascinata sanza infamia
e sanza lode, fra una crisi irrisolta e l’altra, una marchetta agli industriali
di qua e una di là, fino alla campagna elettorale. Lui, ci mancherebbe, si è
ben guardato dal candidarsi: molto più comodo occupare poltrone all’insaputa
degli elettori, essendone fra l’altro sprovvisto (di elettori, non di
poltrone). Ma ha cominciato a esternare e a presenziare, come tarantolato.
sabato 24 febbraio 2018
Quodlibet. 62 "Pdexit: un’Italia devastata non aiuta l’Europa”.
Da "Pdexit:
troppo pochi, troppo tardi” di Maurizio Viroli, pubblicato su “il Fatto Quotidiano”
del 24 di febbraio dell’anno 2017: “Quando non sai cosa fare, fai quel che
devi”. Questa frase che Pier Luigi Bersani ha pronunciato per motivare la sua
sofferta scelta di uscire dal Partito democratico, è una delle pochissime
affermazioni degne di rispetto e di ammirazione che spicca nel desolante
panorama del dibattito politico italiano. Merita rispetto perché chiarisce che
decisioni politiche di grande importanza devono essere assunte secondo principi
e non secondo interessi personali o di parte. Mi fa piacere render merito a
Pier Luigi Bersani perché in passato, quando ha ragionato e agito in maniera
completamente opposta, quando cioè ha collocato la ‘lealtà alla ditta’ (parte)
al di sopra della Costituzione (principio), l’ho aspramente criticato. Questa
volta, giusta la motivazione, giusta la scelta. Un Pd senza Bersani e senza
tutti coloro che già lo hanno seguito e che lo seguiranno, sarà un partito più
debole e dunque meno in grado di fare male all’Italia come il Pd renziano ha
tentato di fare con la riforma costituzionale e come ha fatto con il Jobs Act,
la Buona Scuola, lo Sblocca Italia, l’Italicum e altro ancora. (…). Nel caso
della scissione del Pd, (…), non credo si possa parlare di una tipica scissione
all’interno della Sinistra, per l’ovvia ragione che questo Pd alleato prima con
Berlusconi, poi con Alfano, per non citare l’amoroso sodalizio con Verdini, di
sinistra non ha proprio nulla. Si potrebbe forse parlare di scissione per la
Sinistra, non della Sinistra. Il giudizio sulla pericolosità di questo Pd per
il bene comune non cambia se il posto di Matteo Renzi (…) lo occuperà Andrea
Orlando. Incapace di far passare una legge che cancelli l’infamia della
prescrizione, ha però tuonato che è bene legare la figura di Craxi “non
soltanto agli errori ma anche a un’idea di innovazione che Craxi propose a un
Paese che da molto tempo non vedeva un’idea di trasformazione della politica”.
Come può il Guardasigilli chiamare ‘errori’ i comportamenti criminali e la
violazione delle leggi? Le ‘idee di innovazione’ sarebbero la spregiudicata
brama di potere e la legittimazione della corruzione? Craxi è stato un
delinquente, il vero iniziatore dei peggiori mali italiani, colui che ha
spalancato le porte a Berlusconi, il propugnatore della ostilità nei confronti
dei magistrati che combattono i criminali, recentemente ribadita da Renzi con
la vergognosa frase “basta con la barbarie giustizialista”. Un Pd forte con a
capo Orlando potrebbe fare ancor più male di quello che ha già fatto il Pd di
Renzi. Diversa considerazione merita la rispettabile scelta di Michele
Emiliano: decidere di restare e provare a combattere i gravi mali di questo Pd
dall’interno, ammesso che possa vincere il congresso, vorrebbe dire scendere a
patti con una forte componente renziana. Ma è bene e giusto, all’interno di un
partito, scendere a patti con chi ha progetti politici diametralmente opposti? Non
trovo convincente, se pur nobile, neppure la riflessione di Romano Prodi e
degli amici Alessia Mosca e Enrico Letta.
venerdì 23 febbraio 2018
Sfogliature. 91 “Gli italiani non si sentono una comunità”.
La “sfogliatura” è del martedì 7
di aprile dell’anno 2009, all’indomani di quella scossa, verificatasi il 6 di aprile
dell’anno 2009 alle ore mattutine (3:32), per effetto della quale L’Aquila e l’Abruzzo
si inginocchiarono soccombenti dinnanzi al terribile disastro. Per altri
iniziava invece la grossa occasione per lo sfruttamento mediatico – ed economico,
caspita! - di un evento che il 6 di aprile prossimo venturo – ben 9 anni dopo -
mostrerà ancora le gravi ferite non sanate. Poiché, come scrive bene Curzio
Maltese sul settimanale “il Venerdì” di Repubblica del 16 di febbraio 2018 – “Nazionalismo di cartapesta” -, “Gli
italiani non si sentono una comunità. (…). Gli italiani hanno paura degli altri
italiani (a ben ragione, stante la Storia che li riguarda grande o
piccola che sia n.d.r.) da secoli, ci siamo massacrati in cento
piccole guerre civili – perfino il dibattito sugli immigrati è un’altra bella
occasione per disprezzarci fra noi – e l’arrivo dei “barbari”è alla fine una
soluzione. L’illusione di trovare in negativo un’identità nazionale non si è
mai forgiata su basi positive, per dire una magnifica lingua che in pochi
praticano o l’orgoglio di un patrimonio culturale che i turisti conoscono e
rispettano meglio di noi. I valori del Risorgimento furono accantonati un
giorno dopo l’Unità, insieme ai suoi eroi. Nel vuoto è avanzato un nazionalismo
di cartapesta, come la storia reinventata dal fascismo e i fondali televisivi
di Berlusconi sui palazzi antichi. Oggi il leader del «prima gli italiani» è
uno che ieri cantava: «Senti che puzza, scappano li cani, sono arrivati i
napoletani». (…). Se proprio non si riesce a trovare in positivo un’identità,
almeno dovremmo sceglierci meglio i nemici della nazione. Che sono i mafiosi, i
corrotti, gli evasori, i politici incapaci, gli speculatori, ben prima dello
straniero. E questo in fondo gli italiani lo sanno benissimo. Scrivevo in
quel tempo andato: Permettetemi una
parola. O più parole. Che non hanno la pretesa alcuna di sbalordire. Di
scandalizzare. Una o più parole che divengano una voce. Una voce vera. Una voce
da “bastian contrario” nel bel mezzo di una tragedia? Una voce fuori dal coro
lamentevole? È che la tragedia diviene, per colpa grande dei mezzi di
comunicazione di massa, materia prima e preziosa assai e da tesaurizzare per
l’intrattenimento più sconveniente che si possa immaginare. Informazione o
intrattenimento? Mi ci dibatto furiosamente. Ed è accaduto anche in questa
tristissima occasione. Non poteva essere altrimenti. Si narra, almeno prestando
fede alla aneddotica corrente, che lui, quello del ventennio nero, avesse dato
disposizione affinché le luci di palazzo Venezia rimanessero accese sempre
nella notte romana. Un espediente mediatico per l’appunto. Primitivo assai. Lui
lavora per tutti noi. Lui veglia sui destini imperiali nostri. Così si saranno
detti i buontemponi aggirantisi nei paraggi di palazzo Venezia nelle tarde ore
romane. È che quel mezzuccio mediatico aveva un limitatissimo potere di
diffusione. Ma con tutto ciò è servito pure a creare una mitologia del capo che
lavora incessantemente per i radiosi destini della patria amata. Solo che ha
pensato bene poi ad affogarla, l’amata patria, in una sciagurata guerra con
tutte le conseguenze tragiche che una guerra comporti. Lo soccorreva però in
quel tempo il benemerito Istituto Luce. Ed avveniva che in tutte le contrade
ubertose del bel paese i filmati in bianco e nero di lui mietitore, di lui
pilota, di lui soldato contribuissero all’indottrinamento forzato del popolo
del bel paese. Altra cosa è invece la televisione oggigiorno. Ché se ne avesse
potuto disporre lui, quello del ventennio nero, in quel tempo, forse le sorti
del bel paese sarebbero state, anche se tragiche sempre, diverse. Forse più
tragiche ancora! Chi lo sa. Ho ascoltato lui, quello del tempo nostro,
collegato telefonicamente con il salotto prontamente allestito dall’imenottero
televisivo, il vespide della tv, in prima serata, con il massimo dell’ascolto, l’ho
sentito perentoriamente impartire disposizioni a due suoi famigli, che
sarebbero poi anche due ministri della repubblica, ministri ma solo a tempo
perso, affinché si muovessero a procurargli, nella nottata incombente ed
all’addiaccio per migliaia di esseri umani, un migliaio ancora, a suo dire, di aitanti
pompieri ed altrettante migliaia di soldati nerboruti da inviare prontamente
nelle zone del dramma. Che lui – detto sempre da lui al telefono
dell’imenottero televisivo, il vespide della tv - aveva organizzato i soccorsi
dall’alto di un elicottero. Che lui garantiva che presso ogni cumulo di macerie
ci sarebbe stato un nutrito gruppo di soccorso. Che secondo lui nessuno sarebbe
stato lasciato solo. Che lui… Che lui… Staremo a vedere o a sentire nei mesi
prossimi venturi. E mentre continuava il diluvio mediatico di immagini senza
utilità alcuna, mi ponevo la questione dove fosse il limite proprio di una
corretta informazione e dove questo limite sforasse nel più indecente terreno
dell’intrattenimento. Ecco il punto: quale il limite dell’informazione
corretta? E dove essa diviene strumento perverso di intrattenimento e di subliminale
asservimento emotivo? Nei filmati del benemerito Istituto Luce è probabile che
venisse preservato e continuasse ad essere contenuto in essi quel “pathos” proprio di ogni creazione che
coinvolga il vedere ed il sentire degli esseri umani. Il famoso “pathos” della classicità. Così come
avviene ogni qual volta si accede ad un luogo deputato alle rappresentazioni. È
che la televisione “mitridatizza”
l’incolpevole ed inconsapevole telespettatore, lo “mitridatizza” al punto da farlo partecipare ad un evento, anche il
più tragico della storia, con un distacco ed una partecipazione indotta dalla
assuefazione subliminale che per essa scorre venefica. Siamo appena usciti
dall’incubo della “Caffarella”.
giovedì 22 febbraio 2018
Quodlibet. 61 “Una grande fuffa di nome Matteo®”.
“Fuffa”.
“Ciarpame,
roba che non vale niente; argomentazione ingannevole o inconsistente regionalismo
lombardo, probabilmente derivato da fuffigno, che in Toscana ha valore di
'garbuglio di fili'. Questa voce lombarda, negli ultimi decenni, si è
guadagnata una meritata ribalta nazionale. La fuffa, dapprima probabilmente derivata da 'fuffigno', cioè
garbuglio di fili e tessuti, o secondo altri addirittura con un'origine
espressiva che descriverebbe un ammasso leggero - indica il ciarpame, roba
dozzinale e completamente priva di valore. Può quindi, propriamente, rivelarsi
fuffa il prestigioso regalo che ci ha fatto l'amico, l'eredità del prozio può
consistere in fuffa, e la soffitta è stipata di fuffa. Ma determinante è il
valore figurato di questa parola: la fuffa è il discorso privo di valore, il
luogo comune, l'argomentazione inconsistente. Si può commentare un articolo
dicendo che è pura fuffa, una critica può essere tutta fuffa a parte un paio di
punti, e non sapendo dare una risposta, si risponderà con della robusta fuffa. Una
parola buffa, piacevole e vigorosa, che dà un bel colore alla frase”.
Parola pubblicata l’11 di agosto dell’anno 2015 su https://unaparolaalgiorno.it/.
Da “Renzi, la grande truffa della fine
del precariato” di Salvatore Cannavò, pubblicato su “il Fatto Quotidiano”
del 22 di febbraio dell’anno 2015: L’ottimismo di Matteo Renzi è quello di un
illusionista. Il “giorno atteso da un’intera generazione”, modo con cui il
premier ha salutato il varo del Jobs Act, potrebbe essere solo un giorno come
tanti vista la scarsa efficacia delle norme approvate venerdì scorso dal
Consiglio dei ministri. La “rottamazione” dei Cocopro, la sintesi mediatica del
provvedimento, potrebbe essere una parola vuota con scarsi se non nulli effetti
sulla precarietà del lavoro. E anche la stima di “200 mila lavoratori che passeranno
da contratti precari alla stabilità” rischia di trasformarsi in un mito. Se non
in una bufala. (…).
mercoledì 21 febbraio 2018
Quodlibet. 60 “Maschi vs donne”.
Da “I maschi
non sanno cosa vogliono davvero le donne” di Umberto Galimberti, pubblicato
sul settimanale “D” del 21 di febbraio dell’anno 2015: (…). Stando a quel che mi (si) scrive,
sembra che la svolta (…) l'abbia data la noia della pornografia. Questa ha il
suo maggior difetto nel fatto che, sul tema che vuol essere sessuale, non gioca
sui volti, sulle parole, sugli sguardi che lasciano intendere le intenzioni e
alimentano il desiderio, ma unicamente sugli organi sessuali. Servendo così
solo a scoraggiare chi non si ritiene all'altezza delle prestazioni ostentate. La
pornografia non conosce il desiderio che si alimenta della mancanza
dell'oggetto desiderato, ma solo la ripetizione reiterata e monotona di gesti
sessuali prevedibili e tutti uguali, per farci affondare in un mare di noia. (…).
martedì 20 febbraio 2018
Primapagina. 67 “B&M, i cavalieri d’Italia”.
Da “Perché
Silvio somiglia a Benito” di Eugenio Scalfari, pubblicato sul settimanale “L’Espresso”
dell’11 di febbraio 2018: (…). Mussolini iniziò la sua vita politica
sotto l’insegna del socialista rivoluzionario e direttore del giornale del
partito, l’Avanti!. All’epoca della guerra di Libia che faceva parte
dell’impero turco, l’Avanti! si schierò contro quella guerra incitando con
articoli di Mussolini la classe operaia a bloccare i binari ferroviari e le
stazioni dove transitavano i treni militari diretti a Napoli per imbarcarsi
verso Tripoli. I socialisti non volevano la guerra e cercavano di impedirla in
tutti i modi. Se c’era da combattere bisognava lottare in casa contro il
capitalismo dominante. Passarono appena tre anni da allora e scoppiò la prima
guerra mondiale. Mussolini cambiò profondamente: divenne favorevole all’intervento
italiano, fu espulso dal Psi e fondò un proprio giornale con il titolo Il
Popolo d’Italia. A guerra scoppiata, l’Italia era rimasta neutrale.
L’interventismo di Mussolini aveva come ispiratore Gabriele D’Annunzio che
godeva di ben altro seguito e autorevolezza culturale e politica. Fu lui in
quel periodo ad essere chiamato il “vate” dell’intervento a fianco della
Francia e dell’Inghilterra e con la Russia, contro l’Austria e la Germania. Nel
1915 l’intervento avvenne, era scoppiata anche per noi la guerra mondiale. Finì
nel 1918. L’anno successivo Mussolini fondò un movimento politico i “Fasci di
combattimento”. Non aveva un seguito di massa, ma il suo era un piccolo
movimento con qualche presenza soprattutto a Milano e in Lombardia e alcuni nuclei
anche in Veneto, in Toscana e in Puglia. Il movimento mussoliniano diventò
rapidamente un partito in gran parte sostenuto dagli ex combattenti, molti dei
quali tornarono alle loro modeste occupazioni e orientati a favore del partito
fascista che era in buona parte mobilitato a loro favore affinché lo Stato e la
classe sociale ricca li sostenesse migliorando il più possibile la loro
condizione. Il partito fascista si batteva dunque per un proletariato ex
combattente nella guerra appena finita ma anche con una pronunciata venatura di
nazionalismo. Il programma del fascismo inizialmente era stato quello di
abolire la monarchia in favore della repubblica, ma il partito nazionalista,
che pure esisteva, si orientò verso una fusione con i fascisti ponendo tuttavia
come condizione che essi rinunciassero all’ideale repubblicano e aderissero
invece alla monarchia cosa che avvenne e culminò nel primo congresso del
Partito fascista che si svolse a Napoli nel 1921. Un anno dopo quel congresso,
esattamente il 28 ottobre del 1922, ci fu la marcia su Roma dei fascisti
provenienti da tutta Italia. Il re, Vittorio Emanuele III, si rese conto della
loro forza e assegnò a Mussolini il compito di fare il governo. Naturalmente un
governo democratico poiché i deputati fascisti rappresentavano soltanto il 30
per cento del Parlamento ma l’opinione pubblica era largamente con loro. Fu un
governo democratico con forti tinte autoritarie. C’era comunque una
rappresentanza consistente del Partito popolare mentre il Senato di nomina regia
era in larga misura antifascista. Così quel governo andò avanti a direzione
mussoliniana fino al 1924, quando il leader socialista Matteotti fu ucciso da
un gruppo di fascisti. A quel punto Mussolini aveva due strade: o dimettersi o
rilanciare il governo trasformandolo da semidemocratico in dittatoriale. Scelse
questa seconda strada e con le “leggi fascistissime” nel 1925 creò il regime.
Da allora nasce il Duce e l’ideologia della Roma antica che sarà l’ancora
culturale del fascismo. Berlusconi non ha nessuna velleità di imitare il
fascismo imperiale. La sua somiglianza con Mussolini riguarda il primo periodo
del fascista, quello durante il quale Mussolini cambiò veste, linea, alleanze,
cultura politica in continuazione e cioè dal 1911 fino al 1921. Da questo punto
di vista tra quei due personaggi esiste, (…), una pronunciata somiglianza. Berlusconi
fin da ragazzo si interessò di affari. Maestri e professori con modesti
stipendi facevano un certo commercio attraverso ragazzi svegli tra i quali il
più sveglio di tutti era per l’appunto Silvio. Quando c’era un compito in
classe di matematica o anche di storia quegli insegnanti davano diverse
versioni ma tutte degne di buoni voti a qualche ragazzo abbastanza intelligente
e interessato, il quale vendeva quei compiti in classe trattenendo per sé una
piccola ma interessante percentuale. Man mano che il tempo passava l’affarismo
di Berlusconi diventava per lui più conveniente. Fece traffici con banche
private di dubbia moralità e ne ricavò risultati notevoli. Poi dopo la nascita
delle televisioni locali (esisteva ancora il monopolio nazionale della Rai) si
interessò alla pubblicità televisiva e decise di acquistare alcune televisioni
locali. A Milano ne comprò due e poi una terza dalla Mondadori. A quel punto
collegò tra loro le locali coprendo attraverso di esse una buona parte
dell’Italia settentrionale e centrale. Aveva nel frattempo sviluppato i suoi
interessi nell’edilizia e costruì la cosiddetta Milano 2 dove alloggiavano una
parte dei tecnici televisivi alle sue dipendenze ottenendo le necessarie
concessioni edilizie dal comune interessato. Il possesso di un network non più
locale ma seminazionale attirò naturalmente l’attenzione degli uomini politici
alla guida dei partiti. Berlusconi aveva molti interessi a esserne amico usando
a tal fine i poteri televisivi con i quali appoggiò soprattutto la Democrazia
cristiana e il socialismo più moderato. Questa sua politica gli consentì di
ottenere lavori rilevanti e gli ispirò infine il desiderio di essere anche lui
direttamente il capo d’un partito. Poi arrivò la tempesta di Tangentopoli che
distrusse totalmente la Democrazia cristiana. Berlusconi fondò Forza Italia
mettendo alla guida della sua costruzione alcuni dei dirigenti d’una sua agenzia
pubblicitaria, i quali tuttavia non avevano alcuna competenza politica ma
soltanto organizzativa. La politica la faceva lui. Per Berlusconi Tangentopoli
fu una manna perché parte dei dirigenti della Dc e gran parte degli elettori
democristiani affluirono al partito berlusconiano di Forza Italia. A questo
punto incombevano le elezioni, era il 1994 quando Berlusconi si presentò per il
battesimo elettorale. Le sue televisioni avevano appoggiato senza alcuna remora
i giudici di Tangentopoli, e le elezioni andarono molto bene anche perché aveva
contratto delle strane alleanze: da un lato la Lega Nord di Bossi e dall’altro
il neofascismo di Fini. Bossi e Fini tra loro non si parlavano né si salutavano
ma tutti e due venivano consultati da Berlusconi. Naturalmente le consultazioni
erano puramente teoriche perché era solo Silvio che decideva il da farsi. Nel
frattempo, ad elezioni avvenute, Berlusconi fu incaricato di formare il
governo. Questa situazione durò poco. La Lega decise di uscire dall’alleanza e
Berlusconi dovette dimettersi da presidente del Consiglio. Il presidente della
Repubblica, che lui sperava avrebbe respinto le dimissioni, viceversa le
accettò e chiese però a lui di indicare un successore di suo gradimento per
rendere meno traumatica quella crisi. Berlusconi indicò il nome di Lamberto
Dini, che era stato il direttore generale della Banca d’Italia e nel suo
governo il ministro del Tesoro. Dini governò per un anno e mezzo, poi nacque il
primo governo Prodi che è stato probabilmente uno dei governi migliori
dell’Italia degli anni Novanta.
lunedì 19 febbraio 2018
Terzapagina. 18 “Quando c’era Umberto Eco”.
Quando c’era Umberto Eco, una voce al di sopra dell’inutile
chiacchiericcio globale (Alessandria, 5 di gennaio dell’anno 1932 – Milano, 19 di
febbraio dell’anno 2016). Un Suo ricordo tratto da “Dai faraoni a internet ecco perché i nostri libri sono fragili” di
Umberto Eco, pubblicato sul quotidiano la Repubblica, del 26 di gennaio dell’anno
2017: Come si inventa la scrittura nasce il problema del supporto dove
applicarla. Come ci racconta Platone nel Fedro, quando il dio Theuth propone al
faraone quello strumento che si chiama scrittura il faraone si inquieta perché
pensa che con questo strumento gli uomini perderanno il dono della memoria. Non
sapeva che solo grazie alla scrittura avremmo avuto le migliaia di pagine di
Alla ricerca del tempo perduto. Ma certamente Theuth aveva inventato la
scrittura per supplire alla labilità della nostra memoria e per trovare un modo
di conservare l’informazione in modo non perituro e non privato (bensì
collettivo, in quanto infinitamente riproducibile). Però c’era un terzo
requisito che probabilmente Theuth aveva in mente: che si trovasse un supporto
che non fosse solo duraturo ma anche facilmente maneggevole. Il faraone non
pare avere compreso il problema nel suo insieme: gli egizi iniziavano a
scrivere incidendo su steli e sappiamo quanta fatica costi trasportare un
obelisco. Il fatto è che il problema era duplice: uno concerneva la materia del
supporto, e riguardava la sua resistenza al tempo, l’altra la forma del
supporto, e riguardava la sua trasportabilità e consultabilità. E non era detto
che i due problemi si potessero risolvere insieme. Per esempio le tavolette
d’argilla su cui incidevano i sumeri erano trasportabili o almeno archiviabili
(alcuni testi come il poema di Gilgamesh venivano scritti su più tavolette
numerate raccolte in un contenitore), però erano fragili. In compenso, siccome
erano piccole credo abbiano incoraggiato l’invenzione di quella stenografia che
era in fondo il cuneiforme. Per ovviare alla fragilità, è stata certamente una
bella invenzione la tavoletta cerata, che nasce anche prima dei romani, la
quale non solo non è delicata come l’argilla, ma è anche cancellabile e usabile
più volte. Naturalmente è buona per gli appunti e non per consegnare ai posteri
opere immortali. A quelle si penserà col papiro, probabile invenzione aramaica,
usato sin dal III millennio a.C. Siamo già a un sistema di trasmissione
dell’informazione che è simile ad alcuni che ancora usiamo, o che almeno
usavano i nostri padri: c’è una penna (il calamo, segmento di canna di palude,
appuntito di sbieco e spaccato a una estremità) e l’inchiostro (che varia a
seconda delle epoche o dei luoghi: per esempio gli egizi, i greci e i romani
usavano una soluzione di nerofumo prodotto bruciando resina, sciolto in una
soluzione acquosa di gomma a cui si aggiungevano miele e noce di galla). Il
difetto, ma all’epoca non lo si sapeva, era la labilità: basta fare il conto di
quanti manoscritti su papiro ci sono arrivati, sia pure tenendo conto del fatto
che le biblioteche dell’antichità bruciavano con facilità. I testi in
circolazione erano migliaia eppure non ce ne sono pervenuti moltissimi, e in
malo stato (se i manoscritti del mar Morto hanno resistito meglio è stato
grazie a condizioni climatiche e ambientali eccezionali). Si tenta di ovviare
alla labilità del supporto già in Egitto producendo il cuoio scrittorio usato
per testi religiosi: pelli di capra assottigliate e conciate con succo di
frutti d’acacia ricchi di tannino, e poi tagliato in strisce come quelle del
papiro. Il materiale non si putrefaceva ma si essiccava e frantumava col tempo
(la maggior parte di queste strisce sono andate perdute). Dopo il cuoio si è
tentato con la pergamena, sempre fatta con pelli di animale (per lo più pecora
ma anche vitello o capra) macerate nella calce, quindi tese, rasate, asciugate,
levigate, tagliate e rifilate. La pergamena è più flessibile e meno deperibile
del cuoio. È verosimile che sia stata inventata a Pergamo tra III e II secolo
a.C. Tuttavia per lungo tempo il papiro viene considerato più elegante e ancora
sant’Agostino si scusa di avere scritto una lettera su pergamena e non su
papiro. Però il papiro era quasi trasparente, non poteva essere scritto su
ambedue le pagine del foglio e richiedeva un inchiostro molto leggero, che si
cancellava più facilmente. La pergamena poteva essere scritta su ambo le pagine
e reggeva inchiostri indelebili. Su di essa risultavano meglio eventuali
miniature. Insomma, che piacesse o meno a sant’Agostino, sino a circa il
milletrecento vince la pergamena. Comunque, papiro o pergamena, se i fogli
vengono incollati tra loro a formare un rotolo nasce il volumen (di cui
troviamo le prime testimonianze nel XIV secolo a.C. e che resiste come sistema
di trasporto dell’informazione più di tremila anni, perché in fondo era il modo
in cui sino ai nostri anni Ottanta gli architetti trasportavano ancora i loro
progetti). Il volumen può essere trasportato e riprodotto: diventa pertanto
oggetto di mercato nel VI secolo a.C., quando amanuensi specializzati iniziano
a metterli in vendita per acquirenti facoltosi. Nascono così l’officina e il
mercato del libro. Manca solo il libro. Esso appare come codex tra III e IV
secolo d.C. (anche se ne abbiamo rari esempi nei secoli precedenti). La
pergamena consente di comporre un libro a fogli ripiegati e poi rilegati. Il
codex ha questa meravigliosa qualità: se il rotolo permetteva una lettura
bidimensionale (dall’alto in basso e da destra a sinistra, o viceversa), esso
introduce nella lettura la terza dimensione perché può essere sfogliato ed è
così che si possano consultare quasi contemporaneamente la prima e l’ultima
parte del testo (il volumen non poteva essere “percorso” rapidamente). Non solo
il codex è ideale per la consultazione, ma facilita la lettura.
domenica 18 febbraio 2018
Lalinguabatte. 49 “Cosmonauta e l’equivoco del mito americano”.
Sono riuscito – finalmente - a (ri)vedere
su DVD il bellissimo film “Cosmonauta” della
regista – al tempo del Suo lavoro, regista esordiente - Susanna Nicchiarelli.
Film delicato e dall’intreccio sorprendente, tanto da avere incantato la platea
di Venezia in quell’anno 2009 – un’era addietro appena - e di aver vinto a mani
basse il premio per la sezione “Controcampo italiano”. Lo segnalo e lo
raccomando ancora tutt’oggi per rischiarare un orizzonte reso oscuro assai mentre
langue una campagna elettorale delle più insignificanti e rozze. Con una
precisazione opportuna e doverosa per i non addetti ai lavori: chi all’epoca
dei fatti rappresentati – dal 1957
in poi - non avesse ancora messo piede su questo angolo
d’universo chiamato Terra, ben poche emozioni ne potrà cogliere dalla visione
del film. Altrimenti, è tutto un susseguirsi di emozioni e di nostalgie.
venerdì 16 febbraio 2018
Terzapagina. 17 “L’illusione della sovranità”.
Da “L’illusione
della sovranità” di Stefano Feltri, riportato su “il Fatto Quotidiano” del 13
di febbraio 2018: Dietro la domanda di sovranità che costituisce il nucleo dell’attuale
rinascita del populismo, in Europa e non solo, ci sono malesseri comprensibili
e argomenti che perfino l’establishment contestato dai populisti ora riconosce:
il disagio per le conseguenze della globalizzazione, l’uniformità di idee e
programmi tra i partiti tradizionali, disuguaglianze crescenti non più
giustificabili come necessità per garantire un aumento del benessere anche per
le parti più deboli della società. Questa richiesta di “contare”, di avere un
ruolo, si declina in varie forme nei diversi Paesi, ma non svanirà anche con
qualche decimale di Pil in più e di disoccupazione in meno. Perché si alimenta
di una sfiducia strutturale e profonda verso un sistema di partiti, Parlamenti,
élite e istituzioni internazionali, considerato non riformabile, non importa
quali promesse vengano fatte in campagna elettorale. Domande e dubbi legittimi,
che però hanno pericolosi effetti collaterali.
giovedì 15 febbraio 2018
Quodlibet.59“#quellochenonpossiamopiùprendereingirolanostragente”.
Da “Il
maramaldo e i fratelli Marx” di Daniela Ranieri, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 15 di febbraio dell’anno 2017: Spifferi pilotati ad arte
anticipano che sarà una “sfida”, anzi una “partita a scacchi”: il Leader
procederà alla “conta”. Il Kasparov della cazzata è lì, accanto al capo del
governo che ne fa le veci: maglioncino da seminarista dell’Opus Dei, canta l’inno
nazionale manco fossimo in guerra, col petto gonfio e il mento alto. Ci manca
che chiuda gli occhi come i calciatori. Lo streaming certifica che Mameli è
preceduto dalla hit vincitrice di Sanremo Occidentali’s Karma, che Matteo si
intesta in quanto rottamatrice della tradizione degli Al Bano e Ron, i D’Alema
e Bersani della musica. Siam pronti alla morte. Loro. Noi alla direzione del
Pd, e non si sa a chi va meglio. La voce di Orfini. Ogni volta dimentichiamo
quali picchi di ancestrale fastidio possa provocare.
mercoledì 14 febbraio 2018
Terzapagina. 16 “#nonsonienteefacciotutto”.
Da “Non so
niente e faccio tutto” di Denise
Pardo, pubblicato sul settimanale L’Espresso del 4 di febbraio 2018: Pensare
che un tempo era un insulto feroce, per moltissimi lo è ancora, meno male, «lei
è un incompetente, come si permette, la sfido a duello, a karate, a judo, a
sumo». Poi dal fare spallucce all’offesa si è andati un passo avanti ancora o
indietro dipende dai punti di vista e il giudizio offensivo ora si è tramutato
in una qualità. È diventato un quoziente che sta cambiando la morfologia
culturale della società occidentale, si è trasformato in una parola e una
parabola chiave dell’ampio raggio che da Donald Trump arriva a Luigi Di Maio
(con le dovute mega-galattiche differenze tra i due) e che contraddistingue la
nuova classe politica (ma non solo quella) emergente e soprattutto vincente.
Buoni a nulla diceva Leo Longanesi ma capaci di tutto. Nell’Italia del disagio
e dell’inquietudine, della disoccupazione giovanile e del precariato a metà del
guado tra liberismo e “postofissismo” il modello dell’incompetente di successo
rassicura più delle lotte sindacali. Non c’è da stupirsi se la carenza di
preparazione assurta però a dogma, dottrina e teoria politica, (…), goda di un
plauso sempre maggiore. Che liberazione aver fatto gli asini, i vitelloni, gli
sfaccendati, non essere minimamente preparati, professare zero esperienza e
competenza senza essere bollati come paria avendo sconfitto finalmente, di
fronte agli intellettuali e agli esperti arroganti (i gufi professori già
disprezzati da Matteo Renzi) il senso d’inferiorità. Ovvero il complesso di non
aver conquistato uno straccio di diploma, un brandello di laurea, un
master-borsa di studio, marchio di potenziale corruzione. O anatema degli
anatemi non aver vinto un PhD massimo grado d’istruzione universitaria, in
genere sventolato nei curricula di clan contaminati dal potere affiliati a
lobby europee fellone con posto al calduccio in una banca centrale dell’Unione.
Così il dolce far niente è diventato viatico per seggi al Senato e alla Camera,
e forse in futuro per scranni ancora più alti nonostante briciole di studi e
mozziconi d’impiego e dunque è meglio affermarlo nei salotti tv come il più
orgoglioso dei manifesti. (…). La
neo-scienza sociale dell’incompetenza è studiata con foga nei laboratori più
accreditati dell’intellighenzia e dei cervelloni nella consapevolezza culturale
che si tratti di uno scontro di sopravvivenza, di un mondo che può saltare per
aria o uscirne con un potere molto ridimensionato. Sull’argomento si sommano
articoli, titoli, pubblicazioni, simposi soprattutto nel mondo accademico
anglo-sassone dopo la Brexit e l’elezione di Trump presidente che non sa
leggere un bilancio, non conosce le leggi ma di questo ha fatto un vanto e una
bandiera che lo hanno portato dritto dritto alla Casa Bianca e a un anno di
distanza non è mai stato messo in castigo da Wall Street e inizia persino a
incassare qualche apprezzamento. Le fabbriche di teste d’uovo Harvard e Oxford
monitorano il fenomeno e da noi anche l’università Luiss di Roma benemerita dà
il suo contributo pubblicando un saggio al centro di un clamore internazionale.
Titolo “La conoscenza e i suoi nemici” sottotitolo “L’era dell’incompetenza e i
rischi per la democrazia” è scritto da Tom Nichols professore di National
Security Affairs all’US Naval War College di Newport e cattedra alla Harvard
Extension School.«Tutti dovrebbero leggere questo libro», ha consigliato il
premier Paolo Gentiloni al Forum Ambrosetti a Cernobbio consacrando la sua
uscita. La tesi è che l’enorme accesso alle porte della conoscenza offerto da
Internet non ha creato l’alba di un nuovo illuminismo ma «il sorgere di un’età
dell’incompetenza in cui una sorta di egualitarismo narcisistico e disinformato
sembra avere la meglio sul tradizionale sapere consolidato». Nichols ricorda il
tweet del fumettista e scrittore Scott Adams durante la campagna elettorale di
Trump: «Se per diventare presidente è necessaria l’esperienza ditemi un tema
politico che io non potrei padroneggiare in un’ora sotto la guida di superesperti»,
purché beninteso con l’aiuto di Google, Wikipedia e il tam tam di Facebook e
Twitter. Una teoria confortante quanto un tête-à-tête con Kim Jong-un. «La
nostra vita culturale e letteraria è piena di funerali prematuri», scrive nella
prefazione il professore di Harvard. «Se le competenze di settore non sono
morte, sono però nei guai. Qualcosa è andato terribilmente storto». Di sicuro
in Italia è andato storto il rapporto pieno di aspettative tra opinione
pubblica e approdo dei tecnici, i competenti, al governo. La pietra tombale di
quello che all’inizio sembrava un idillio fiducioso, l’esperto aveva qualcosa
di divino rispetto ai politici di professione grazie a preparazione, studi,
conoscenza delle varie materie, (…). Naturalmente non tutti hanno fortuna e
possibilità di trovare la propria strada con lungimiranza e costanza, ma quel
che non torna è la presunzione dell’incompetenza, quel saper tutto di tutto:
«persone qualsiasi persuase di essere depositarie di un patrimonio di sapere,
di essere più informati degli esperti, dei professori e di essere molto più
acuti della massa di creduloni», descrive Nichols nel libro. Li chiama
«spiegatori» entusiasti di illuminare, in conversazioni «estenuanti», dalla
storia dell’imperialismo ai pericoli connessi ai vaccini. (…).
martedì 13 febbraio 2018
Quodlibet. 58 “Che scuola è se non addestra al pensiero?”.
Da “Che
scuola è se non addestra al pensiero?” di Umberto Galimberti, pubblicato
sul settimanale “D” del 13 di febbraio 2016: Dietro lo slogan dell'alternanza
studio-lavoro c'è l'idea sbagliata che le due attività siano alternative, come
se non fosse proprio la cultura ciò che permette all'uomo di migliorare. Penso (…)
che tutte le scuole secondarie superiori debbano essere scuole di formazione,
il cui obiettivo non è quello di addestrare al lavoro ma di formare l'uomo, con
l'attenzione rivolta alla sua intelligenza per addestrarla al senso critico e
al suo sentimento, per renderlo idoneo ad avvertire, anche senza mediazioni
intellettuali, la differenza tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò
che è ingiusto. Quando un giovane è formato, è anche idoneo ad apprendere
qualsiasi attività lavorativa, a partire dalle sue scelte universitarie che lo
addestrano a competenze specifiche. Capisco che oggi parlare di formazione
significa parlare di qualcosa che non interessa ai genitori, che pensano
unicamente all'attività futura che il figlio potrà intraprendere. Questo spiega
per esempio perché assistiamo a un'iscrizione in massa al liceo scientifico,
rispetto al liceo classico, nell'ingenua supposizione che quest'ordine di studi
addestri meglio la mente al mondo della scienza e della tecnica, che è
diventato per noi oggi l'unico mondo, a scapito del modo della vita. Chiamo
mondo della vita quel mondo dove fanno la loro comparsa arte, letteratura,
cinema, teatro: in una parola la cultura, che poi è l'unico tratto per cui
l'uomo si distingue dalla bestia. «Con la cultura non si mangia», diceva un
nostro ministro dell'economia. Non è vero, ma anche se lo fosse, crediamo sul
serio che un popolo possa migliorare e crescere, anche economicamente, senza
cultura? I paesi più avanzati non sono anche quelli in cui la cultura è più
diffusa? Eppure queste considerazioni, tanto ovvie da vergognarsi persino a
ricordarle, collassano di fronte all'atmosfera del nostro tempo, che conosce
come unico generatore simbolico di tutti i valori il denaro. Il denaro non è di
per sé il male, semplicemente è il mezzo per acquistare qualsiasi cosa. Ma cosa
acquista il denaro che circola in una popolazione colta rispetto a una incolta?
Negli anni Sessanta e Settanta, quando la società italiana era un po' più colta
di oggi, si pubblicavano libri che ora non venderebbero neppure una copia
(penso a Heidegger, Horkheimer, Marcuse, Sartre, Foucault, giusto per fare
qualche nome). Di conseguenza, in un paese di scarsa cultura le case editrici
devono piegarsi ad accontentare i gusti un po' elementari, quando non
grossolani, della popolazione, contribuendo a loro volta al decadimento del
livello culturale del paese. Lo stesso può dirsi per il teatro, il cinema,
l'arte che diventa tale solo quando entra nel mercato e si propone come
"evento". Se un lavoro teatrale o un film non raccoglie spettatori in
gran numero già dalla prima settimana, sospende le repliche o viene ritirato,
anche se è intelligente e ben recitato ma forse troppo intelligente per il
livello degli spettatori. Così il degrado viene alimentato e il fiume
dell'ignoranza collettiva s'ingrossa, perché a suo tempo la scuola non ha
generato una curiosità e una fascinazione per la cultura, dato che la sua
preoccupazione è addestrare al futuro mondo del lavoro. Il quale, detto per
inciso, non sa che farsene della presenza periodica o il più delle volte
saltuaria di studenti che, senza praticarlo, lo "visitano" come si
visita una mostra. A questo punto diventano inutili il greco e il latino
giudicate lingue morte, anche se senza quelle noi occidentali non avremmo avuto
accesso all'etica, alla politica, alla democrazia, alla medicina, al teatro
comico e tragico. Alle discipline da eliminare si aggiunge la filosofia, che si
ritiene egregiamente sostituita dalla scienza, anche se questa non dà risposte
alle problematiche più profonde che spesso si agitano tra i pensieri e i
sentimenti dell'uomo. Parlando di "alternanza scuola-lavoro", oggi si
pensa che le due cose siano alternative e, dovendo scegliere, si preferisce
sacrificare l'aspetto formativo a quello che addestra in vista della
produttività e della spendibilità immediata del proprio sapere, posto che nel
frattempo lo si sia acquisito.
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