Tratto da “Le
campagne di Trump” di Siegmund Ginzberg, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica dell’11 di novembre dell’anno 2016: Guardando le mappe del risultato
delle presidenziali americane, ho una strana sensazione di deja vu. Specie
quella dei risultati contea per contea. Ancora più della mappa del voto stato
per stato, mostra un piccolo numero di poligoni azzurri (il colore che
tradizionalmente indica il voto democratico) accerchiato da un mare immenso di
poligoni rossi (il colore del voto repubblicano). Le periferie (le campagne,
avrebbe detto Mao un tempo) hanno accerchiato e sommerso le città. (…). Hillary
Clinton ha preso il 93 per cento dei voti nel District of Columbia, il cuore
della capitale Washington. L’80 per cento e più a Manhattan e negli altri
distretti di New York City. Oltre il 70 a Los Angeles e Chicago. In numero
assoluto di voti, Clinton ne ha presi almeno 200.000 più di Trump. Che alla
Casa Bianca vada Trump, che di voti ne ha presi meno di lei, dipende dal
sistema dell’Electoral College, per cui in ciascuno Stato il primo arrivato
prende tutti i grandi elettori. Nessun sistema elettorale è perfetto. Loro se
lo tengono com’è da due secoli. Rispondeva, pare, alla preoccupazione dei padri
fondatori della Costituzione che i più popolosi Stati del Nord pesassero molto
più degli altri. Ma la mappa del voto contea per contea mette ancor più in
risalto un’altra anomalia: il voto democratico (blu) si concentra in alcune
piazzeforti assediate da un mare repubblicano (rosso). L’America è fatta così:
grandi città circondate da enormi estensioni molto meno abitate. Persino a New
York se si esce dalla città si è subito immersi nel verde infinito della Hudson
Valley. Anzi, in questa stagione di foliage autunnale, da infinite sfumature di
rosso e giallo, di struggente bellezza. Nelle grandi città la percezione
dominante è quella delle élite. Nel resto del paese è sparso l‘“americano
medio”. La mappa delle contee sarebbe dominata dal rosso anche se avesse vinto
la Clinton, e lo era anche quando vinse Obama. Anche in America le città sono
in genere più “di sinistra”, più moderniste, e le campagne più “di destra”, più
conservatrici. È sempre stato un po’ così. Anche in Europa. La Parigi della
Rivoluzione francese ebbe i suoi guai con la Vandea cattolica e contadina che
parteggiava per Nobili e Monsignori. Un classico degli anni ’60, “Le origini
della dittatura e della democrazia” di John Barrington Moore, faceva delle
campagne la culla della prima e delle città la culla della seconda. Il nazismo,
contrariamente a quel che si può credere, non si era affermato a Berlino, città
ad esso ostile, ma nella provincia. Nel suo “E adesso piccolo uomo”, Hans
Fallada raccontò quasi in presa diretta come i kleine mann avevano cominciato
ad amare Hitler. In America, per spiegare Trump ritorna il concetto, che risale
agli stessi anni Trenta, dei forgotten men, la classe media bianca arrabbiata,
“dimenticata” e “invisibile”, tanto da sfuggire ai sondaggi. Allora non andò
allo stesso modo dappertutto. In America i “dimenticati”, avevano votato per
Roosevelt, che gli offriva il New Deal. In Francia avevano votato per il Fronte
popolare di Léon Blum. La cosa più sgradevole delle mappe di queste
presidenziali Usa è che ritraggono un vento cattivo che non soffia solo in
America. C’è chi ha notato che la vittoria di Trump è una sorta di Brexit, ma
di portata mondiale. (…). Le campagne che accerchiano le città erano una delle
immagini più fortunate di Mao e della sua rivoluzione militare e contadina. Se
però ci sia in Cina un vento analogo a quello che soffia in America e in Europa
non ci è dato sapere: semplicemente perché la Cina non vota.
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