"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 22 novembre 2019

Cosedaleggere. 15 «Tutti sbraitano per il loro quarto d’ora di mediocrità».


Tratto da “La mia matita tra Bobo e Gesù”, intervista di Antonio Gnoli a Sergio Staino pubblicata sul settimanale “Robinson” del quotidiano la Repubblica del 16 di novembre 2019: (…). Come hai scoperto Gesù? «Lui mi piace, da sempre. A parte la mania di sentirsi il figlio di Dio, è disponibile, umano, fa perfino qualche miracolo. Quando disse gli uomini sono tutti uguali, inventò il socialismo. Poi qualche secolo dopo arrivò Marx che aggiunse: uguali va bene, ma non basta, unitevi!».
Era nata la sinistra? «Per forza, anche perché tu lo vedresti Gesù a un comizio di Salvini?».
Salvini bacia il rosario. «Potrebbe anche fare la via Crucis o travestirsi da Padre Pio. Come spottone elettorale forse gli andrebbe bene».
Staino, di’ la verità: hai sostituito la politica con la religione. «Ma no, è che da quella parte arrivano vibrazioni positive».
Bobo sarebbe d’accordo? «Lui va per conto proprio. A volte sono io a seguire lui, altre è il contrario».
Gli devi molto? «Non sarei Staino senza di lui. Oltretutto quando l’ho creato è stato come rifare me stesso».
Nel senso? «Dopo vari tentativi, avevo perfino immaginato la figura di uno psichiatra, mi sono detto: se facessi me stesso, quello che sono, con i miei difetti, forse potrebbe funzionare. E ho fatto la mia caricatura. Mi sono imbruttito: un po’ grasso con un naso grosso, gli occhiali, la barba e i capelli radi».
Così ti vedi? «Già da bambino non pensavo di diventare un adone».
Com’eri da bambino? «La sola cosa che mi piaceva veramente era disegnare. Leggevo i fumetti, soprattutto Walt Disney disegnato da Carl Barks, provavo e riprovavo a copiarli. Fu mia madre a incoraggiarmi. Del resto era l’unica cosa che potesse fare, vivevamo confinati in montagna e in seria ristrettezza».
Intendi dire che hai avuto una vita complicata? «Sono nato sull’Amiata, a Piancastagnaio. Mio padre, carabiniere e meridionale, vi fu trasferito alla fine degli anni Trenta. Negli anni giovanili e anche dopo fu importante lo scrittore e teologo Ernesto Balducci, anche lui nato nelle zone dell’Amiata. Lì c’erano le cave di mercurio e il padre di Ernesto era un minatore. Mi ricordo le vasche colme di questo liquido denso e Balducci che mi diceva: qui siamo tutti un po’ matti perché respiriamo il mercurio».
Quanto sei restato a Piancastagnaio? «Quando avevo cinque anni ci trasferimmo a Firenze. A sei calpestai un pulcino e lo uccisi. Mio nonno si incazzò. La verità è che non l’avevo visto. Cominciai allora ad avere problemi seri agli occhi. Fu in terza elementare che un maestro disse ai miei: questo bambino vede poco. Sbagliarono gli occhiali, invertendo le lenti, e la vista peggiorò spaventosamente. Non bastasse tutto questo, nel 1951 mio padre, simpatizzante comunista, fu sbattuto fuori dall’arma. Aprì un negozietto. Ma andò in depressione. Ecco perché alla fine disegnare fu la sola ancora di salvezza».
Com’eri a scuola? «All’inizio sembravo un bambino promettente. Saltai perfino un paio di classi alle elementari e andai direttamente in prima media. Mi iscrissero alla Giosuè Carducci, una scuola per ragazzini ricchi e viziati. Lì cominciarono le umiliazioni e io cominciai a non andarci. Giravo per Firenze aspettando che si facesse l’ora dell’uscita. C’erano insegnanti orribili. Classisti. Mi vivevano come un corpo estraneo. Fui buttato fuori».
Dove andasti? «I miei mi indirizzarono a un istituto per giovani apprendisti. I corsi li aveva istituiti Giacomo Devoto, il lessicografo e italianista. C’erano professori socialisti che insieme al lavoro nei laboratori ci insegnavano la Costituzione. Cominciavo ad aprirmi al mondo della cultura. Mi fecero conoscere i romanzi di Pratolini e Moravia. Ridivenni bravo al punto che, in seguito, mi iscrissi ad architettura e mi laureai con Giuseppe Samonà».
Continuava la tua passione per il disegno? «Il fatto che avessi scelto architettura era la prova di un interesse costante. Che per un certo periodo fu condizionato dalla militanza politica. Finii nel gruppo dei marxisti leninisti — il Partito comunista d’Italia come si chiamava allora. Fu un decennio insulso, perso inseguendo pratiche politiche deliranti. Avevamo come mito la Cina e l’Albania del dittatore Enver Hoxha. Nel 1979 decisi di staccarmi da tutto questo. Non sapevo bene che fare. Avevo trentanove anni, un posto come insegnante in un istituto tecnico che probabilmente non mi avrebbe confermato e una compagna, che poi sarebbe diventata mia moglie, che mi spingeva a seguire la mia vocazione di vignettista».
Avevi già cominciato? «Facevo delle strisce su giornalini locali. Alla fine decisi di spedirne alcune a Linus, considerato in quel momento il tempio del fumetto italiano. Era la fine di ottobre e non seppi nulla per più di un mese. Poi, a dicembre, la mia striscia con Bobo protagonista comparve su quelle pagine. Fu tutto merito di Oreste Del Buono che vide in me qualcosa che probabilmente neppure sapevo di avere».
Che ricordo hai di lui? «Non c’era aspetto della vita sociale e culturale che non lo interessasse. Tieni conto che tutto quanto faceva — nell’ambito del fumetto, del fotoromanzo, del giallo, del romanzo di appendice e perfino della cronaca sportiva — era visto con sospetto dalla cultura ufficiale. Era vent’anni in anticipo su quello che sarebbe accaduto e credo che senza di lui non avrei scalato così rapidamente la scala della satira».
Un posto speciale in questa scala è occupato da “Tango”. «Fu l’inserto satirico dell’Unità che feci nel 1986».

Chi ti chiamò? «Fu Emanuele Macaluso, allora direttore dell’Unità a volermi e io ero francamente sorpreso. Gli dissi: beh, io posso anche venire a fare l’inserto, ma a condizione che mi senta libero di poter attaccare anche il Pci. È quello che voglio, mi rispose. Credo sia stata questa presenza dissacrante l’ingrediente del successo di Tango. Chiamai a collaborarvi Michele Serra, Riccardo Mannelli, Davide Riondino, Gino & Michele, ElleKappa, Paolo Hendel».
Che reazioni ci furono nel partito? «Molto contrastanti. Pajetta mancava poco che mi aggredisse, diceva che facevo una cosa orrenda. Ricevevamo lettere di insulti anche dai militanti del partito. Ci dicevano che eravamo fascisti o berlusconiani. Ma la gran parte della base del partito visse quel momento come una liberazione. Poi ci fu l’altra grande esperienza di Cuore fatto da Serra».
Era un’evoluzione della satira? «Forse senza Tango non ci sarebbe stato Cuore. Con la differenza che io facevo satira dentro il Pci, Michele indirizzò la propria verso il rampantismo socialista, era la satira sul successo berlusconiano. Oggi c’è meno bisogno di satira. Oggi i politici si dissacrano da sé».
A un certo punto della tua storia sei diventato direttore dell’”Unità”. «Mi chiamò Matteo Renzi. Disse: Sergio con la tua esperienza e la tua immagine sei la persona giusta. Ricordati, inoltre, che Bobo è un brand. Non voglio un giornale sdraiato su di me, sentiti libero di far scrivere quello che vuoi. Ti affido un progetto e i soldi per rilanciare il giornale».
E tu? «Gli ho creduto. Poi mi sono accorto che non c’erano né soldi né libertà. Gli telefonavo, niente; gli scrivevo, niente. Nessuna risposta. Visto il suo atteggiamento dissi che era un cafone. A quel punto mi chiamò: tu puoi dire quello che vuoi di me, ma non puoi darmi del cafone perché offendi mia madre. Che c’entra tua madre? Gli chiesi. C’entra perché è lei che mi ha dato l’educazione. Quando è finita, tutti i miei amici mi hanno rotto i coglioni con “te lo avevamo detto”».
Non ti è venuto prima il dubbio che tu fossi la persona sbagliata? Un direttore, se gli va bene, si confronta con il potere, non lo dissacra. «Vero. Ma uno non può fare una cazzata nella vita?».
Il tuo rapporto con “Avvenire”? Anche lì sei durato poco. «È stato diverso, e poi mi sono divertito. Da non credente penso che Gesù sia stato e continui a essere una risorsa preziosa. Io l’ho messo in una strip. Per un anno è andata. Poi nel giornale dei vescovi, i vescovi hanno preso il sopravvento».
Ora che stai facendo? «Continuo a disegnare. Lo faccio al computer perché in pratica non vedo».
Cosa provi con questa menomazione? «È difficile da spiegare. O forse è la cosa più semplice, se la vedi come la sottrazione di un organo o di una funzione. È stato un progressivo perdere qualcosa, un lento scivolare dentro una diversa dimensione. Credimi, non è che la cosa mi faccia piacere. Ma alla fine ci si abitua. Le ombre diventano una parte di te».
Che cosa hai avuto esattamente? «Si tratta di una degenerazione retinica in alta miopia. La retina insomma invecchia precocemente. È come se il mio occhio oggi non avesse la mia età bensì centotrenta anni. All’inizio è stato sconvolgente. Perdevo le forme e poi i colori. E ora, mi dicevo, che cosa faccio? Poi un bel giorno ho deciso di non piangermi più addosso. E ho capito che dal disastro potevo estrarre qualcosa di prezioso. Anche la sfiga, come spiegai a una platea di ragazzi, può essere motrice di creatività».
Per te lo è stato? «Penso di sì. In fondo ho cominciato a diventare famoso nel momento in cui mi sono accorto che sarei diventato cieco. Ancora oggi, so che se traccio un segno questo allenta la mia tensione, attenua il mio malessere, mi rende un po’ più felice o meno infelice».
Secondo te la sinistra crede ancora nella felicità? «Io questa sinistra la capisco sempre meno. Capisco che ci sono stati tempi anche più complicati. Perfino violenti. Mi ricordo di una poesia di Berltolt Brecht, quando provò a giustificare la violenza. Scrisse: “Ah, noi che volevamo preparare il terreno alla gentilezza, noi non potevamo essere gentili”. Se non sei gentile non potrai mai essere felice. Sei solo uno stronzo. Capisci?».
Ma come vivi questa fase? «Si è acuito il disagio. La politica mi dà ormai poche certezze. Soprattutto non ho più la certezza, o l’illusione, di poter modificare lo stato delle cose; ma ho la certezza di sapere cosa manca. Manca la passione per individuare gli obiettivi del cambiamento; manca la percezione della sofferenza degli altri. Manca la decenza minima. Tutti sbraitano per il loro quarto d’ora di mediocrità. Mi manca la satira. Ma visto come vanno le cose, se fossi superstizioso, toccherei ferro».

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