E. ha cinque anni. E mesi. E. se
ne andava, in una domenica torrida, nella città deserta e desolata per la mano
d’un anziano signore. E se ne andavano come nel bel canto del grande Guccini… “un
vecchio e un bambino si preser per mano e andarono insieme incontro alla sera;
la polvere rossa si alzava lontano e il sole brillava di luce non vera...”. E
nel silenzio profondo e lungo che accompagnava il loro andare quello stringersi
per mano era il loro modo di stare assieme ed in pace. Il loro modo di dirsi
tutte le affettuosità non dette. Ah fosse vero quel che Guccini dice dei vecchi
signori… “i vecchi subiscon le ingiurie degli anni, non sanno distinguere il
vero dai sogni, i vecchi non sanno, nel loro pensiero, distinguer nei sogni il
falso dal vero..”. Fosse vero! E fu a quel punto là che E. disse
all’anziano signore: - Ma dove vai quando tu muori? -. E fu a quel punto là che
l’anziano signore sentì come una grande deflagrazione della sua chiusa scatola
cranica. Restò attonito e smarrito. Avrebbe preferito sviare il discorso,
cambiar il tema scabroso magari dirgli… "immagina questo coperto di grano, immagina
i frutti e immagina i fiori e pensa alle voci e pensa ai colori e in questa
pianura, fin dove si perde, crescevano gli alberi e tutto era verde, cadeva la
pioggia, segnavano i soli il ritmo dell' uomo e delle stagioni...”. Non
sarebbe stata la risposta attesa da E. del bel canto di Guccini. E l’anziano
signore pensò a quello che aveva pur letto sull’argomento e avrebbe voluto
rispondere ad E. con la magia della parola creata dall’animo immenso dell’Anna
Maria Ortese nella Sua “Vita di Dea”:
“Chi
potrebbe affermare che i morti siano veramente sotterra? Una volta gettata
l’ultima palata sulla loro fossa, essi si alzano e si allontanano vacillando
pei sentieri oscuri, quali verso i cieli, quali verso i mari, quali verso le
verdi profondità del globo, e Dio solo sa dove andranno e quale forma
rivestiranno, e se non ci fissano ogni giorno, assorti, sotto forma di un
povero animale o di un fiore. Questa Vita è talmente indipendente dal nostro
pensiero limitato, che tutto, dico
tutto, ogni più nobile cosa può accadere: e lo sa chi, capace di ricordare e
osservare, prova continuamente davanti a essa un sentimento di rispetto e
terrore “. Ma non lo volle fare. E. aspettava una risposta. Che venne
così. - Quando si muore si sale dritti dritti in cielo. Ed una volta raggiunto
il cielo ci si sceglie un posticino ed in quel posticino si accende una luce
che non è altro che una stella. E se tu nelle notti chiare vedi una stella che
ti sembra brillare più delle altre e che ti sembrerà ancor più bella a
confronto delle altre, sappi che quella stella lì accesa è quella proprio della
persona alla quale che tu hai voluto un sacco di bene -. E l’anziano signore a
quel punto là tacque. E. gli stringeva sempre più forte la mano. E l’anziano
signore avrebbe voluto a quel punto là che E. gli chiedesse, come nel bel canto
del Guccini che fa… il bimbo ristette, lo sguardo era triste, e gli occhi guardavano cose
mai viste e poi disse al vecchio con voce sognante: "Mi piaccion le fiabe,
raccontane altre!”. Poiché ben sapeva l’anziano signore d’aver
raccontato una fiaba bella e pietosa. “I due camminavano, il giorno cadeva, il
vecchio parlava e piano piangeva: con l' anima assente, con gli occhi bagnati,
seguiva il ricordo di miti passati...”. Poiché si augurava tanto
l’anziano signore di poter un giorno lontano che sia offrire all’amato bambino
una risposta pur vera alle domande sue della vita. Ricordava l’anziano signore
d’aver letto negli anni passati di una risposta che serbava nel cuore e che in
un tempo che fosse lontano avrebbe di certo affidato all’amato bambino.
Scriveva infatti in quella risposta il 5 di dicembre dell’anno 2009 Umberto
Galimberti in “Sete di trascendenza”:
Scrive
il teologo greco-ortodosso Christos Yannaras: "Se ti sei innamorato una
volta, sai distinguere la vita da ciò che è supporto biologico e
sentimentalismo, sai ormai distinguere la vita dalla sopravvivenza" La
consapevolezza della morte, vero tratto che distingue l'uomo dall'animale, fa
sorgere nell'uomo il pensiero dell'"ulteriorità", che resta tale
comunque la si pensi abitata: da Dio o dal nulla. L'amore, infatti, che
ciascuno porta per sé non vuole la propria fine. Anzi penso che l'angoscia che
assale il morente non sia tanto per il congedo dalla propria vita, quanto per
la perdita dell'amore che nel corso della vita ha maturato per sé. Tutti i
pensieri che rinviano a un'ulteriorità, a una trascendenza, sono alimentati da
quell'amore per sé che, sotto il nome di "istinto di conservazione"
ci sostiene durante la vita. Essendo noi dilaniati da quella doppia
soggettività che ci prevede da un lato funzionari della specie e dall'altro
gelosi custodi della nostra individualità, rifiutiamo di risolvere l'amore nel
semplice esercizio della sessualità, puro autoerotismo della natura, dal
momento che il piacere sessuale perpetua la specie e non gli individui. E
perciò nell'amore cerchiamo quel raggio di trascendenza che risveglia la carne
dalla sua opacità, costringendola a cedere quel segreto in cui è custodito il
nostro nome. È il grido disperato dell'individuo che, nell'"eccesso"
espressivo dell'amore, cerca un'"eccedenza", un'ulteriorità di senso
rispetto all'insignificanza della sessualità animale. Il bisogno di
trascendenza nasce qui, proprio nell'esperienza d'amore, che nella morte trova
quel limite che conferma la condizione tragica dell'uomo, sempre al di là di se
stesso, sempre alla ricerca di una trascendenza che lo distingua dalla
condizione animale. Che poi ci sia un Dio che ci garantisce l'eternità o una
terra che ci ricopre di oblio, questo dipende non tanto dalla fede, ma dalla
misura del desiderio umano. È quel grande “desiderio umano” che
c’era tutto nella domanda di E. Quell’inconscio, ancora giovane in lui, che
abbisogna pur sempre di un “sogno” di sopravvivenza, oltre quella “ultima
palata” sulla fossa, ultima e definitiva dimora degli umani. Poiché a
questo mondo è dato che… “La saggezza, (…), è sapere di essere vivi e
morti insieme. (…). Per imparare a essere saggi a questo modo è necessario, se
si è giovani, dimenticare di esserlo; se si è vecchi, dimenticare tutto, anche
il fatto di essere stati giovani” - Umberto Galimberti, su “La
Repubblica” del 29 di agosto dell’anno 2000 -. E. è mio nipote.
Un abbraccio a E. Franca
RispondiEliminaMi piace credere che tutto ciò che abbiamo amato trovi il modo di tornare a noi, anche se forse avrà un altro aspetto e un altro nome...
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