Tratto da “La
mia matita tra Bobo e Gesù”, intervista di Antonio Gnoli a Sergio Staino pubblicata
sul settimanale “Robinson” del quotidiano la Repubblica del 16 di novembre 2019:
(…).
Come hai scoperto Gesù? «Lui mi piace, da sempre. A parte la mania di sentirsi
il figlio di Dio, è disponibile, umano, fa perfino qualche miracolo. Quando
disse gli uomini sono tutti uguali, inventò il socialismo. Poi qualche secolo
dopo arrivò Marx che aggiunse: uguali va bene, ma non basta, unitevi!».
Era nata la sinistra? «Per forza, anche
perché tu lo vedresti Gesù a un comizio di Salvini?».
Salvini bacia il rosario. «Potrebbe anche
fare la via Crucis o travestirsi da Padre Pio. Come spottone elettorale forse
gli andrebbe bene».
Staino, di’ la verità: hai sostituito la
politica con la religione. «Ma no, è che da quella parte arrivano vibrazioni
positive».
Bobo sarebbe d’accordo? «Lui va per conto
proprio. A volte sono io a seguire lui, altre è il contrario».
Gli devi molto? «Non sarei Staino senza di
lui. Oltretutto quando l’ho creato è stato come rifare me stesso».
Nel senso? «Dopo vari tentativi, avevo
perfino immaginato la figura di uno psichiatra, mi sono detto: se facessi me
stesso, quello che sono, con i miei difetti, forse potrebbe funzionare. E ho
fatto la mia caricatura. Mi sono imbruttito: un po’ grasso con un naso grosso,
gli occhiali, la barba e i capelli radi».
Così ti vedi? «Già da bambino non pensavo di
diventare un adone».
Com’eri da bambino? «La sola cosa che mi
piaceva veramente era disegnare. Leggevo i fumetti, soprattutto Walt Disney
disegnato da Carl Barks, provavo e riprovavo a copiarli. Fu mia madre a
incoraggiarmi. Del resto era l’unica cosa che potesse fare, vivevamo confinati
in montagna e in seria ristrettezza».
Intendi dire che hai avuto una vita
complicata? «Sono nato sull’Amiata, a Piancastagnaio. Mio padre, carabiniere e
meridionale, vi fu trasferito alla fine degli anni Trenta. Negli anni giovanili
e anche dopo fu importante lo scrittore e teologo Ernesto Balducci, anche lui
nato nelle zone dell’Amiata. Lì c’erano le cave di mercurio e il padre di
Ernesto era un minatore. Mi ricordo le vasche colme di questo liquido denso e
Balducci che mi diceva: qui siamo tutti un po’ matti perché respiriamo il
mercurio».
Quanto sei restato a Piancastagnaio? «Quando
avevo cinque anni ci trasferimmo a Firenze. A sei calpestai un pulcino e lo
uccisi. Mio nonno si incazzò. La verità è che non l’avevo visto. Cominciai
allora ad avere problemi seri agli occhi. Fu in terza elementare che un maestro
disse ai miei: questo bambino vede poco. Sbagliarono gli occhiali, invertendo
le lenti, e la vista peggiorò spaventosamente. Non bastasse tutto questo, nel
1951 mio padre, simpatizzante comunista, fu sbattuto fuori dall’arma. Aprì un
negozietto. Ma andò in depressione. Ecco perché alla fine disegnare fu la sola
ancora di salvezza».
Com’eri a scuola? «All’inizio sembravo un
bambino promettente. Saltai perfino un paio di classi alle elementari e andai direttamente
in prima media. Mi iscrissero alla Giosuè Carducci, una scuola per ragazzini
ricchi e viziati. Lì cominciarono le umiliazioni e io cominciai a non andarci.
Giravo per Firenze aspettando che si facesse l’ora dell’uscita. C’erano
insegnanti orribili. Classisti. Mi vivevano come un corpo estraneo. Fui buttato
fuori».
Dove andasti? «I miei mi indirizzarono a un
istituto per giovani apprendisti. I corsi li aveva istituiti Giacomo Devoto, il
lessicografo e italianista. C’erano professori socialisti che insieme al lavoro
nei laboratori ci insegnavano la Costituzione. Cominciavo ad aprirmi al mondo
della cultura. Mi fecero conoscere i romanzi di Pratolini e Moravia. Ridivenni
bravo al punto che, in seguito, mi iscrissi ad architettura e mi laureai con Giuseppe
Samonà».
Continuava la tua passione per il disegno? «Il
fatto che avessi scelto architettura era la prova di un interesse costante. Che
per un certo periodo fu condizionato dalla militanza politica. Finii nel gruppo
dei marxisti leninisti — il Partito comunista d’Italia come si chiamava allora.
Fu un decennio insulso, perso inseguendo pratiche politiche deliranti. Avevamo
come mito la Cina e l’Albania del dittatore Enver Hoxha. Nel 1979 decisi di
staccarmi da tutto questo. Non sapevo bene che fare. Avevo trentanove anni, un
posto come insegnante in un istituto tecnico che probabilmente non mi avrebbe
confermato e una compagna, che poi sarebbe diventata mia moglie, che mi
spingeva a seguire la mia vocazione di vignettista».
Avevi già cominciato? «Facevo delle strisce
su giornalini locali. Alla fine decisi di spedirne alcune a Linus, considerato
in quel momento il tempio del fumetto italiano. Era la fine di ottobre e non
seppi nulla per più di un mese. Poi, a dicembre, la mia striscia con Bobo
protagonista comparve su quelle pagine. Fu tutto merito di Oreste Del Buono che
vide in me qualcosa che probabilmente neppure sapevo di avere».
Che ricordo hai di lui? «Non c’era aspetto
della vita sociale e culturale che non lo interessasse. Tieni conto che tutto quanto
faceva — nell’ambito del fumetto, del fotoromanzo, del giallo, del romanzo di
appendice e perfino della cronaca sportiva — era visto con sospetto dalla
cultura ufficiale. Era vent’anni in anticipo su quello che sarebbe accaduto e
credo che senza di lui non avrei scalato così rapidamente la scala della
satira».
Un posto speciale in questa scala è occupato
da “Tango”. «Fu l’inserto satirico dell’Unità che feci nel 1986».
Chi ti chiamò? «Fu Emanuele Macaluso, allora direttore dell’Unità a volermi e io ero francamente sorpreso. Gli dissi: beh, io posso anche venire a fare l’inserto, ma a condizione che mi senta libero di poter attaccare anche il Pci. È quello che voglio, mi rispose. Credo sia stata questa presenza dissacrante l’ingrediente del successo di Tango. Chiamai a collaborarvi Michele Serra, Riccardo Mannelli, Davide Riondino, Gino & Michele, ElleKappa, Paolo Hendel».
Che reazioni ci furono nel partito? «Molto
contrastanti. Pajetta mancava poco che mi aggredisse, diceva che facevo una
cosa orrenda. Ricevevamo lettere di insulti anche dai militanti del partito. Ci
dicevano che eravamo fascisti o berlusconiani. Ma la gran parte della base del
partito visse quel momento come una liberazione. Poi ci fu l’altra grande
esperienza di Cuore fatto da Serra».
Era un’evoluzione della satira? «Forse senza
Tango non ci sarebbe stato Cuore. Con la differenza che io facevo satira dentro
il Pci, Michele indirizzò la propria verso il rampantismo socialista, era la
satira sul successo berlusconiano. Oggi c’è meno bisogno di satira. Oggi i
politici si dissacrano da sé».
A un certo punto della tua storia sei
diventato direttore dell’”Unità”. «Mi chiamò Matteo Renzi. Disse: Sergio con la
tua esperienza e la tua immagine sei la persona giusta. Ricordati, inoltre, che
Bobo è un brand. Non voglio un giornale sdraiato su di me, sentiti libero di
far scrivere quello che vuoi. Ti affido un progetto e i soldi per rilanciare il
giornale».
E tu? «Gli ho creduto. Poi mi sono accorto
che non c’erano né soldi né libertà. Gli telefonavo, niente; gli scrivevo,
niente. Nessuna risposta. Visto il suo atteggiamento dissi che era un cafone. A
quel punto mi chiamò: tu puoi dire quello che vuoi di me, ma non puoi darmi del
cafone perché offendi mia madre. Che c’entra tua madre? Gli chiesi. C’entra
perché è lei che mi ha dato l’educazione. Quando è finita, tutti i miei amici
mi hanno rotto i coglioni con “te lo avevamo detto”».
Non ti è venuto prima il dubbio che tu fossi
la persona sbagliata? Un direttore, se gli va bene, si confronta con il potere,
non lo dissacra. «Vero. Ma uno non può fare una cazzata nella vita?».
Il tuo rapporto con “Avvenire”? Anche lì sei
durato poco. «È stato diverso, e poi mi sono divertito. Da non credente penso
che Gesù sia stato e continui a essere una risorsa preziosa. Io l’ho messo in
una strip. Per un anno è andata. Poi nel giornale dei vescovi, i vescovi hanno
preso il sopravvento».
Ora che stai facendo? «Continuo a disegnare.
Lo faccio al computer perché in pratica non vedo».
Cosa provi con questa menomazione? «È
difficile da spiegare. O forse è la cosa più semplice, se la vedi come la
sottrazione di un organo o di una funzione. È stato un progressivo perdere
qualcosa, un lento scivolare dentro una diversa dimensione. Credimi, non è che
la cosa mi faccia piacere. Ma alla fine ci si abitua. Le ombre diventano una
parte di te».
Che cosa hai avuto esattamente? «Si tratta
di una degenerazione retinica in alta miopia. La retina insomma invecchia
precocemente. È come se il mio occhio oggi non avesse la mia età bensì centotrenta
anni. All’inizio è stato sconvolgente. Perdevo le forme e poi i colori. E ora,
mi dicevo, che cosa faccio? Poi un bel giorno ho deciso di non piangermi più
addosso. E ho capito che dal disastro potevo estrarre qualcosa di prezioso.
Anche la sfiga, come spiegai a una platea di ragazzi, può essere motrice di
creatività».
Per te lo è stato? «Penso di sì. In fondo ho
cominciato a diventare famoso nel momento in cui mi sono accorto che sarei
diventato cieco. Ancora oggi, so che se traccio un segno questo allenta la mia
tensione, attenua il mio malessere, mi rende un po’ più felice o meno
infelice».
Secondo te la sinistra crede ancora nella
felicità? «Io questa sinistra la capisco sempre meno. Capisco che ci sono stati
tempi anche più complicati. Perfino violenti. Mi ricordo di una poesia di
Berltolt Brecht, quando provò a giustificare la violenza. Scrisse: “Ah, noi che
volevamo preparare il terreno alla gentilezza, noi non potevamo essere
gentili”. Se non sei gentile non potrai mai essere felice. Sei solo uno
stronzo. Capisci?».
Ma come vivi questa fase? «Si è acuito il
disagio. La politica mi dà ormai poche certezze. Soprattutto non ho più la
certezza, o l’illusione, di poter modificare lo stato delle cose; ma ho la
certezza di sapere cosa manca. Manca la passione per individuare gli obiettivi
del cambiamento; manca la percezione della sofferenza degli altri. Manca la
decenza minima. Tutti sbraitano per il loro quarto d’ora di mediocrità. Mi
manca la satira. Ma visto come vanno le cose, se fossi superstizioso, toccherei
ferro».
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