Anni addietro Camilla Baresani e Renato
Mannheimer curarono, per i tipi Bompiani – (2006), pagg. 200, € 16 - un
interessantissimo volume che aveva per titolo “TIC. Tipi italiani contemporanei”. Con scrittura leggera e forbita
i due illustri Autori intrattenevano i lettori sulle nuove espressioni antropologiche
ed antropometriche che il bel paese esprimeva mettendo in campo il meglio di
sé. Ne veniva fuori una straordinaria carrellata di figure che si situavano
perfettamente all’interno dello scenario nuovo, politicamente e socialmente
parlando, che si andava concretizzando nel bel paese. Una lettura straordinaria
ed interessante assai. E sulle figure classiche della antropologia ed antropometria
del bel paese, facilmente fruibili, dobbiamo tanto anche alla cinematografia
nostrana; come non ricordare le imbarazzanti figure di italioti che appaiono in
quello straordinario lavoro cinematografico che è “Bianco, rosso e Verdone” del grande Carlo Verdone. Si potrebbe
obiettare che le figure tratteggiate dalla Baresani e dal Mannheimer, così come
quelle di Carlo Verdone, siano figure nate al momento come frutto ancora acerbo
della storia sociale e politica del bel paese. Obiezione da non rigettare in
“toto” ed alla quale risulta anche difficile contrapporre apodittiche
controanalisi sociologiche, antropologiche od antropometriche. In verità sono convinto
che, al pari dei singoli esseri viventi, che si compongono di una parte
biologica e di una consistente parte psichica che interferisce con la prima,
che mi piacerebbe si definissero ambedue “impronte”, ovvero un’”impronta
biologica” ed un’”impronta psichica”, ben definita
dal genoma la prima, abborracciata dal genoma e dall’ambiente socio-culturale
la seconda, che è mutevole al progredire delle età, delle culture e di
quant’altro incida su quella molto labile “impronta”, resto convinto assai,
dicevo, come quella seconda “impronta” determini delle
caratteristiche delle comunità che travalichino i tempi storici, i tempi
sociali e politici, per produrre caratteristiche tali da reputarle come
costitutive delle comunità in esame. E di misure e caratteristiche
antropologiche se ne è interessato molto il professor Gustavo Zagrebelsky nel Suo “Antropologia del conformista che fugge dalla libertà”, che non è
un datato saggio di paludata cultura, ovvero un libello divulgativo come se ne trovano
oggigiorno tanti in circolazione, ma è stato un Suo autorevolissimo intervento nell’ambito
delle lezioni tenute presso l’Auditorium della Musica di Roma sul tema “Le parole della politica”, intervento
che è stato - con meritorio impegno - pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”-
con quel titolo - il 16 di giugno dell’anno 2011. Dal quale autorevolissimo
intervento si desume che certe caratteristiche antropologiche dell’italiano
contemporaneo e non affondano le loro radici nella più complessa struttura
dell’essere dei singoli e della comunità che di essi è espressione diretta,
creando una commistione intima che convince anche i più critici ad intravvedere
dietro a quelle “figure” d’esseri umani la quintessenza della italianità di
sempre. Mi soccorre nella occasione il ricordo di una straordinaria lettura
fatta qualche tempo addietro su quel testo memorabile che è “Lezioni di filosofia del diritto” di
quel grande maestro di vita e di pensiero che è stato Norberto Bobbio che trascrivo:
“(…).
Ogni uomo ha la possibilità di differenziarsi dagli altri secondo la propria
legge intrinseca, che è la propria libertà, e quindi di essere valutato in modo
corrispondente alla sua differenziazione (…). Ma ciò che costituisce la
caratteristica propria dell’uomo e gli dà nello stesso tempo la possibilità di
differenziarsi dagli altri esseri e dagli altri uomini, è la libertà. Giustizia
non è dunque semplicemente uguaglianza – criterio astratto – ma uguaglianza riferita
alla libertà – criterio concreto. Vale a dire non è puramente e semplicemente
uguaglianza, ma uguaglianza nella libertà, o meglio e più specificamente, ugual
possibilità di usare la propria libertà. Stabilendo in tal modo a fondamento
della valutazione della giustizia la libertà, il problema della giustizia si
sposta: si passa da una concezione della giustizia come astratta uguaglianza ad
una concezione della giustizia come uguaglianza nella libertà, cioè come
uguaglianza nella libera esplicazione della propria personalità. Con questo
criterio, giustizia non vuol dire che io sia uguale a te, ma che io sia uguale
a te nella possibilità di esplicare la propria personalità. In tal modo
l’uguaglianza astratta si fa concreta nella libertà. (…)”. E se la libertà,
non fisica intendo, viene conculcata, rattrappita, ingabbiata, come si concilia
questo alto e solenne pensiero che rimanda alla “possibilità di differenziarsi
dagli altri secondo la propria legge intrinseca, che è la propria libertà”, con
le vocazioni e le aspettative dei cosiddetti “liberi servi” che
scorazzano arroganti ed intrepidi nel bel paese? La trascrizione che ne faccio
e che ne farò, di quell’autorevolissimo citato intervento del professor
Zagrebelsky, con la quale trascrizione si potrebbe individuare un primo dei “tic”,
ovvero uno dei “tipi italiani contemporanei”, ovvero ancora quel “tic”
definito il “conformista”, sarà, per ragioni che hanno a che vedere
soltanto con la profondità e lo spessore del Suo argomentare, suddivisa in più
parti onde apprezzarne la grande scrittura e lo spirito sino in fondo. Spero non
me ne voglia l’illustre Autore. Parte prima.
Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è – parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne – questa complicità degli oppressi con l'oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome – apparso allora per la prima volta - è servitù volontaria. Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d'essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s'impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l'opportunista, il gretto e il timoroso: materia per antropologi. a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L'uomo-massa è l'espressione per indicare chi solo nel far parte trova la sua individualità e in tal modo la perde. L'ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi a posto, accettato. Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l'autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l'affettazione modaiola. La tirannia della pubblica opinione è stata denunciata, già a metà dell'Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell'immagine, è certo più pericolosa di allora. L'individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma. Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della polizia senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d'essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia? (…).
Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è – parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne – questa complicità degli oppressi con l'oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome – apparso allora per la prima volta - è servitù volontaria. Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d'essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s'impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l'opportunista, il gretto e il timoroso: materia per antropologi. a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L'uomo-massa è l'espressione per indicare chi solo nel far parte trova la sua individualità e in tal modo la perde. L'ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi a posto, accettato. Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l'autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l'affettazione modaiola. La tirannia della pubblica opinione è stata denunciata, già a metà dell'Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell'immagine, è certo più pericolosa di allora. L'individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma. Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della polizia senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d'essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia? (…).
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