Tratto da “Quegli
operai umiliati nella fabbrica grandi firme” di Roberto Saviano, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 18 di novembre 2019: L'Italia fonda una parte
rilevante della sua qualità manifatturiera sul lavoro schiavizzato in distretti
industriali che, per tradizione ormai di oltre mezzo secolo, si occupano di realizzare
in nero e in condizioni spesso disumane confezioni, cuciture, rifiniture, ma
anche scarpe, abiti, cinture, prodotti dell'alta moda. È una verità italiana.
Cos'e la verità italiana? L'ho scoperto proprio studiando i laboratori in nero,
per cui ogni riflessione con sindacalisti o lavoratori si chiudeva sempre con
il commento "ma questa è una verità... italiana".
Ho imparato che si definisce verità italiana qualcosa che tutti sanno, le cui prove sono a portata di sguardo, ma che è impronunciabile. Non solo, se si volesse denunciare, le prove e i testimoni scomparirebbero dinanzi a qualsiasi tribunale, ma, cosa ancor più terribile, questa verità danneggerebbe soprattutto gli sfruttati. Una verità italiana è la notizia della scoperta di 43 operai segregati in un locale chiuso da una porta blindata, senza finestre e senza bagni, fatta dai Carabinieri dei Nas a Melito di Napoli. Probabilmente non l'avrete incontrata sugli account social dei leader politici né l'avrete sentita commentare. I carabinieri stavano ispezionando un laboratorio e avevano trovato 14 lavoratori non in regola su 35, ma non si sono fermati al primo riscontro: dietro a un palco di pelli e strumenti hanno scovato un'immensa porta blindata che dava accesso a un vero e proprio caveau, uno spazio impenetrabile simile ai luoghi in cui i gioiellieri proteggono i preziosi o che le aziende usano per mettere al sicuro merci e liquidità. Quando invece i carabinieri hanno aperto la porta blindata, hanno scoperto che il caveau era pieno di persone, 43 operai irregolari. (…). …è una azienda il cui laboratorio dista venti minuti da Napoli e che si occupa di pelletteria rifornendo marchi dell'alta moda. I macchinari e il materiale in lavorazione sequestrati durante l'operazione ammontano a 2.5 milioni di euro. Vi risulta strano immaginare degli operai rinchiusi in un caveau? Non dovevano semmai essere custodite le pelli più costose in quello spazio? Eppure, la merce da non far identificare ai carabinieri, la merce pregiata, erano proprio loro, le operaie e gli operai, e le loro competenze, più preziose di qualsiasi pelle. Tra i 43 operai scoperti nel caveau c'erano anche due minorenni e una donna incinta. Sono cresciuto in aree dove qualsiasi garage o sottoscala si trasformava in un laboratorio che produceva camicie, scarpe, jeans, giacche, persino abiti da sposa. Il lavoro nero in Campania, a Melito, Sant'Antimo, Sant'Arpino, Villaricca, Frattamaggiore, Caivano), o in Puglia, a Barletta, Tricase, Martina Franca, Terlizzi, Molfetta, Foggia (e ho citato solo una piccola parte), è ossigeno e veleno per migliaia di famiglie. "Eccellenza" è il sostantivo speso quando si parla di moda italiana; "eccellenza" è anche il sostantivo che descrive il lavoro delle operaie e degli operai di queste fabbriche in nero, che lavorano per le passerelle di moda di tutto il mondo con un salario che va da 1 a 3 euro all'ora. Il motivo per cui l'alta moda si affida a questi laboratori e non trasferisce tutto il lavoro in India, Romania o Bangladesh, come avviene per la produzione ordinaria, è in questa parola: eccellenza. La qualità del lavoro non si apprende con un corso di intensivo di tre giorni come accade alle operaie indiane o pakistane. Non si tratta solo di realizzare una cucitura o un'asola, ma di applicare una cura nella realizzazione e un controllo del risultato che fanno la differenza sul prodotto. Una qualità pagata pochissimo, una qualità che per mantenersi deve scendere a costi bassissimi. Alcune ragazze napoletane che lavoravano in queste fabbriche, alla domanda su che tipo di professione svolgessero, rispondevano: "Faccio la cinese". Il razzismo involontario di questa risposta vuole semplicemente mostrare che i salari sono al livello delle fabbriche cinesi. Qui muore il concetto che talento, bellezza e capacità siano capitali che sempre si rinnovano e sempre salvano vite e territori. Nel caso specifico, i lavoratori della moda possiedono questi capitali, ma per proteggerli vedono i loro salari diminuire e le loro condizioni peggiorare. La tradizione manifatturiera organizzata in laboratori e case ha origini lontane. Negli anni '70 non esisteva scarpa, pantalone, gonna o tappeto che non fosse realizzato anche grazie al lavoro a domicilio: le fabbriche mandavano il materiale a donne (e in alcuni casi uomini) che a casa propria realizzavano, confezionavano o rifinivano ricevendo un mensile. Questo meccanismo esiste ancora oggi. Esternalizzare è conveniente soprattutto per le aziende che possono realizzare il proprio prodotto in una serie di fasi che non necessitano di elevata tecnologia. Queste filiere di lavoro domiciliare, che la sociologa Tania Toffanin ha definito efficacemente "fabbriche invisibili", trovano una evoluzione nei laboratori. Il principale problema del lavoro a domicilio, infatti, sono i macchinari: accade sempre più spesso che non si abbia spazio in casa per poterlo ospitare; così, soprattutto nelle zone rurali, i laboratori vengono ricavati da lacerti di abitazioni o spazi abusivi. Inoltre, dal momento che la moda segue i veloci ritmi del gusto, si affida volentieri a canali che non hanno né limiti di orario né pretese economiche. Il lavoro italiano schiavizzato è stato totalmente rimosso dal dibattito pubblico sovranista perché andrebbe a smontare il suo principale cavallo di battaglia ideologico, svelando che non sono gli immigrati clandestini che arrivano in Italia a far abbassare il prezzo del lavoro e quindi a reintrodurre la schiavitù. Da più di cinquant'anni in molte zone del Meridione d'Italia (ma anche in Veneto) esiste un sistematico sfruttamento della manodopera di qualità da parte di tutto il sistema della moda, ma nonostante articoli, reportage, denunce e impegno dei sindacati, non si riesce in alcun modo a mutare la situazione. Gli operai di Melito rinchiusi nel caveau lasceranno spazio ad altri operai rinchiusi in qualche altro sottoscala. Molti si chiederanno: ma perché questi laboratori non mettono in regola i lavoratori? Mettere in regola significa garantire salari minimi, orari, ferie e spazi di lavoro che costringerebbero molti laboratori ad uscire dal mercato e altrettanti padroncini a rinunciare ai loro guadagni. Inoltre, regolarizzare spesso è solo una finzione: magari il lavoratore è assunto, ma metà della sua busta paga la deve dare poi al padroncino del laboratorio. Oppure, un trucco attraverso cui le aziende regolarizzano il lavoro è proprio con i contratti "a domicilio": l'operaio riceve il pagamento per il prodotto ultimato e non per le ore impiegate a realizzarlo, e a conti fatti il pagamento sarà di circa 1 euro all'ora. Quando vengono alla luce storie come quella di Melito, emerge solo il nome dell'azienda produttrice, ma restano segreti i nomi dei marchi per cui lavorava. Perché l'alta moda non viene coinvolta nei processi fatti ai laboratori? Semplice: l'alta moda formalmente non c'entra nulla, perché esiste un meccanismo (che di fatto le deresponsabilizza) di appalti a società che poi a loro volta affidano a società che subappaltano ad altre società. Ma la responsabilità di molte aziende dell'alta moda è totale: sono consapevoli - anche se legalmente al riparo - che la qualità della loro merce è frutto di condizioni di lavoro terribili e di uno sfruttamento costante. Solo da loro possono venire scelte in grado di cambiare questa situazione. Il populismo tace per convenienza, i riformisti temono di far scappare le aziende, quindi i salari, quindi i voti. Insomma, la solita verità italiana. Anche per quanto riguarda l'alta moda, le parole del poeta genovese sono la sintesi migliore: per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti.
Ho imparato che si definisce verità italiana qualcosa che tutti sanno, le cui prove sono a portata di sguardo, ma che è impronunciabile. Non solo, se si volesse denunciare, le prove e i testimoni scomparirebbero dinanzi a qualsiasi tribunale, ma, cosa ancor più terribile, questa verità danneggerebbe soprattutto gli sfruttati. Una verità italiana è la notizia della scoperta di 43 operai segregati in un locale chiuso da una porta blindata, senza finestre e senza bagni, fatta dai Carabinieri dei Nas a Melito di Napoli. Probabilmente non l'avrete incontrata sugli account social dei leader politici né l'avrete sentita commentare. I carabinieri stavano ispezionando un laboratorio e avevano trovato 14 lavoratori non in regola su 35, ma non si sono fermati al primo riscontro: dietro a un palco di pelli e strumenti hanno scovato un'immensa porta blindata che dava accesso a un vero e proprio caveau, uno spazio impenetrabile simile ai luoghi in cui i gioiellieri proteggono i preziosi o che le aziende usano per mettere al sicuro merci e liquidità. Quando invece i carabinieri hanno aperto la porta blindata, hanno scoperto che il caveau era pieno di persone, 43 operai irregolari. (…). …è una azienda il cui laboratorio dista venti minuti da Napoli e che si occupa di pelletteria rifornendo marchi dell'alta moda. I macchinari e il materiale in lavorazione sequestrati durante l'operazione ammontano a 2.5 milioni di euro. Vi risulta strano immaginare degli operai rinchiusi in un caveau? Non dovevano semmai essere custodite le pelli più costose in quello spazio? Eppure, la merce da non far identificare ai carabinieri, la merce pregiata, erano proprio loro, le operaie e gli operai, e le loro competenze, più preziose di qualsiasi pelle. Tra i 43 operai scoperti nel caveau c'erano anche due minorenni e una donna incinta. Sono cresciuto in aree dove qualsiasi garage o sottoscala si trasformava in un laboratorio che produceva camicie, scarpe, jeans, giacche, persino abiti da sposa. Il lavoro nero in Campania, a Melito, Sant'Antimo, Sant'Arpino, Villaricca, Frattamaggiore, Caivano), o in Puglia, a Barletta, Tricase, Martina Franca, Terlizzi, Molfetta, Foggia (e ho citato solo una piccola parte), è ossigeno e veleno per migliaia di famiglie. "Eccellenza" è il sostantivo speso quando si parla di moda italiana; "eccellenza" è anche il sostantivo che descrive il lavoro delle operaie e degli operai di queste fabbriche in nero, che lavorano per le passerelle di moda di tutto il mondo con un salario che va da 1 a 3 euro all'ora. Il motivo per cui l'alta moda si affida a questi laboratori e non trasferisce tutto il lavoro in India, Romania o Bangladesh, come avviene per la produzione ordinaria, è in questa parola: eccellenza. La qualità del lavoro non si apprende con un corso di intensivo di tre giorni come accade alle operaie indiane o pakistane. Non si tratta solo di realizzare una cucitura o un'asola, ma di applicare una cura nella realizzazione e un controllo del risultato che fanno la differenza sul prodotto. Una qualità pagata pochissimo, una qualità che per mantenersi deve scendere a costi bassissimi. Alcune ragazze napoletane che lavoravano in queste fabbriche, alla domanda su che tipo di professione svolgessero, rispondevano: "Faccio la cinese". Il razzismo involontario di questa risposta vuole semplicemente mostrare che i salari sono al livello delle fabbriche cinesi. Qui muore il concetto che talento, bellezza e capacità siano capitali che sempre si rinnovano e sempre salvano vite e territori. Nel caso specifico, i lavoratori della moda possiedono questi capitali, ma per proteggerli vedono i loro salari diminuire e le loro condizioni peggiorare. La tradizione manifatturiera organizzata in laboratori e case ha origini lontane. Negli anni '70 non esisteva scarpa, pantalone, gonna o tappeto che non fosse realizzato anche grazie al lavoro a domicilio: le fabbriche mandavano il materiale a donne (e in alcuni casi uomini) che a casa propria realizzavano, confezionavano o rifinivano ricevendo un mensile. Questo meccanismo esiste ancora oggi. Esternalizzare è conveniente soprattutto per le aziende che possono realizzare il proprio prodotto in una serie di fasi che non necessitano di elevata tecnologia. Queste filiere di lavoro domiciliare, che la sociologa Tania Toffanin ha definito efficacemente "fabbriche invisibili", trovano una evoluzione nei laboratori. Il principale problema del lavoro a domicilio, infatti, sono i macchinari: accade sempre più spesso che non si abbia spazio in casa per poterlo ospitare; così, soprattutto nelle zone rurali, i laboratori vengono ricavati da lacerti di abitazioni o spazi abusivi. Inoltre, dal momento che la moda segue i veloci ritmi del gusto, si affida volentieri a canali che non hanno né limiti di orario né pretese economiche. Il lavoro italiano schiavizzato è stato totalmente rimosso dal dibattito pubblico sovranista perché andrebbe a smontare il suo principale cavallo di battaglia ideologico, svelando che non sono gli immigrati clandestini che arrivano in Italia a far abbassare il prezzo del lavoro e quindi a reintrodurre la schiavitù. Da più di cinquant'anni in molte zone del Meridione d'Italia (ma anche in Veneto) esiste un sistematico sfruttamento della manodopera di qualità da parte di tutto il sistema della moda, ma nonostante articoli, reportage, denunce e impegno dei sindacati, non si riesce in alcun modo a mutare la situazione. Gli operai di Melito rinchiusi nel caveau lasceranno spazio ad altri operai rinchiusi in qualche altro sottoscala. Molti si chiederanno: ma perché questi laboratori non mettono in regola i lavoratori? Mettere in regola significa garantire salari minimi, orari, ferie e spazi di lavoro che costringerebbero molti laboratori ad uscire dal mercato e altrettanti padroncini a rinunciare ai loro guadagni. Inoltre, regolarizzare spesso è solo una finzione: magari il lavoratore è assunto, ma metà della sua busta paga la deve dare poi al padroncino del laboratorio. Oppure, un trucco attraverso cui le aziende regolarizzano il lavoro è proprio con i contratti "a domicilio": l'operaio riceve il pagamento per il prodotto ultimato e non per le ore impiegate a realizzarlo, e a conti fatti il pagamento sarà di circa 1 euro all'ora. Quando vengono alla luce storie come quella di Melito, emerge solo il nome dell'azienda produttrice, ma restano segreti i nomi dei marchi per cui lavorava. Perché l'alta moda non viene coinvolta nei processi fatti ai laboratori? Semplice: l'alta moda formalmente non c'entra nulla, perché esiste un meccanismo (che di fatto le deresponsabilizza) di appalti a società che poi a loro volta affidano a società che subappaltano ad altre società. Ma la responsabilità di molte aziende dell'alta moda è totale: sono consapevoli - anche se legalmente al riparo - che la qualità della loro merce è frutto di condizioni di lavoro terribili e di uno sfruttamento costante. Solo da loro possono venire scelte in grado di cambiare questa situazione. Il populismo tace per convenienza, i riformisti temono di far scappare le aziende, quindi i salari, quindi i voti. Insomma, la solita verità italiana. Anche per quanto riguarda l'alta moda, le parole del poeta genovese sono la sintesi migliore: per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti.
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