"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 27 novembre 2019

Lavitadeglialtri. 13 «La terrificante solitudine dei vecchi».


Vi racconto questa. Avevo incontrato F. nel parcheggio di un centro commerciale, uno dei tanti anonimi e spesso squallidi centri commerciali che pullulano alla periferia della mia e delle altrui città, che sono oggigiorno divenuti i nuovi “santuari”, per come li definisco io, ove si celebra un rito tanto caro agli umani indefessi consumatori. Consumatori di tutto, anche della propria vita. Ricordo si fosse in una delle tante giornate canicolari che regolarmente ci assediano dal mese di maggio ad ottobre ed oltre in questo estremo lembo di terraferma. F. si aggirava tra le auto parcheggiate sotto quel solleone, neanche l’ombra di un’ombra d’albero o di quant’altro a mitigare quel caldo insopportabile. Con fare discreto F. mi si avvicinò mentre aprivo la portiera della mia auto. Mi gratificò di un Suo sorriso sereno e si premurò di farmi conoscere la Sua storia ancor prima di chiedermi un piccolo aiuto. F. aveva fatto per tantissimi anni l’infermiere in una lussuosa clinica privata del Sud più profondo. Fallita la clinica per malversazione compiuta dai soliti furbetti in camice bianco e per varie irregolarità fiscali, F. si era ritrovato senza un lavoro e con l’amara sorpresa di non essere stato messo, nei lunghissimi anni trascorsi in quella clinica, in regola con le contribuzioni assistenziali e previdenziali. È che, nei disastri di questo lercio mondo, sono i più poveri a pagarne il prezzo maggiore. In quell’occasione gli augurai, di cuore, di trovare una rapida soluzione al suo drammatico stato. Avevo re-incontrato F. per le viuzze medievali della mia città, in un cosiddetto vicolo. Era trasfigurato rispetto al ricordo che ne avevo, ed anche più malandato e trasandato nella persona e nell’abbigliamento. Gli ho chiesto subito del suo stato, tanto per metterlo nelle condizioni migliori per parlarne. Con grande sconforto F. mi confidava come nulla di nuovo fosse intervenuto nella sua esistenza. Anzi, senza il sorriso sereno che mi aveva elargito nella precedente occasione, mi confidava di avere pensato tante volte di farla finita con una vita divenuta terribilmente insopportabile, inutile, senza speranze future. Non ho retto. E, lo confesso, con un groppo in gola, mi sono lasciato andare ad una tiritera sulla “sacralità della vita”, sulla “unicità” di ciascun essere vivente nello scenario dell’universo tutto, come se non  mi bastasse lo scenario reperibile sul pianeta Terra, sul dovere di ciascuno di non mollare mai nell’attesa che anche le più avverse situazioni possano volgere al meglio e blablablabla… Giuro che quando ho lascito F. ero più confuso che mai. Giuro d’essermi vergognato quasi di quel mio blablablabla… fatto nella condizione di chi ha tanto ottenuto dalla vita. Me ne sono vergognato e mi sono sentito uno sconfitto. Come ho potuto arrogarmi il diritto d’impartire ad F. una lezione di vita? Di quale vita poi? Come può essere cara la vita ad F. nelle sue tristissime, avverse condizioni? Ho ripensato ad F. rileggendo il ritaglio di una ritrovata memoria di Massimo Fini, “Una vita basta (e avanza)”, memoria pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 23 di maggio dell’anno 2010, nella quale memoria l’illustre opinionista scrive che, a proposito degli anni che ci sono concessi di vivere, “bisogna vedere come li si vive”. Ritengo interessante la riflessione contenuta e pertanto trascrivo la memoria, di seguito, nella sua interezza: Il mio slogan è: morire prima, morire tutti. La seconda parte è incontrovertibile, la prima, ovviamente, discutibile. Già dal 1919, quando gli orrori della medicina tecnologica non avevano ancora raggiunto i livelli attuali, Max Weber scriveva: - Il presupposto generale della medicina moderna è che sia considerato positivo, unicamente come tale, il compito della conservazione della vita... Tutte le scienze danno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro fini -. Nella società contemporanea, dimentichi non solo di Weber ma di una sapienza millenaria, l'allungamento della vita non è solo un must ma la bandiera che sventola orgogliosamente sul più alto pennone della nave della Modernità. Bisogna sgombrare subito il campo da un voluto e non innocente equivoco diffuso dagli scienziati, dai medici e dagli storici: che in era preindustriale la vita fosse cortissima, 32 anni o poco più. Un falso ideologico. Gli uomini e le donne del Medioevo si sposavano, in media, rispettivamente a 29 e 24 anni, non avrebbero avuto neppure il tempo di tirar su i primi figli e, tantomeno, di farne a dozzine come invece accadeva. Il fatto è che si confonde la vita media, che scontava l'alta mortalità natale e perinatale (che peraltro selezionava naturalmente i più robusti) con la vita effettiva di quegli uomini.
Senza addentrarci in complesse comparazioni statistiche ricordiamo che padre Dante colloca il mezzo del cammin di nostra vita a 35 anni e che, duemila anni prima di lui, il biblista afferma: Settanta sono gli anni della vita dell'uomo. Il confronto non va fatto quindi con la vita media (che è una statistica alla Trilussa) ma con l'aspettativa di vita dell'adulto. Su questo piano abbiamo effettivamente guadagnato qualcosa, perché oggi gli uomini hanno un'aspettativa di vita di 78 anni e le donne di 83. Una decina di anni in più, che non son pochi. Ma bisogna vedere come li si vive. In prima fila ci sono gli orrori dell’accanimento terapeutico, per cui alla naturale paura della morte si è aggiunto un abbietto terrore che ti salvino, condannandoti, per anni, a un'esistenza dimidiata, umiliata, indegna di un essere umano. In fondo la morte, se rispetta i tempi naturali, è una cosa pulita, noi siamo riusciti a renderla una vicenda sporca, disumana. Poi c'è la terrificante solitudine dei vecchi e la loro perdita di ogni ruolo. In Europa solo il 3,5% degli anziani vive con i propri figli. E il vecchio, a differenza di un tempo, non è più il detentore del sapere ma, superato dalle continue innovazioni tecnologiche, ha perso questo ruolo. Come scrive lo storico Carlo Maria Cipolla nella società agricola il vecchio è il saggio, in quella industriale un relitto. A ciò si aggiunge quell'astrazione crudele che solo la smania codificatoria della borghesia e della Modernità poteva inventarsi: la pensione. Da un giorno all'altro tu perdi il posto, sia pur modesto, che avevi nella società e vieni sbattuto nel magazzino dei ferrivecchi. E adesso vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo. Come antipasto ci sono la prevenzione e il terrorismo diagnostico. Qualsiasi età si abbia bisogna controllarsi, palpeggiarsi, auscultarsi, fare una mezza dozzina di esami clinici l'anno. Non si può più fumare, non si può bere, bisogna stare a dieta. Dobbiamo vivere ibernati, vecchi fin da giovani. Il greco Menandro (III secolo a.C.) vedeva lontano, molto lontano, la nostra società, quando canta: Caro agli Dei è chi muore giovane.

1 commento:

  1. Carissimo Aldo, mi piace tanto la conclusione del tuo post in evidenza! Quel pensiero di Anna Maria Ortese, quel suo "preziosissimo dono", come tu giustamente lo definisci... Mi fa riflettere soprattutto l'ultima parte :"Questa Vita è talmente indipendente dal nostro pensiero limitato, che tutto, dico tutto, ogni più nobile cosa può accadere:e lo sa chi, capace di ricordare e osservare, prova continuamente davanti a essa un sentimento di rispetto e terrore". Spesso ci chiediamo qual è il senso e lo scopo della vita e ci sentiamo incapaci di svelare il mistero che ci avvolge. Mi piace pensare che la vita sulla terra sia un'opportunità per imparare, come in una scuola, ad evolverci. Osservando il nostro modo di comportarci, di pensare, ci accorgiamo che possiamo cambiare e diventare migliori. Dipende da noi trarre profitto e conseguire la promozione oppure ripetere l'esperienza. Concludo con un pensiero di Lev Tolstoj :"Le opere della vita precedente danno orientamento alla vita attuale. Questo è ciò che gli Indù chiamano Karma". Grazie e buona continuazione. Agnese A.

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