Da “Nonita”
di Umberto Eco, tratto dal “Diario minimo” – pagg. 11-16 – nella
prima edizione Oscar narrativa Mondadori, ottobre 1988: [Il presente manoscritto ci è
stato consegnato dal guardiano capo delle carceri comunali di un paesino del
Piemonte. Le notizie incerte che l'uomo ci diede sul misterioso prigioniero che
lo abbandonò in una cella, la nebbia di cui è avvolta la sorte dello scrittore,
una certa complessiva, inspiegabile reticenza di coloro che conobbero
l'individuo che vergò queste pagine, ci inducono ad accontentarci di ciò che
sappiamo come ci appaghiamo di quel che del manoscritto rimane — il resto roso
dai topi — e in base al quale pensiamo che il lettore possa farsi un'idea della
straordinaria vicenda di questo Umberto Umberto (ma non fu forse, il misterioso
prigioniero, Vladimiro Nabokov paradossalmente profugo per le Langhe, e non
mostra forse questo manoscritto l'antivolto del proteico immoralista?) e possa
infine trarre da queste pagine quella che ne è la lezione nascosta — sotto le
spoglie del libertinaggio una lezione di superiore moralità.]
Nonita. Fiore della mia adolescenza,
angoscia delle mie notti. Potrò mai rivederti. Nonita. Nonita. Nonita. Tre
sillabe, come una negazione fatta di dolcezza: No. Ni. Ta. Nonita che io possa
ricordarti sinché la tua immagine non sarà tenebra e il tuo luogo sepolcro. Mi
chiamo Umberto Umberto. Quando accadde il fatto soccombevo arditamente al
trionfo dell'adolescenza. A detta di chi mi conobbe, non di chi mi vede ora,
lettore, smagrito in questa cella, coi primi segni di una barba profetica che
mi indurisce le gote, a detta di chi mi conobbe allora ero un efebo valente,
con quell'ombra di malinconia che penso di dovere ai cromosomi meridionali di
un ascendente calabro. Le giovinette che conobbi mi concupivano con tutta la
violenza del loro utero in fiore, facendo di me la tellurica angoscia delle
loro notti. Delle fanciulle che conobbi poco ricordo, perché ero preda atroce
di ben altra passione e i miei occhi sfioravano appena le loro gote dorate in
controluce da una serica e trasparente peluria. Amavo, amico lettore, e con la
follia dei miei anni solerti, amavo coloro che tu chiameresti con svagato torpore
"le vecchie". Desideravo dal più profondo intrico delle mie imberbi
fibre quelle creature già segnate dai rigori di una età implacabile, piegate
dal ritmo fatale degli ottant'anni, minate atrocemente dal fantasma
desiderabile della senescenza. Per designare costoro, sconosciute ai più,
dimenticate dalla indifferenza lubrica degli abituali usagers di friulane sode
e venticinquenni, adoprerò, lettore – oppresso anche in questo dai rigurgiti di
una impetuosa sapienza che mi atterrisce ogni gesto di innocenza che mai tenti
– un termine che non dispero esatto: parchette. Che dire, voi che mi giudicate
(toi, hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère!) della mattutina cacciagione
che si offre nel padule di questo nostro mondo sotterraneo al callidissimo
amatore di parchette! Voi che correte per i giardini pomeridiani alla caccia
banale di giovinette appena tumescenti, cosa sapete della caccia sommessa,
umbratile, ghignante che l'amatore di parchette può condurre sulle panchine dei
vecchi giardini, nell'ombra odorosa delle basiliche, pei sentieri ghiaiosi dei
cimiteri suburbani, nell'ora domenicale all'angolo degli ospizi, sulle porte
degli asili notturni, nei filari salmodianti delle processioni patronali, alle
pesche di beneficenza, in un amoroso serratissimo ahimè inesorabilmente casto
agguato, per spiare dappresso quei volti scavati da vulcaniche rughe, quelle
occhiaie acquose di cataratta, il vibratile moto delle labbra riarse, depresse
nell'avvallamento squisito di una bocca sdentata, solcate talvolta da un rivolo
lucente d'estasi salivare, quelle mani trionfanti di noduli, nervose nel
tremolio lubrico e provocante dello sgranare una lentissima corona! Potrò mai
parteciparti, amico lettore, il languore disperato di quelle fuggevoli prede
degli occhi, il fremito spasmodico di certi contatti labilissimi, un colpo di
gomito nella ressa del tram ("Scusi signora, vuole sedersi?" Oh,
satanico amico, come osavi raccogliere l'umido sguardo di riconoscenza e il
"Grazie, buon giovine", tu che avresti voluto inscenare lì stesso la
tua bacchica commedia del possesso?), lo sfiorare un ginocchio venerando
strisciando, col tuo polpaccio, tra due file di sedie nella solitudine
pomeridiana di un cinema rionale, lo stringere con tenerezza trattenuta –
sporadico momento del più estremo contatto! – il braccio ossuto di una
vegliarda che aiutavo ad attraversare il semaforo con aria contrita di giovane
esploratore! Le vicende della mia beffarda età mi inducevano ad altri incontri.
Lo dissi, apparivo piuttosto affascinante, con le mie gote brune e un volto
tenero di fanciulla oppressa da una morbida virilità. Non ignorai l'amore di
adolescenti, ma lo subii, come un pedaggio alle ragioni dell'età. Ricordo che
una sera di maggio, poco prima del tramonto, quando nel giardino di una villa
gentilizia – era nel varesotto, non lontano dal lago rosso del sole che calava
– giacqui nell'ombra di un cespuglio con una sedicenne implume tutta efelidi,
presa in un impeto di amorosi sensi veramente sconfortante. E fu in
quell'istante, mentre le concedevo svogliatamente l'ambito caduceo della mia
pubere taumaturgia, che vidi, lettore, quasi indovinai da una finestra del
primo piano, la sagoma di una decrepita nutrice piegata curvamente in due
mentre si dipanava lungo la gamba l'ammasso informe di una nera calza di cotone.
La vista fulgorante di quell'arto ingrossato, segnato di varici, accarezzato
dal moto inabile delle vecchie mani intese a srotolare il groppo dell'indumento
mi apparve (occhi miei concupiscenti!) come un atroce ed invidiabile simbolo
fallico blandito da un gesto virginale: e fu in quell'attimo che, preso da
un'estasi irrobustita dalla distanza, esplosi rantolando in un'effusione di
biologici consensi che la fanciulla (improvvida ranocchietta, quanto ti odiai!)
raccolse gemebonda come un tributo ai propri fascini acerbi. Hai mai dunque
compreso, stolido mio strumento di differita passione, che tu fruisti del cibo
di un'altrui mensa, oppure la ottusa vanità dei tuoi anni incompiuti mi ti si
presentò come un focoso indimenticabile peccaminoso complice? Partita con la
famiglia il giorno appresso mi inviasti dopo una settimana una cartolina
firmata "la tua vecchia amica". Intuisti la verità rivelandomi la tua
perspicacia nell'uso accurato di quell'aggettivo, o fu la tua l'argotica
bravata di una liceale in guerra con le filologiche creanze epistolari? Come da
allora fissai tremando ogni finestra nella speranza di vederne apparire la
silhouette sfasciata di una ottuagenaria al bagno! Quante sere, seminascosto da
un albero, consumai le mie solitarie deboscie, lo sguardo volto all'ombra
profilata su di una tendina di un'ava soavissimamente intenta a un pasto
biascicante! E l'orrida delusione, subitanea e folgoratrice (tiens, donc, le
salaud!) della figura che si sottrae alla menzogna dell'ombre cinesi e si
rivela al davanzale per quello che è, una ignuda ballerina dai seni turgidi e
dalle anche ambrate di cavalla andalusa! Così per mesi ed anni corsi insaziato
alla caccia illusa di adorabili parchette, teso ad una ricerca che, lo so,
traeva l'indistruttibile sua origine dal momento ch'io nacqui, ed una vecchia
sdentata ostetrica – infruttuosa ricerca del padre mio che a quella ora di
notte non fu capace di trovare altro che costei, un piede sull'orlo della
fossa! – mi sottrasse alla prigionia vischiosa del grembo materno e mi mostrò
alla luce della vita il suo volto immortale di jeune parque. Non cerco
giustificazioni per voi che mi leggete (à la guerre comme à la guerre), ma
voglio almeno spiegarvi quanto fatale fosse stato il concorrere di eventi che
mi portò a quella vittoria. La festa cui ero stato invitato era uno squallido
petting party di giovani indossatrici e impuberi universitari. La flessuosa
lussuria di quelle giovinette invogliate, il negligente offrirsi dei loro seni
da una blusa sbottonata nell'impeto di una figura di danza, mi disgustava. Già
pensavo di lasciare di corsa quel luogo di banale commercio d'inguini ancora
intatti, quando un suono acutissimo, quasi stridulo (e potrò mai esprimere la
frequenza vertiginosa, il roco digradare delle corde vocali già spossate,
l'allure suprème de ce cri centenaire?) un lamento tremulo di femmina
vecchissima piombò nel silenzio l'accolta. E nel riquadro della porta vidi lei,
il viso della lontana parca dello choc prenatale, segnato dall'entusiasmo
spiovente della chioma canutamente lasciva, il corpo rattrappito che segnava di
angoli acuti la stoffa dell'abituccio nero e liso, le gambe ormai esili piegate
inesorabilmente ad arco, la linea fragile del femore suo vulnerabile profilata
sotto il pudore antico della gonna veneranda. La scipita giovinetta che ci
ospitava ostentò un gesto di sopportata cortesia. Alzò gli occhi al cielo e disse:
"È mia nonna"...
[A questo punto termina la parte intatta del
manoscritto. Da quel che è dato di inferire dalle linee sparse che se ne
possono ancora leggere, la vicenda dovrebbe procedere come segue. Umberto
Umberto rapisce dopo pochi giorni la nonna della sua ospite e fugge con lei,
portandola sulla canna della bicicletta, verso il Piemonte. Dapprima la conduce
in un ospizio di poveri vecchi, ove la notte la possiede, apprendendo fra
l'altro che la vecchia non è alla sua prima esperienza. Sul far del giorno
mentre sta fumando una sigaretta nella semi-oscurità del giardino, viene
avvicinato da un giovinetto dall'aria ambigua che gli domanda sornionamente se
la vecchia sia effettivamente sua nonna. Preoccupato lascia l'ospizio con
Nonita ed inizia una vertiginosa peregrinazione per le strade del Piemonte.
Visita la Fiera dei vini di Canelli, la Festa del Tartufo di Alba, prende parte
alla sfilata di Gianduja a Caglianetto, al mercato del bestiame di Nizza
Monferrato, all'elezione della Bella Mugnaia di Ivrea, alla corsa nei sacchi
per la festa patronale di Condove. Al termine di questo folle peregrinare per
l'immensità del paese che lo ospita, si accorge che da tempo la sua bicicletta
è seguita sornionamente da un giovane esploratore in lambretta, che elude ogni
appostamento. Il giorno in cui, ad Incisa Scapaccino, porta Nonita da un
callista e si allontana un istante a comperare le sigarette, quando torna si
trova abbandonato dalla vecchia, fuggita col rapitore. Passa alcuni mesi in una
profonda disperazione, e finalmente ritrova la vegliarda, reduce da un istituto
di bellezza dove è stata condotta dal seduttore. Il suo viso è privo di rughe,
i capelli tinti di un biondo rame, la bocca rifiorita. Umberto Umberto è colto
da un senso di abissale pietà e queta disperazione alla vista di tanto sfacelo.
Senza dir motto acquista una doppietta e va alla ricerca dello sciagurato. Lo
trova ad un campeggio mentre sta soffregando due legnetti per accendere il
fuoco. Gli spara una, due, tre volte, sempre mancandolo, sinché non viene
afferrato da due sacerdoti in basco nero e giacca di cuoio. Prontamente arrestato
viene condannato. (1959)
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