Da “L’antiberlusconismo
spiegato al premier” di Guido Crainz, sul quotidiano la Repubblica del 28 di
agosto dell’anno 2015: Ha avuto uno sguardo un po’ distratto negli
ultimi vent’anni, Matteo Renzi, se dell’antiberlusconismo ha colto solo qualche
settarismo e qualche semplificazione. Ed è grave se si è fermato ad essi senza
riflettere realmente su quel che è stata la “stagione di Berlusconi”: con il
prepotente emergere di deformazioni culturali, sociali e politiche già
riconoscibili negli anni Ottanta. Con una
irresponsabilità di governo che nel 2011 ci ha portati sull’orlo del
crollo, con uno stravolgimento delle istituzioni che ha inciso in profondità
sul loro concreto funzionamento ed è stato fermato appena in tempo. Prima che
riuscisse ad intaccare quell’equilibrio fra i tre poteri dello stato che è il
fondamento della democrazia. Non si liquida con una battuta quella fase:
«Questa settimana - scriveva appunto nel 2011 un commentatore del New York
Times - mi sono trovato a pensare che anche il valore della mia pensione
potrebbe dipendere da Silvio Berlusconi». Non vi può essere una vera
rifondazione del Paese (un “cambiar verso”) senza fare realmente i conti con
l’Italia che è confluita nella stagione berlusconiana e che in essa si è
consolidata. Raccoglieva molti umori fermentati negli anni ottanta il
Berlusconi della “discesa in campo”, e lo segnalarono via via - inascoltati -
non pochi commentatori. Dietro la predicazione di “un nuovo, grande,
straordinario miracolo italiano” vi era la rimozione del macigno economico ed
etico che pesava sul Paese: un debito pubblico che ne aveva minato l’economia e
lo stesso modo di essere, abituandolo a vivere a credito; abituandolo a
dissipare ricchezza e a lasciare il conto alle generazioni future. Rimarrà questa
fino all’ultimo la cifra del berlusconismo, dalla “finanza creativa” di
Tremonti sino agli ultimi scampoli del suo governo, con la ostinata negazione
della crisi che incombeva. E con un atteggiamento di fondo «che guardava con
indulgenza sottaciuta alla indole degli italiani. Alla loro diffidenza verso la
dimensione pubblica, ai loro egoismi di corporazione, alle elusioni fiscali,
all’irritazione provocata dalle norme» (…). E ampi settori sociali percepirono
e condivisero il suo “liberalismo” per quel che era, profonda insofferenza alle
regole.
Si pensi anche al populismo berlusconiano, capace di intercettare un
“antistatalismo” di antica data e al tempo stesso umori fermentati nella crisi
dei partiti novecenteschi (e nel passaggio dalla “rappresentanza” alla
rappresentazione mediatica). Capace di riproporre in forme nuove le vecchie
culture «dell’anti-partito e dell’anti-politica, un desiderio di nuovo che
faccia piazza pulita dei metodi di mediazione democratica per cercare in un
leaderismo forte il momento demiurgico della decisione». E «il processo agli
inquilini corrotti del “palazzo” si trasformava nella denigrazione di oltre
quarant’anni di democrazia» (…). Si trasformava, anche, in quella
“diseducazione civica” nei più diversi campi (…): dal fisco alla scuola, dalla
magistratura a una Costituzione bollata talora come frutto ideologico del
comunismo. Su questo terreno confluivano sia umori tradizionali della “destra
smoderata” italiana sia abiti mentali sedimentati appunto negli anni Ottanta in
non pochi settori sociali e politici: «Insofferenti alle tradizionali austerità
democratiche, amanti del denaro e del potere, infastiditi dagli egualitarismi »
(…). È nell’azione di governo però che la “diseducazione civica” dell’ex
Cavaliere si è concentrata in modo potente, svilendo il senso delle istituzioni
ed entrando in conflitto con le più elementari norme dello stato di diritto. Ed
aprendo (…) conflitti con gli altri poteri dello Stato e con lo stesso dettato
costituzionale (…). Non è possibile sorvolare sui guasti delle leggi ad
personam o sulla corruzione accertata (dai fondi neri per alimentarla ai
giudici e ai parlamentari comprati): senza questi aspetti non si comprenderebbe
neppure il colossale salto di qualità compiuto rispetto agli anni di
Tangentopoli. E quindi la assoluta necessità e urgenza di una radicale
inversione di tendenza: consapevolezza che è sembrata progressivamente mancare
a Renzi in questi mesi. Si consideri infine lo stravolgimento istituzionale
avviato da Berlusconi nel 2001 e giunto al culmine alla vigilia della sua
caduta: il premier — annotava Scalfari nel 2010 — vuol riscrivere la
Costituzione “mettendo al vertice una sorta di “conducator” eletto direttamente
dal popolo (…) e subordinando alla sua volontà il potere legislativo, i
magistrati, la Corte Costituzionale e le autorità di controllo e di garanzia».
Era difficile dargli torto: a meno di non essere, appunto, molto distratti. Certo,
un antiberlusconismo urlato ha coperto talora un vuoto di contenuti (lo aveva
sottolineato già Walter Veltroni) e sono state molte le responsabilità del
centrosinistra, incapace in primo luogo di un rinnovamento radicale della
politica: a quest’opera si era candidato Matteo Renzi ma anche quell’impegno si
è molto sbiadito con lo scorrer del tempo. Si pensi poi a un altro nodo, la
sostanziale inadeguatezza nel contrastare la berlusconiana “illusione del
miracolo”. Certo, in nome dell’emergenza il centrosinistra si è trovato ad adottare
responsabilmente politiche di rigore (dal primo governo Prodi sino al governo
Monti): non sostenute però da una reale visione di futuro e prive così di una
reale capacità di convinzione. E contrastate con forza dalla sinistra estrema,
consonante in questo con la berlusconiana “cultura del miracolo”. Da questo
nodo irrisolto discende anche la vaghezza estrema con cui oggi si parla di
“ripresa”, quasi si pensi ad un tranquillo ritorno agli scenari precedenti la
crisi. Quasi si consideri superfluo riflettere a fondo sulle trasformazioni
globali che sono intervenute, e che esigono scelte inedite: ma forse proprio
questo una forza riformatrice dovrebbe fare, risparmiandosi battute ad effetto.
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