Il sabato 10 di giugno dell’anno
2006 lanciai su questo blog un appello in favore del “NO” nel referendum costituzionale che si sarebbe tenuto nei giorni
del 25 e del 26 di giugno. Allo scopo postai la “Lettera” dello scrittore e
giornalista Ettore Masina che aveva per titolo “Nostra madre la Costituzione”. È interessante rileggere oggi – per
rinvenirne analogie e riconoscerne i soliti protagonisti di quel tempo e del
prossimo appuntamento novembrino (?) - quanto scriveva quell’illustre
opinionista: (…). La Costituzione fu (…) scritta
in un momento fatale della storia italiana, anzi il più importante,
quello in cui dolore e speranza fecondarono il futuro, tracciando scelte che
non erano generazionali perché partorite dai grembi più profondi delle nostre
culture. Per la prima volta tutti i
cittadini sopra i 21 anni (e non solo i benestanti, e non solo i maschi)
avevano potuto scegliere le persone chiamate a esprimere le loro convinzioni e
aspirazioni. Sino a quel momento lo Stato italiano, i poteri pubblici, i
diritti e i doveri dei cittadini, dunque i valori alla base della convivenza nazionale
erano stati definiti dallo Statuto albertino. Era una costituzione scritta per
un piccolo regno, quello di Sardegna, per un popolo di analfabeti e una
frazione di dotti e di sapienti; ma era, soprattutto, un documento calato dall’alto,
dalla benevolenza di un grazioso sovrano; e per questo, per la loro gelosa
proprietà, i discendenti di Carlo Alberto avevano tranquillamente potuto
violarlo sino al grande tradimento del 1922. Nata dai rappresentanti di tutti
i cittadini, la
Costituzione repubblicana fu posta nelle mani del popolo:
nelle nostre mani. Negli anni seguiti alla sua proclamazione, la Carta fondamentale dello
Stato e la Corte
chiamata a interpretarla hanno svolto una funzione preziosa, anche se
l’informazione al riguardo è purtroppo stata
assai scadente e il tentativo di dare vita a una educazione civica che
fosse cultura costituzionale, è stato vanificato dalla stolidità di certa
burocrazia e dalla pochezza intellettuale ed etica di certi cosiddetti
statisti. Decine di norme che pretendevano di regolare disinvoltamente, per
così dire, la vita dello Stato, i
diritti dei cittadini, la sicurezza sociale eccetera sono state bloccate dalla
Corte e i legislatori costretti a riscriverle. Di più: quando vi sono stati più
o meno palesi attacchi alla democrazia, “tintinnio di sciabole” (per usare una
formula famosa) od altre tentazioni di “eccezionalità”, la maggior parte delle
forze democratiche ha potuto serenamente opporsi a qualunque tentazione
autoritaria, richiamandosi con forza al dettato della Costituzione e convocando
attorno ad esso la solidarietà dei cittadini. Proprio per questa ragione la Costituzione non
piace a Berlusconi. Fino a qualche tempo fa pensavo che il Cavaliere guardasse
alla Costituzione con fastidio, come per un vecchio mobile che contrasta con la
modernità di altri arredi. Avrei giurato che la Costituzione, lui,
non l’aveva mai letta. Adesso, dopo i discorsi sul possibile ritiro dei suoi
parlamentari dalla Camere, sul marciare su Roma, sulla lotta nelle piazze
ho mutato parere. Il vecchio adepto
della P2 non ha mai dimenticato il
“Piano Gelli”: il cui primo presupposto è la rielaborazione della Carta per
ridurre il controllo dello Stato e del Parlamento sui poteri economici. Vuole
una repubblica presidenziale, quale la riforma prevede perché, certo di tornare
al governo, non vuole impedimenti all’esercizio del proprio potere.
Mentre
tutti i commentatori politici, mi pare, scrivono che Berlusconi è costretto a
battersi nella battaglia referendaria dalla necessità di non perdere il
sostegno dei leghisti, io penso che il sostegno dei leghisti gli interessi
proprio perché anche loro vogliono il cambio della Costituzione. Negli ultimi
giorni, anzi, li ha spinti a non tentare trattative con gli avversari. Nella
loro battaglia per la devolution, i
leghisti non sono, un fenomeno eversivo
soltanto italiano, tanto meno nuovo. Dovunque via sia un’entità statale nei cui
confini sussistano aree di differente ricchezza, l’ottusità di un egoismo di
massa preme verso una secessione. I discorsi fatti a Verona o a Varese sulle
aree produttive costrette a trainare quelle dei ladroni o degli infingardi, sono soltanto linguisticamente
diversi da quelli che risuonano ai bordi dei campi da golf di Sâo Paulo,
locomotiva del miracolo brasiliano. Il frazionamento della Federazione
Jugoslava reca lo stesso marchio di violenza e di superbia, di disprezzo per la
solidarietà. Nonostante le tensioni del
nostro tempo lo dimostrino giorno dopo giorno, la tentazione di alzare muri di
separazione è vastissima. La Lega crede di poterne
iniziare la costruzione, immiserendo l’unità nazionale. I suoi sostenitori, i
ricchi che vogliono godersi in toto il proprio benessere, non conoscono la
storia e non vogliono conoscerla. Del resto, se passa la devolution, la storia
potranno riscriverla a proprio uso e consumo nelle “loro” scuole. Chissà se
citeranno i soldi del Banco di Napoli trasferiti al Nord, appena realizzata
l’unità d’Italia, per finanziare l’industrializzazione del Piemonte e della
Lombardia, e la forza-lavoro del Sud costretta a emigrare in paesi lontani o
risalire la Penisola
in condizioni di inermità. Viene da piangere quando si considera la differenza
fra gli antichi e i modernissimi
costituenti, dominati questi ultimi dalla ferocia di un capitalismo dialettale
e senza etica. Il NO al prossimo referendum
(quest’occasione così rischiosa perchè ogni
astensione dal voto conterà, di fatto, come un SI’ alla costituzione
“riformata” secondo Berlusconi, Bossi e Casini) è dunque un voto rinnovato alle
scelte di libertà, di giustizia, di solidarietà che l’Italia fece dopo
l’esperienza del fascismo, di una guerra terribile e di una coraggiosa
resistenza al razzismo. Mai come questa volta il Paese è chiamato ad essere
fedele ai momenti più alti della propria storia. E non basta. Man mano che si va
verso la data del referendum, i due poli, incerti sui risultati, propongono
trattative. Da varare prima del voto, dice Bossi, da non escludere, ma dopo,
dicono gli arciprudentissimi olivetani. Ogni possibilità d’accordo non è di per
sé scandalosa. Ma la fedeltà al nostro passato sarà tanto più garantita quanto
più il voto contrario allo stravolgimento non sarà una bandiera sventolata da
una esigua parte di cittadini. Ettore Masina
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