Ritorno alla mia “musa” Roberta de
Monticelli che alle pagine 76 e 77 del Suo “La
questione morale” scrive: “(…). Fare come se Dio ci fosse, anche da
parte di chi non ci crede, per garantire un ordine alla società: non è
precisamente la tesi degli atei devoti? È una tesi moralmente nichilista,
perché chiede precisamente di affidarsi a un’autorità che dice di interpretare
la volontà di Dio, anche nel caso che Dio non ci sia. Il nichilismo,
attenzione, non sta affatto nell’ipotesi che Dio non ci sia – ci mancherebbe!
Perché questa ipotesi, di per sé, non implica affatto che non ci siano valori e
doveri. Il nichilismo morale, invece, sta precisamente nell’intero condizionale
– (…) -. Se Dio non c’è tutto è permesso vuol dire che la ragione umana da sola
è incapace di conoscenza morale. Quindi, in una brutale versione più corrente
che ha il vantaggio della sincerità: Se non sei credente (anzi cattolico) sei
moralmente incompetente – al massimo sei un moralista, ma virtualmente anche un
assassino. Perciò io Chiesa, dato che tu non hai legge morale, chiederò allo
Stato di istituire norme giuridiche che sopperiscano alla tua incompetenza
morale. E vuol dire dunque, in secondo luogo: Se Dio non c’è, dio sono io. (…)”.
Del “bene”. Del “male”. Brancoliamo nel buio. Da sempre. Dov’è il discrimine tra “bene” e “male”? A cosa ne leghiamo le sorti affinché l’uno prevalga sull’altro? Non è poi così scontato che il “bene” prevalga sul “male”. Scrive il 23 di giugno dell’anno 2011 Eugenio Scalfari nel Suo editoriale “L’invenzione del bene e del male”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”, che di seguito trascrivo in parte: “(…). …se il concetto della salvezza fosse cancellato dalla mente degli uomini, su che cosa reggerebbero i concetti di bene, di male, di peccato?”. È questo il punto? È il discrimine tanto cercato? Cercato da chi? Da tutti coloro che invocano ed agognano un “dopo” ed una “salvezza” che sia? E perché poi quelle entità, il “dopo” e/o la “salvezza” dovrebbero essere luce nel cammino degli umani? E quanti, forti di quelle invocate certezze, si sono fatti nei secoli portatori di morte? Ma la “salvezza” non avrebbe dovuto guidare i passi degli esseri umani ai tempi dell’Olocausto? Come ai tempi del Darfur? Come ai tempi delle crociate? Ai tempi, insomma, degli stermini tutti? La “salvezza” e/o il terrore del “dopo”?. È il pendolo che oscilla sulle sorti degli umani. È il pendolo del “bene” e del “male” che oscilla perennemente con i suoi rintocchi a volte sinistri, tic-tac, tic-tac; per arrestarsi all’improvviso sull’uno o sull’altro dei corni del problema; così, inspiegabilmente, come ad un comando misterioso e sinistro al contempo. Perché il “male”? Come è possibile che il “male” segni epoche intere mentre il “bene” sembra essersi come volatilizzato dalla mente degli umani? “Fare come se Dio ci fosse” è forse l’unico freno a che il “male” non diventi il padrone del mondo? Donde ne consegue che l’autonomia degli esseri umani è solo una chimera essendo il loro “fare” fortemente determinato da paure altre e non tanto dalla vittoria sugli “istinti” che continuano a coesistere nelle loro più antiche circonvoluzioni cerebrali? Scrive ancora Eugenio Scalfari: (…). …se il concetto della salvezza fosse cancellato dalla mente degli uomini, su che cosa reggerebbero i concetti di bene, di male, di peccato? Una risposta, interamente laica, potrebbe riferire quei concetti alla società: è bene ciò che aiuta la società a durare e crescere ed è male ciò che minaccia di distruggerla. Per evitare il proprio dissolvimento la società crea una rete di istituzioni, di norme e di sanzioni contro chi le viola. Scompare il peccato ma è sostituito dal reato che è tutt´altra cosa. Salvezza e redenzione scompaiono anch´esse da questa polarità puramente terrena. In questo quadro laico i concetti di bene e di male subiscono una radicale trasformazione, al posto della salvezza si installa il concetto di felicità. È un bene perseguire una felicità puramente individuale e immediata, mirata alla soddisfazione degli istinti, oppure una felicità di lunga durata, valida per i propri figli e nipoti e connessa alla solidità delle istituzioni? Si pone a questo punto la domanda di quali siano le istituzioni più idonee a costruire e guidare una società giusta e partecipata. Entra in scena il concetto di democrazia e le varie tipologie che lo distinguono. Siamo, come si vede, in pieno Aristotele. (…). Il bene e il male sono concetti elaborati dalla nostra mente per dare un fondamento etico ai nostri comportamenti e un senso alla nostra vita. Gli altri esseri viventi - vegetali e animali - ignorano che cosa sia l´etica, non possiedono un´identità consapevole, non hanno capacità di pensare se stessi e il mondo. Noi l´abbiamo quella capacità e proprio per questo siamo una specie drammaticamente infelice. Lo siamo diventati nel momento stesso in cui l´Arcangelo Gabriele, eseguendo gli ordini del Creatore, ci scacciò dal Paradiso terrestre e ci precipitò nella storia condannandoci a lavorare, a soffrire e a scontare il peccato d´aver mangiato i frutti dell´albero della conoscenza. E a domandarci se c´è un senso in questo racconto. Il senso c´è se il nostro pensiero si rassicura sull´esistenza di un destino. (…). …in proposito Cesare Pavese: «La religione consiste nel credere che tutto quello che ci accade è straordinariamente importante». Per chi ricorda che la vita ha fatto il suo ingresso nel mondo sotto la forma di un essere monocellulare che si riproduceva per partenogenesi, l´idea che tutto quello che ci accade sia estremamente importante è un semplice esorcismo creato da noi stessi per combattere l´idea della morte. La realtà è che non esiste alcun senso ultimo della vita; siamo noi che ce lo inventiamo per rassicurarci. Il senso viaggia su segmenti di vita, opere da fare, progetti da costruire, desideri da soddisfare. Ed esorcismi per scappare dalla morte incombente. Non esistono i dodicimila santi che incarnano il bene e magari lo vivono con solitaria superbia e non esiste il male come divina e diabolica controfigura del bene. Esistono invece l´amore verso se stessi e l´amore verso gli altri. Due istinti che convivono dialetticamente, insiti nella nostra natura e soltanto nella nostra. Due istinti la cui agitata e straordinariamente fertile convivenza tesse il racconto della vita individuale e la storia delle società nella quale la nostra socievolezza antropologica ci induce a vivere. Ciò che ci accade dipende in gran parte dalla modulazione di quei due amori e per il resto dal caso. Farò (…) una citazione a proposito del destino e del caso e la traggo da Momenti fatali di Stefan Zweig: «Sul mondo devono sempre scorrere milioni di ore amorfe prima che appaia un´ora veramente storica, un´ora stellare dell´umanità». Quando uno di quei due amori (…) soverchia l´altro ed assume la padronanza del nostro es superando la soglia della fisiologia, lì nasce quello che Freud chiamò «il disagio nella civiltà». (…). Il dover essere (io lo chiamo l´amore per gli altri) e l´essere (l´amore per se stessi) convivono e non sono eterogenei perché sgorgano dal comune istinto di sopravvivenza. Sono entrambi necessari. Il primo mira alla sopravvivenza della specie, il secondo a quella dell´individuo. Questa è la condizione umana che coincide con la vita fino a quando anche la nostra specie scomparirà come tutte le cose che, essendo nate, è legge che scompaiano e più non ritornino.
Del “bene”. Del “male”. Brancoliamo nel buio. Da sempre. Dov’è il discrimine tra “bene” e “male”? A cosa ne leghiamo le sorti affinché l’uno prevalga sull’altro? Non è poi così scontato che il “bene” prevalga sul “male”. Scrive il 23 di giugno dell’anno 2011 Eugenio Scalfari nel Suo editoriale “L’invenzione del bene e del male”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”, che di seguito trascrivo in parte: “(…). …se il concetto della salvezza fosse cancellato dalla mente degli uomini, su che cosa reggerebbero i concetti di bene, di male, di peccato?”. È questo il punto? È il discrimine tanto cercato? Cercato da chi? Da tutti coloro che invocano ed agognano un “dopo” ed una “salvezza” che sia? E perché poi quelle entità, il “dopo” e/o la “salvezza” dovrebbero essere luce nel cammino degli umani? E quanti, forti di quelle invocate certezze, si sono fatti nei secoli portatori di morte? Ma la “salvezza” non avrebbe dovuto guidare i passi degli esseri umani ai tempi dell’Olocausto? Come ai tempi del Darfur? Come ai tempi delle crociate? Ai tempi, insomma, degli stermini tutti? La “salvezza” e/o il terrore del “dopo”?. È il pendolo che oscilla sulle sorti degli umani. È il pendolo del “bene” e del “male” che oscilla perennemente con i suoi rintocchi a volte sinistri, tic-tac, tic-tac; per arrestarsi all’improvviso sull’uno o sull’altro dei corni del problema; così, inspiegabilmente, come ad un comando misterioso e sinistro al contempo. Perché il “male”? Come è possibile che il “male” segni epoche intere mentre il “bene” sembra essersi come volatilizzato dalla mente degli umani? “Fare come se Dio ci fosse” è forse l’unico freno a che il “male” non diventi il padrone del mondo? Donde ne consegue che l’autonomia degli esseri umani è solo una chimera essendo il loro “fare” fortemente determinato da paure altre e non tanto dalla vittoria sugli “istinti” che continuano a coesistere nelle loro più antiche circonvoluzioni cerebrali? Scrive ancora Eugenio Scalfari: (…). …se il concetto della salvezza fosse cancellato dalla mente degli uomini, su che cosa reggerebbero i concetti di bene, di male, di peccato? Una risposta, interamente laica, potrebbe riferire quei concetti alla società: è bene ciò che aiuta la società a durare e crescere ed è male ciò che minaccia di distruggerla. Per evitare il proprio dissolvimento la società crea una rete di istituzioni, di norme e di sanzioni contro chi le viola. Scompare il peccato ma è sostituito dal reato che è tutt´altra cosa. Salvezza e redenzione scompaiono anch´esse da questa polarità puramente terrena. In questo quadro laico i concetti di bene e di male subiscono una radicale trasformazione, al posto della salvezza si installa il concetto di felicità. È un bene perseguire una felicità puramente individuale e immediata, mirata alla soddisfazione degli istinti, oppure una felicità di lunga durata, valida per i propri figli e nipoti e connessa alla solidità delle istituzioni? Si pone a questo punto la domanda di quali siano le istituzioni più idonee a costruire e guidare una società giusta e partecipata. Entra in scena il concetto di democrazia e le varie tipologie che lo distinguono. Siamo, come si vede, in pieno Aristotele. (…). Il bene e il male sono concetti elaborati dalla nostra mente per dare un fondamento etico ai nostri comportamenti e un senso alla nostra vita. Gli altri esseri viventi - vegetali e animali - ignorano che cosa sia l´etica, non possiedono un´identità consapevole, non hanno capacità di pensare se stessi e il mondo. Noi l´abbiamo quella capacità e proprio per questo siamo una specie drammaticamente infelice. Lo siamo diventati nel momento stesso in cui l´Arcangelo Gabriele, eseguendo gli ordini del Creatore, ci scacciò dal Paradiso terrestre e ci precipitò nella storia condannandoci a lavorare, a soffrire e a scontare il peccato d´aver mangiato i frutti dell´albero della conoscenza. E a domandarci se c´è un senso in questo racconto. Il senso c´è se il nostro pensiero si rassicura sull´esistenza di un destino. (…). …in proposito Cesare Pavese: «La religione consiste nel credere che tutto quello che ci accade è straordinariamente importante». Per chi ricorda che la vita ha fatto il suo ingresso nel mondo sotto la forma di un essere monocellulare che si riproduceva per partenogenesi, l´idea che tutto quello che ci accade sia estremamente importante è un semplice esorcismo creato da noi stessi per combattere l´idea della morte. La realtà è che non esiste alcun senso ultimo della vita; siamo noi che ce lo inventiamo per rassicurarci. Il senso viaggia su segmenti di vita, opere da fare, progetti da costruire, desideri da soddisfare. Ed esorcismi per scappare dalla morte incombente. Non esistono i dodicimila santi che incarnano il bene e magari lo vivono con solitaria superbia e non esiste il male come divina e diabolica controfigura del bene. Esistono invece l´amore verso se stessi e l´amore verso gli altri. Due istinti che convivono dialetticamente, insiti nella nostra natura e soltanto nella nostra. Due istinti la cui agitata e straordinariamente fertile convivenza tesse il racconto della vita individuale e la storia delle società nella quale la nostra socievolezza antropologica ci induce a vivere. Ciò che ci accade dipende in gran parte dalla modulazione di quei due amori e per il resto dal caso. Farò (…) una citazione a proposito del destino e del caso e la traggo da Momenti fatali di Stefan Zweig: «Sul mondo devono sempre scorrere milioni di ore amorfe prima che appaia un´ora veramente storica, un´ora stellare dell´umanità». Quando uno di quei due amori (…) soverchia l´altro ed assume la padronanza del nostro es superando la soglia della fisiologia, lì nasce quello che Freud chiamò «il disagio nella civiltà». (…). Il dover essere (io lo chiamo l´amore per gli altri) e l´essere (l´amore per se stessi) convivono e non sono eterogenei perché sgorgano dal comune istinto di sopravvivenza. Sono entrambi necessari. Il primo mira alla sopravvivenza della specie, il secondo a quella dell´individuo. Questa è la condizione umana che coincide con la vita fino a quando anche la nostra specie scomparirà come tutte le cose che, essendo nate, è legge che scompaiano e più non ritornino.
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