"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 9 novembre 2019

Lalinguabatte. 80 «La tirannia della pubblica opinione».


Anni addietro Camilla Baresani e Renato Mannheimer curarono, per i tipi Bompiani – (2006), pagg. 200, € 16 - un interessantissimo volume che aveva per titolo “TIC. Tipi italiani contemporanei”. Con scrittura leggera e forbita i due illustri Autori intrattenevano i lettori sulle nuove espressioni antropologiche ed antropometriche che il bel paese esprimeva mettendo in campo il meglio di sé. Ne veniva fuori una straordinaria carrellata di figure che si situavano perfettamente all’interno dello scenario nuovo, politicamente e socialmente parlando, che si andava concretizzando nel bel paese. Una lettura straordinaria ed interessante assai. E sulle figure classiche della antropologia ed antropometria del bel paese, facilmente fruibili, dobbiamo tanto anche alla cinematografia nostrana; come non ricordare le imbarazzanti figure di italioti che appaiono in quello straordinario lavoro cinematografico che è “Bianco, rosso e Verdone” del grande Carlo Verdone. Si potrebbe obiettare che le figure tratteggiate dalla Baresani e dal Mannheimer, così come quelle di Carlo Verdone, siano figure nate al momento come frutto ancora acerbo della storia sociale e politica del bel paese. Obiezione da non rigettare in “toto” ed alla quale risulta anche difficile contrapporre apodittiche controanalisi sociologiche, antropologiche od antropometriche. In verità sono convinto che, al pari dei singoli esseri viventi, che si compongono di una parte biologica e di una consistente parte psichica che interferisce con la prima, che mi piacerebbe si definissero ambedue “impronte”, ovvero un’”impronta biologica” ed un’”impronta psichica”, ben definita dal genoma la prima, abborracciata dal genoma e dall’ambiente socio-culturale la seconda, che è mutevole al progredire delle età, delle culture e di quant’altro incida su quella molto labile “impronta”, resto convinto assai, dicevo, come quella seconda “impronta” determini delle caratteristiche delle comunità che travalichino i tempi storici, i tempi sociali e politici, per produrre caratteristiche tali da reputarle come costitutive delle comunità in esame. E di misure e caratteristiche antropologiche se ne è interessato molto il professor Gustavo Zagrebelsky nel Suo “Antropologia del conformista che fugge dalla libertà”, che non è un datato saggio di paludata cultura, ovvero un libello divulgativo come se ne trovano oggigiorno tanti in circolazione, ma è stato un Suo autorevolissimo intervento nell’ambito delle lezioni tenute presso l’Auditorium della Musica di Roma sul tema “Le parole della politica”, intervento che è stato - con meritorio impegno - pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”- con quel titolo - il 16 di giugno dell’anno 2011. Dal quale autorevolissimo intervento si desume che certe caratteristiche antropologiche dell’italiano contemporaneo e non affondano le loro radici nella più complessa struttura dell’essere dei singoli e della comunità che di essi è espressione diretta, creando una commistione intima che convince anche i più critici ad intravvedere dietro a quelle “figure” d’esseri umani la quintessenza della italianità di sempre. Mi soccorre nella occasione il ricordo di una straordinaria lettura fatta qualche tempo addietro su quel testo memorabile che è “Lezioni di filosofia del diritto” di quel grande maestro di vita e di pensiero che è stato Norberto Bobbio che trascrivo: “(…). Ogni uomo ha la possibilità di differenziarsi dagli altri secondo la propria legge intrinseca, che è la propria libertà, e quindi di essere valutato in modo corrispondente alla sua differenziazione (…). Ma ciò che costituisce la caratteristica propria dell’uomo e gli dà nello stesso tempo la possibilità di differenziarsi dagli altri esseri e dagli altri uomini, è la libertà. Giustizia non è dunque semplicemente uguaglianza – criterio astratto – ma uguaglianza riferita alla libertà – criterio concreto. Vale a dire non è puramente e semplicemente uguaglianza, ma uguaglianza nella libertà, o meglio e più specificamente, ugual possibilità di usare la propria libertà. Stabilendo in tal modo a fondamento della valutazione della giustizia la libertà, il problema della giustizia si sposta: si passa da una concezione della giustizia come astratta uguaglianza ad una concezione della giustizia come uguaglianza nella libertà, cioè come uguaglianza nella libera esplicazione della propria personalità. Con questo criterio, giustizia non vuol dire che io sia uguale a te, ma che io sia uguale a te nella possibilità di esplicare la propria personalità. In tal modo l’uguaglianza astratta si fa concreta nella libertà. (…)”. E se la libertà, non fisica intendo, viene conculcata, rattrappita, ingabbiata, come si concilia questo alto e solenne pensiero che rimanda alla “possibilità di differenziarsi dagli altri secondo la propria legge intrinseca, che è la propria libertà”, con le vocazioni e le aspettative dei cosiddetti “liberi servi” che scorazzano arroganti ed intrepidi nel bel paese? La trascrizione che ne faccio e che ne farò, di quell’autorevolissimo citato intervento del professor Zagrebelsky, con la quale trascrizione si potrebbe individuare un primo dei “tic”, ovvero uno dei “tipi italiani contemporanei”, ovvero ancora quel “tic” definito il “conformista”, sarà, per ragioni che hanno a che vedere soltanto con la profondità e lo spessore del Suo argomentare, suddivisa in più parti onde apprezzarne la grande scrittura e lo spirito sino in fondo. Spero non me ne voglia l’illustre Autore. Parte prima.
Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è – parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne – questa complicità degli oppressi con l'oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome – apparso allora per la prima volta - è servitù volontaria. Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d'essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s'impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l'opportunista, il gretto e il timoroso: materia per antropologi. a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L'uomo-massa è l'espressione per indicare chi solo nel far parte trova la sua individualità e in tal modo la perde. L'ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi a posto, accettato. Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l'autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l'affettazione modaiola. La tirannia della pubblica opinione è stata denunciata, già a metà dell'Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell'immagine, è certo più pericolosa di allora. L'individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma. Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della polizia senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d'essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia? (…).

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