Si intitolava “Siamo
dei voltagabbana felici” l’intervista che Silvia Truzzi fece ad Andrea
Camilleri il 26 di novembre dell’anno 2015. In ciò che rimane di quell’intervista
e che si ri-propone non compariranno più quelle tragicomiche figure italiche
che sono i “voltagabbana”. Da lassù Andrea non me ne voglia. Avrò utilizzato
quei passaggi dell’intervista per un qualsivoglia altro post che al momento non
riesco a recuperare nella memoria elettronica. Vale comunque la pena ri-leggere
per ri-sentire quasi la voce dell’indimenticato Andrea Camilleri. Scriveva Silvia
Truzzi: S’intitola Certi momenti (Chiarelettere), l’ultimo libro di Andrea
Camilleri. Ma potrebbe intitolarsi anche Grazie perché è un tributo agli
incontri “durati un momento oppure una vita che hanno determinato una sorta di cortocircuito
dentro di me”. Ossia quegli incontri “che hanno provocato un primo momentaneo
distacco e poi una sorta di maggiore illuminazione dentro di me. Gli uomini, le
donne e i libri che racconto in questo breve testo hanno rappresentato delle
scintille, dei lampi, dei momenti di maggiore nitidezza: e per questo ho voluto
ringraziarli”. Le tracce sono molte, e a volte ti sorprendi. Perché se pensi
sia ovvio imbattersi in grandi scrittori come Gadda, Tabucchi, Pasolini,
Vittorini o Primo Levi, molto meno scontato è il ritratto del pastore
cantastorie o di una sconcertante Federala che arringa le donne con la
propaganda per il Duce, ma regala una pubblicazione clandestina di Giustizia e
Libertà al giovane Andrea.
Tra le pagine più intense c’è la sua confessione
– durata tre ore – con il vescovo di Livorno prima di cresimarsi per potersi
sposare in chiesa. Alla fine dice: ”Le ore trascorse a dialogare con il vescovo
sono rimaste marchiate per sempre, non solo nella mia memoria, ma anche nel mio
cuore”. Che rapporto ha con la religione? - Premetto che i pochissimi rapporti
che ho con la religione passano e sono passati attraverso il rapporto che ho
con gli uomini. Quel vescovo prima ancora di essere un uomo di fede era
soprattutto un anziano signore, molto fine, molto colto e molto saggio. Ebbe
l’intelligenza di parlarmi con le parole dell’esperienza, parole terrene ma
alte, quelle che giustamente s’incisero su di me. Oggi, a novant’anni, continuo
a considerarmi un non credente con una grande invidia verso coloro che hanno
una fede quale che essa sia -.
Di tutti gli incontri del libro, uno
particolarmente toccante è quello con Pippo Perna, compagno di scuola ebreo,
allontanato dopo le leggi razziali. Al di là delle circostanze, veramente
letterarie, del vostro fortuito rincontro negli Anni 80, colpisce il fatto che
lei abbia continuato a sognare il suo amico, per anni. - Non è che l’ho sognato
per anni subito dopo il suo allontanamento, mi è ritornato prepotentemente alla
memoria e da sveglio, appena sono cominciate a trapelare le notizie
dell’Olocausto. È stato naturale allora l’insorgere della domanda sul destino
del mio amico. Se era riuscito a scamparla o se di lui non restava neppure la
cenere… -.
Da poche settimane è trascorso
l’anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini. Con cui – ci racconta – vi
trovaste subito reciprocamente antipatici, dalla prima cena a casa di Laura
Betti. Di Pasolini sono rimasti soprattutto Gli scritti corsari: perché come
letterato è stato sostanzialmente dimenticato? - Io ho una mia personale idea
che può essere criticabilissima circa Pasolini letterato. E cioè che Pasolini
sia stato uno dei più grandi poeti italiani del secondo Novecento ma che lo
scrittore di Ragazzi di vita fosse ben lontano dall’altezza raggiunta con i suoi
versi. Credo però che sia assolutamente non equilibrato puntare solo sugli
Scritti Corsari e tenere in ombra le poesie che invece avevano una forza di
impatto, una valenza pari se non superiore agli Scritti -.
Livio Garzanti se la prese con lei quando
pubblicò con Sellerio un libro promesso a lui. Lei ha pubblicato con numerosi
editori: da Mondadori a Sellerio appunto, ma anche Laterza, Rizzoli e
Chiarelettere. Secondo molti la possibilità di pubblicare con più editori è
garanzia di libertà. Che cosa pensa dell’affare Mondazzoli? - In questo momento
non penso nulla, ma mi fa molta paura immaginare chi tra qualche anno potrà
acquistare questo polo editoriale così appetibile e per farne cosa -.
Di Arthur Adamov – maestro del teatro
dell’assurdo, morto suicida a 62 anni – scrive che è stato ingiustamente
dimenticato. Con lui intratteneva una corrispondenza che si è interrotta nel
1968: “Fino a quando sognò solitario, scrisse testi teatrali di grandissima,
inarrivabile suggestione. Ma volle condividere un sogno comune, e quando questo
sogno s’infranse egli non seppe resistere alla profonda depressione nella quale
era caduto”. Perché? - Adamov era un uomo non inquadrabile politicamente.
Incapace di sottostare a una qualsiasi disciplina di partito. Era un uomo
troppo “libero”. Nel Maggio francese, in quella enorme esplosione di libertà,
anche creativa, egli credette di trovare quella possibilità di libertà assoluta
di un mondo aperto alla fantasia, alla creatività, all’innovazione che poi non
trovò mai. E quando questo sogno s’infranse, lui che credeva veramente nella
fantasia, nella creatività, nell’innovazione non riuscì mai più a ritrovare i
frammenti per ricomporre se stesso -.
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