Scriveva Claudia De Lillo – in arte
“Elasti” – in “Aiuto, c'è un alieno in
casa mia” pubblicato sul settimanale “D” del 26 di settembre dell’anno
2015: Vorrei parlarle cinque minuti da sola, dottoressa». «Mi dica, Elasti».
«Ecco, è tutto così strano e di difficile gestione». «Lo so, bisogna avere
molta pazienza». «Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Ma immaginavo di
avere ancora un po' di tempo prima che…». «Effettivamente è un po' presto.
Tuttavia è un fenomeno inevitabile, lo sa, e bisogna imparare a gestirlo». «Il
problema è che, a volte, proprio non lo capisco». «Non è l'unica». «Un momento
è adorabile e subito dopo si trasforma in Lord Voldemort, il terrificante e
innominabile mago oscuro di Harry Potter». «Lo so». «Ed è un continuo,
frenetico oscillare di bianchi e neri, di tenerezza e aggressività, di
amabilità e insofferenza». «Assolutamente regolare». «Per non parlare
dell'accidioso e morboso attaccamento al divano, della mancanza di entusiasmo…
Fosse per lui passerebbe la vita in posizione orizzontale, preferibilmente a
guardare un film, meglio se violento». «Sono più o meno tutti così». «Eppure,
quando vuole, è divertente, simpatico, affettuoso, anche intelligente, direi».
«Non ne dubito». «È come convivere con…». «Un alieno?». «Esatto! Un alieno,
dottoressa». Lo ha detto anche la pediatra: per qualche tempo hai un bambino,
disegnato a tua immagine e somiglianza, poi, un giorno, ti svegli e in cucina
trovi un preadolescente, o alieno che dir si voglia, che ti guarda in tralice e
riesce a ingurgitare, in uno stesso pasto, tre etti di pasta, sette polpette,
una grande insalata, un chilo di ciliegie e, per soddisfare quel languorino
post prandiale, una tazza di latte e cereali all'avena. Per qualche tempo sei
l'inizio e la fine del suo mondo, lo contieni, gli risolvi ogni problema, il
tuo amore gli basta e la tua presenza è la sua fonte di felicità. Per qualche
tempo è una macchina semplice, i cui pezzi di ricambio stanno nell'armadio, in
garage o, al massimo, al supermercato all'angolo.
Poi, certamente prima di quanto non avessi calcolato, arriva l'adolescenza, preceduta dall'altrettanto insondabile preadolescenza. «Usciamo?». «No! Io non mi muovo di qui! Non puoi tormentarmi con la tua mania di fare cose, madre!». «Come vuoi, ma non chiamarmi madre. Stiamo a casa. Vado di là a leggere». «Ecco. Sei assente! Te ne freghi di me! Perché non facciamo mai niente di bello insieme, madre?». «Ehm, ok, facciamo una gita al lago! Vado a chiamare i tuoi fratelli». «Ci devono per forza essere anche loro? Sono due poppanti. Io non li sopporto. Non possiamo avere uno spazio nostro?». «Andiamo tu e io da soli?». «E nessun altro? Che noia, madre!». Mio figlio maggiore ha dodici anni, gli occhi blu, un'umoralità psichedelica, una voce in trasformazione, mani e piedi enormi, lo sguardo da bambino su un sorriso beffardo disincantato, un'ironia pungente, spalle sempre più larghe e l'impareggiabile talento di mandarmi fuori dai gangheri. Abita una terra misteriosa, in cui tutto cambia vorticosamente. Allo specchio non sempre si riconosce. Con la sua spada laser di plastica, si crede Darth Vader e, come lui, invincibile e immortale. Fa mille domande ma non si fida delle nostre risposte. È guardingo e indifeso, perfido e disarmato, ruvido e trasparente. Mi affascina, mi esaspera, mi inquieta, mi inchioda alla mia inadeguatezza. Vuole essere accolto, arginato, contraddetto e apprezzato, amato a distanza, corretto e incoraggiato, seguito e lasciato in pace. Se riuscissi a guardarlo da lontano ne sarei incantata e ipnotizzata perché poche cose sono affascinanti come un bambino che diventa uomo. Ma gli sono troppo vicina e le sue iperboli mi disorientano e la mia missione educativa nei suoi confronti, più necessaria che mai, mi sembra una montagna che non riuscirò mai a scalare. «Bene, Elasti, facciamo entrare questo preadolescente?». «Certo!». «Eccolo! Come va, caro?». «Bene, grazie dottoressa. A parte le intemperanze tipiche della mia età. Ma mi dicono che è tutto normale e bisogna solo avere pazienza. Può misurarmi adesso? Credo di essere diventato più alto di mia madre e vorrei che fosse lei a dirglielo». Ha preceduto Elasti lo psicoterapeuta lacaniano Massimo Recalcati con lo scritto “Generazione orizzontale”, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 6 di novembre dell’anno 2013. Scriveva Recalcati: Freud dava ai genitori due notizie, una cattiva e una buona. Quella cattiva: il mestiere del genitore è un mestiere impossibile. Quella buona: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità. Come dire che l’insufficienza, la vulnerabilità, la fragilità, il senso dei propri limiti, non sono ingredienti nocivi all’esercizio della genitorialità. Tutt’altro. (…). Se nella nostra cultura il tema della paternità è diventato negli ultimi anni un tema egemonico, è perché intercetta una angoscia diffusa non solo nelle famiglie, ma nelle pieghe più profonde del nostro tessuto sociale: cosa resta del padre nell’epoca della sua evaporazione autoritaria e disciplinare? Può esistere ancora una autorità simbolica degna di rispetto? Può la parola di un padre avere ancora un senso se non può più essere la parola che chiude tutti i discorsi, che può definire dall’alto il senso Assoluto del bene e del male, della vita e della morte? (…). Una mutazione antropologica, come direbbe Pasolini, sembra aver investito i nostri figli. (…). …eccoli, gli sdraiati, avvolti nelle loro felpe e circondati dai loro oggetti tecnologici come fossero prolungamenti post-umani del corpo e del pensiero. Eccoli i figli di oggi, quelli che preferiscono la televisione allo spettacolo della natura, che non amano le bandiere dell’Ideale, ma che vivono anarchicamente nel loro godimento autistico, eccoli in un mondo dove «tutto rimane acceso, niente spento, tutto aperto, niente chiuso, tutto iniziato, niente concluso». Eccoli i consumisti perfetti, «il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto lo scalda, mangi più di quanto lo nutre, l’illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può fumare, compri più di quanto lo soddisfa». Non si era mai visto niente di simile a questa generazione. Sia detto senza alcun moralismo, (…). Non è né bene, né male; è una mutazione, «è l’evoluzione della specie», (…). La giovinezza si palesa innanzitutto nell’odore. Nei versetti dedicati a Giacobbe la Bibbia descrive soavemente l’odore del figlio come quello neutro di un campo. Nell’età della giovinezza, come i genitori sanno bene, questo incanto si rompe. Era stato facile amarli da piccoli, quando l’odore del loro corpo era quello del campo. Adesso invece il corpo sgomita. Una delle etimologie del termine adolescenza significa infatti arrivare ad avere il proprio odore. È quello che accade anche agli sdraiati. Il corpo fa irruzione sulla scena della famiglia con la sua forza pulsionale di cui i calzini puzzolenti che il padre raccoglie con pazienza e disperazione per casa sono una traccia emblematica. Questo corpo spinge alla vita. Ma spinge a suo modo. Senza ricalcare quello che è avvenuto nella generazioni che li ha preceduti. Gli sdraiati sembra facciano collassare ogni possibilità di dialogo. La parola non circola. Sembra vivano in un mondo chiuso allo scambio. (…). Il segreto più grande nel rapporto tra le generazioni è quello di saper amare la vita del figlio anche quando la nostra inizia la fase del suo declino. Non avere paura del proprio tramonto è la condizione per la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra. (…).
Poi, certamente prima di quanto non avessi calcolato, arriva l'adolescenza, preceduta dall'altrettanto insondabile preadolescenza. «Usciamo?». «No! Io non mi muovo di qui! Non puoi tormentarmi con la tua mania di fare cose, madre!». «Come vuoi, ma non chiamarmi madre. Stiamo a casa. Vado di là a leggere». «Ecco. Sei assente! Te ne freghi di me! Perché non facciamo mai niente di bello insieme, madre?». «Ehm, ok, facciamo una gita al lago! Vado a chiamare i tuoi fratelli». «Ci devono per forza essere anche loro? Sono due poppanti. Io non li sopporto. Non possiamo avere uno spazio nostro?». «Andiamo tu e io da soli?». «E nessun altro? Che noia, madre!». Mio figlio maggiore ha dodici anni, gli occhi blu, un'umoralità psichedelica, una voce in trasformazione, mani e piedi enormi, lo sguardo da bambino su un sorriso beffardo disincantato, un'ironia pungente, spalle sempre più larghe e l'impareggiabile talento di mandarmi fuori dai gangheri. Abita una terra misteriosa, in cui tutto cambia vorticosamente. Allo specchio non sempre si riconosce. Con la sua spada laser di plastica, si crede Darth Vader e, come lui, invincibile e immortale. Fa mille domande ma non si fida delle nostre risposte. È guardingo e indifeso, perfido e disarmato, ruvido e trasparente. Mi affascina, mi esaspera, mi inquieta, mi inchioda alla mia inadeguatezza. Vuole essere accolto, arginato, contraddetto e apprezzato, amato a distanza, corretto e incoraggiato, seguito e lasciato in pace. Se riuscissi a guardarlo da lontano ne sarei incantata e ipnotizzata perché poche cose sono affascinanti come un bambino che diventa uomo. Ma gli sono troppo vicina e le sue iperboli mi disorientano e la mia missione educativa nei suoi confronti, più necessaria che mai, mi sembra una montagna che non riuscirò mai a scalare. «Bene, Elasti, facciamo entrare questo preadolescente?». «Certo!». «Eccolo! Come va, caro?». «Bene, grazie dottoressa. A parte le intemperanze tipiche della mia età. Ma mi dicono che è tutto normale e bisogna solo avere pazienza. Può misurarmi adesso? Credo di essere diventato più alto di mia madre e vorrei che fosse lei a dirglielo». Ha preceduto Elasti lo psicoterapeuta lacaniano Massimo Recalcati con lo scritto “Generazione orizzontale”, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 6 di novembre dell’anno 2013. Scriveva Recalcati: Freud dava ai genitori due notizie, una cattiva e una buona. Quella cattiva: il mestiere del genitore è un mestiere impossibile. Quella buona: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità. Come dire che l’insufficienza, la vulnerabilità, la fragilità, il senso dei propri limiti, non sono ingredienti nocivi all’esercizio della genitorialità. Tutt’altro. (…). Se nella nostra cultura il tema della paternità è diventato negli ultimi anni un tema egemonico, è perché intercetta una angoscia diffusa non solo nelle famiglie, ma nelle pieghe più profonde del nostro tessuto sociale: cosa resta del padre nell’epoca della sua evaporazione autoritaria e disciplinare? Può esistere ancora una autorità simbolica degna di rispetto? Può la parola di un padre avere ancora un senso se non può più essere la parola che chiude tutti i discorsi, che può definire dall’alto il senso Assoluto del bene e del male, della vita e della morte? (…). Una mutazione antropologica, come direbbe Pasolini, sembra aver investito i nostri figli. (…). …eccoli, gli sdraiati, avvolti nelle loro felpe e circondati dai loro oggetti tecnologici come fossero prolungamenti post-umani del corpo e del pensiero. Eccoli i figli di oggi, quelli che preferiscono la televisione allo spettacolo della natura, che non amano le bandiere dell’Ideale, ma che vivono anarchicamente nel loro godimento autistico, eccoli in un mondo dove «tutto rimane acceso, niente spento, tutto aperto, niente chiuso, tutto iniziato, niente concluso». Eccoli i consumisti perfetti, «il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto lo scalda, mangi più di quanto lo nutre, l’illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può fumare, compri più di quanto lo soddisfa». Non si era mai visto niente di simile a questa generazione. Sia detto senza alcun moralismo, (…). Non è né bene, né male; è una mutazione, «è l’evoluzione della specie», (…). La giovinezza si palesa innanzitutto nell’odore. Nei versetti dedicati a Giacobbe la Bibbia descrive soavemente l’odore del figlio come quello neutro di un campo. Nell’età della giovinezza, come i genitori sanno bene, questo incanto si rompe. Era stato facile amarli da piccoli, quando l’odore del loro corpo era quello del campo. Adesso invece il corpo sgomita. Una delle etimologie del termine adolescenza significa infatti arrivare ad avere il proprio odore. È quello che accade anche agli sdraiati. Il corpo fa irruzione sulla scena della famiglia con la sua forza pulsionale di cui i calzini puzzolenti che il padre raccoglie con pazienza e disperazione per casa sono una traccia emblematica. Questo corpo spinge alla vita. Ma spinge a suo modo. Senza ricalcare quello che è avvenuto nella generazioni che li ha preceduti. Gli sdraiati sembra facciano collassare ogni possibilità di dialogo. La parola non circola. Sembra vivano in un mondo chiuso allo scambio. (…). Il segreto più grande nel rapporto tra le generazioni è quello di saper amare la vita del figlio anche quando la nostra inizia la fase del suo declino. Non avere paura del proprio tramonto è la condizione per la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra. (…).
Carissimo Aldo, grazie per questo post che, ancora una volta, ha suscitato in me significativi ricordi, sentimenti e riflessioni. Il rapporto tra adulti e adolescenti è sempre stato impegnativo, ma anche molto coinvolgente. Ciò che, a mio parere, è importante e basilare è la capacità di essere accorti e interessati a conoscere bene gli adolescenti, osservandoli attentamente, per cogliere i loro diversi stati d'animo e gli eventuali disagi, perché solo una conoscenza vera potrà facilitare un intervento educativo adeguato e proficuo. È necessaria, pertanto, una capacità di ascolto attivo che deve configurarsi come realmente empatico, come capacità di intuire e leggere tra le righe, di captare le spie emozionali, di cogliere anche i segnali non verbali, indicatori di uno stato d'animo. Un ambiente educativo capace di agire in questo senso crea un clima di fiducia che facilita il dialogo. Buona continuazione. Agnese A.
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