A lato una foto-creazione di Silvia Ripoll Lopez.
Ha scritto Umberto Galimberti in “A che serve un cipresso” (2003): (…).
…la morte non è la vita, quella vita a cui, per tutto il corso della nostra
esistenza, abbiamo cercato di dare
senso. La morte è l’implosione di ogni senso perché segna, (…), “ la
dura vittoria della specie sull’individuo”. Per questo gli uomini, a differenza
degli animali, hanno sempre costruito cimiteri, che non sono “luoghi della
memoria “ come si è soliti dire, ma “luoghi della custodia del senso”, che ogni
vita individuale tenta ostinatamente di esprimere, nonostante sappia che il
ritmo è inesorabilmente scandito dal ricambio organico della materia. È nel
rifiuto di consegnare l’uomo a questa scansione ineludibile il segreto di ogni
cimitero, dove il senso che ogni vita individuale ha cercato di esprimere tenta
di sopravvivere alla sua implosione, finché qualcuno troverà una ragione nel
visitare una tomba, sigillo di ogni biografia. Essere morto, infatti, (…), “è
essere in preda dei vivi” i quali possono continuare a farmi vivere, con la
loro memoria o, con il loro oblio, farmi definitivamente morire. Non
seppelliamo (…) troppo rapidamente i nostri morti, perché con questa sollecita
pratica seppelliamo anche una parte di noi. (…). Per questo “sciptamanent”
dell’1 di agosto il post “Fotografare la
vita non la rende meno effimera” di Arianna Huffington, pubblicato sul
settimanale “D” dell’1 di agosto dell’anno 2015:
Studiamo tanto per essere in
grado di stare al mondo, e neppure un minuto per essere pronti a lasciarlo. Nella
mitologia, la morte viene sempre descritta in termini di trasformazione e rinnovamento.
Non importa quanto la nostra vita sia bella e appagante, quanto noi siamo bravi
a riempirla di benessere, saggezza, meraviglia e generosità: a un certo punto
finirà. E poco importa delle nostre convinzioni su quel che accadrà dopo la
morte, se l'anima continuerà a vivere, se andremo in paradiso o all'inferno, se
ci reincarneremo o torneremo a far parte dell'energia dell'universo, o se
semplicemente smetteremo di esistere: la nostra esistenza fisica e la vita che
conosciamo finiranno. Che la morte sia definitiva o un semplice passaggio verso
qualcos'altro, si tratta comunque di un deciso punto fermo. Magari la storia
non finisce lì, ma il capitolo decisamente sì. (…). In quest'epoca così
polarizzata, dove i media versano tanto inchiostro (o pixel) per sottolineare
quanto siamo divisi e scollegati gli uni dagli altri, la morte rimane l'unica
cosa assolutamente universale, quella che tutti abbiamo in comune. L'unica che
ci rende tutti uguali. Eppure ne parliamo così poco. Nella fredda sala d'attesa
di un aeroporto può succedere di legare con una persona sconosciuta in base
alla magra esperienza condivisa di un ritardo di dieci minuti, così come
possiamo sviluppare un intero rapporto partendo da una comune devozione per Mad
Men, e ciononostante di rado ci viene in mente di socializzare parlando del
colossale elefante morente che abbiamo in salotto: la nostra comune mortalità. In
Occidente, di sicuro, ci limitiamo perlopiù a spazzarla sotto il tappeto. E più
la morte si avvicina, più noi la nascondiamo, accumulando disperatamente
macchine, tubi, allarmi e sponde protettive fra noi e la persona che si
appresta a varcare il confine della mortalità. Le apparecchiature mediche hanno
l'effetto di far sembrare quella persona, il paziente, meno umana, e quindi
anche il suo destino meno rilevante per chi, come noi, ha la fortuna di vivere.
Ci permettono di non pensare alla morte, di rimandarla all'infinito come quel
punto della lista di cose da fare cui non arriviamo mai, per esempio cambiare
piano tariffario del cellulare, oppure liberare un po' gli armadi.
Razionalmente sappiamo che ci arriveremo - prima o poi, magari di schianto - ma
ci diciamo che non serve affrontare la questione fino a quando proprio non ci
si è costretti. Pensare alla morte è come mettersi a cercare uno scaldabagno
nuovo prima che si rompa quello vecchio. Perché farlo ora? Cosa cambierebbe? A
che serve? A molto, in realtà. Non esiste, anzi, cosa al mondo che possa
insegnarci la vita meglio della morte. Se vogliamo ridefinire il significato di
un'esistenza di successo, dobbiamo integrare nella nostra vita la certezza
della morte. Se non si "muore", non si "vive". La morte è
la conditio sine qua non della vita. Cominciamo a morire nel momento stesso in
cui nasciamo. Ed è proprio il fatto che il nostro tempo sia limitato a renderlo
tanto prezioso. Possiamo passare la vita ad accumulare soldi e potere a mo' di
irrazionale, inconscia barriera contro l'inevitabile. Ma quei soldi e quel
potere non saranno più permanenti di noi. Certo, si può lasciare un'eredità ai
figli, ma in eredità si può lasciare anche l'esperienza condivisa di una vita
vissuta appieno, ricca di saggezza e senso di meraviglia. Per ridefinire
davvero la nozione del successo, dobbiamo prima ridefinire il nostro rapporto
con la morte. Ricordo bene i preparativi che facevo durante le mie gravidanze:
le lezioni di tecnica Lamaze, gli esercizi di respirazione, le infinite letture
sull'argomento. Che strano, mi ritrovai a pensare un giorno: passare ore a
imparare come si dà inizio alla vita, e nemmeno un minuto a imparare a
lasciarla. In che modo la nostra cultura ci prepara ad andarcene con grazia e
riconoscenza? Usiamo invece ossessivamente i social media per commemorare le
esperienze, come se fotografare tutto potesse rendere le vite meno effimere. Ma
anche se i resti della nostra esistenza virtuale possono sopravvivere a quella
fisica, la verità è che sono altrettanto fugaci.
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