Da “Non
obblighiamo gli stranieri a integrarsi” di Umberto Galimberti, sul
settimanale “D” dell’8 di agosto dell’anno 2015: Non attardiamoci nella difesa dei
nostri confini. La storia si muove molto velocemente e noi occidentali dovremmo
pensare ad accogliere anche le differenze. (…). …noi occidentali, dopo avere
costruito il nostro benessere sulla colonizzazione del mondo, oggi stentiamo ad
accogliere le vittime degli effetti tardivi e disastrosi della nostra
colonizzazione in quei Paesi dove altri colonizzatori, più feroci di noi, hanno
preso il nostro posto. O dove guerre di potere, cui noi non siamo del tutto
estranei in termini di interessi economici o addirittura di fornitura d'armi,
seminano vittime in stragi di massa, costringendo chi fugge a preferire una
morte probabile a una morte certa. Ci consideriamo una civiltà superiore perché
difendiamo e talvolta, un po' ipocritamente, tentiamo di esportare diritti
umani e democrazia, alla condizione però che questi due valori non confliggano
col mercato, perché in questo caso non esitiamo a sacrificarli. Questo
argomento, che trova la sua conferma per esempio nei nostri rapporti con la
Cina, applicato agli immigrati determina uno stile di accoglienza che li
prevede non come "persone", ma solo come "produttori di merci e
di servizi", con una possibilità di circolazione limitata e comunque
inferiore ai beni che producono, per i quali non esistono frontiere. Per non
parlare del concetto di "integrazione" che chiediamo allo straniero
quando decidiamo di accoglierlo. Sotto l'apparente ovvietà della richiesta, mai
problematizzata e neppure oggetto di una minima riflessione, io leggo una sorta
di mancanza di rispetto, perché ciò che allo straniero si chiede è di
rinunciare alla "differenza" in cui sono le radici della sua
identità. Allo straniero si può chiedere senz'altro di ottemperare alle leggi
del Paese in cui è giunto, ma anche di "integrarsi", rendendosi
estraneo alle sue origini? Questo problema era già stato preso in
considerazione duemila anni fa dal pensiero gnostico, che parlava dell'angoscia
insolubile dello straniero, che proviene da altro luogo, e a quelli del luogo
appare sospetto. Allo stesso modo, il luogo che lo straniero si trova ad
abitare è per lui estraneo, e perciò disorientante. "Angoscia e nostalgia
della patria sono parte del destino dello straniero che, non conoscendo le
strade del paese estraneo, girovaga smarrito. Se poi impara a conoscerle troppo
bene, dimentica di essere straniero e si perde in un senso più radicale perché,
soccombendo alla familiarità di quel mondo non suo, diventa estraneo alla
propria origine. Nell'alienazione da sé l'angoscia sparisce, ma comincia la
tragedia dello straniero che, dimenticando la sua estraneità, dimentica anche
la sua identità" (M. Lidzbarski, Ginza. Il libro dei Mandei). Se queste
considerazioni hanno una loro plausibilità, viene da pensare che le radici
cristiane, in cui l'Occidente si riconosce, si sono rinsecchite e non hanno
generato neppure un misero arbusto. Inoltre, per effetto della globalizzazione,
nonostante i muri e i fili spinati che qua e là andiamo costruendo, in realtà
stanno cedendo i confini dei territori su cui si orientava la nostra geografia.
Usi e costumi si contamineranno e, se "etica" vuol dire
"costume", è possibile ipotizzare la fine delle nostre etiche,
fondate su quei principi, oggi non più tanto solidi, di nazione, territorio e
confine, perché la storia sta accelerando quei processi di recente avviati, che
sono nel segno della "de-territorializzazione", dove il
"prossimo", sempre meno specchio di me, e sempre più
"altro", obbligherà tutti a fare i conti con la
"differenza". Vediamo di non arrivare in ritardo.
Nessun commento:
Posta un commento