Tratto da “La
disuguaglianza frena la crescita”, intervista di Francesco Manacorda al
premio Nobel Joseph Stiglitz pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 7 di novembre
2019: «Il capitalismo non è finito, ma ha bisogno di un nuovo contratto
sociale». (…). «Ma se non aggiustiamo al più presto il capitalismo - dice -
rischiamo di finire travolti dalla forza delle diseguaglianze che quel sistema senza
controlli ci sta imponendo» (…).
Aggiustare il capitalismo, professor Stiglitz. Ma con quali strumenti? Che cosa serve avere nella cassetta degli attrezzi per provare a cambiare quello che non va? E chi deve farlo? «Devono farlo gli Stati e dalla cassetta degli attrezzi devono tirare fuori norme forti che limitino lo strapotere delle aziende; investimenti pubblici per le infrastrutture e che in generale aumentino l’efficienza e la produttività dell’economia; un sistema fiscale progressivo (dove i ricchi pagano in proporzione più tasse dei poveri, ndr) invece che regressivo come è oggi in Usa, tasse sull’inquinamento e sulle transazioni finanziarie; un Welfare State che non sia solo assistenza sociale, ma aiuti le persone a investire su se stesse».
Insomma un forte ruolo dello Stato, come
regolatore, investitore, redistributore di risorse. Molti lo considerano del
tutto antistorico. «Serve senza dubbio un equilibrio migliore tra Stato e
mercato. Se si lascia un mercato senza regole, se prevale quel “neoliberismo”
che ha regnato negli ultimi quarant’anni, allora succede tutto quello che
abbiamo visto negli Stati Uniti in questo decennio: banche che prendono rischi
eccessivi, società che si approfittano dei loro clienti e dei risparmiatori,
crisi finanziarie, case automobilistiche che cercano di ingannare sulle
emissioni inquinanti delle proprie vetture, colossi alimentari che inducono i
bambini a mangiare prodotti che li potranno far diventare diabetici. Ed è solo
un elenco parziale».
Per molti anni si è pensato che nessun
potere statale potesse limitare il potere delle grandi corporation, simili a
navi corsare che non battevano alcuna bandiera nazionale. È così? «No, penso
che sia gli Stati Uniti sia l’Europa abbiano modo di incidere profondamente sul
comportamento delle grandi società, specie colpendo pratiche anticoncorrenziali
o evitando eccessive concentrazioni, e migliorando la regolamentazione
finanziaria. I paesi più grandi, Cina compresa, hanno in realtà un potere
enorme».
Fermare lo strapotere delle corporation non
significa anche fermare, o almeno mettere a rischio, la crescita economica? «È
quello che hanno cercato e cercano di farci credere. Ma ciò che alla lunga
frena davvero la crescita e lo sviluppo è l’aumentare delle diseguaglianze, il
fatto che chi sta in basso abbia sempre meno opportunità e chi sta in alto
possa agire senza vincoli».
C’è un paradosso, però. In Europa, a partire
dall’Italia, abbiamo un capitalismo assai temperato dall’intervento dello
Stato. Eppure l’Europa, in termini di pura crescita del Pil, sta ben dietro i
deregolatissimi Stati Uniti. Perché? «Prima di tutto penso che si debba essere
molto cauti su come si misura la produzione di una società. Se il Pil aumenta,
ma aumentano anche gli obesi o gli alcolizzati che vanno curati, qual è
l’effetto complessivo sulla crescita di un paese? Inoltre la crescita della
popolazione e della forza lavoro negli Usa negli ultimi decenni è stata ben più
alta di quella europea, e ha contributo a spingere la crescita economica.
Infine, c’è una moltitudine di fattori che possono influenzare il rapporto tra
Stato, mercato e crescita economica. Guardi alla Svezia o alla Norvegia, che
hanno avuto crescita soddisfacente e un intervento dello Stato. Più in
generale, se si considera il periodo che copra all’incirca l’ultimo secolo, chi
ha messo in campo Stato e mercato ha visto una crescita più equa e forte di chi
non lo ha fatto».
Nessuno nega che all’interno dei singoli
Paesi le diseguaglianze siano cresciute negli ultimi quarant’anni. Ma il
neoliberismo non ha anche abbassato le diseguaglianze nel mondo? Non pensa che
in fondo le sue idee siano un esempio di primato culturale occidentale? «Sì, i
paesi del Sud Est asiatico, in primis Cina e India, che sono tra quelli che più
hanno beneficiato della crescita e hanno avuto in molti casi una riduzione
delle diseguaglianze al loro interno. Ma per raggiungere questo obiettivo lo
Stato è intervenuto in modo forte. Quindi io vedo ciò che è accaduto in quei
paesi proprio come al prova che il mercato, per funzionare al meglio, deve
essere temperato da un forte ruolo dello Stato».
È noto che lei è un critico dell’euro e
delle politiche di austerità legate al mantenimento della moneta unica. Oggi ci
serve meno o più Europa? O solo un’Europa differente? «C’è una diffusa
percezione che gli accordi attuali alla base dell’Europa, euro compreso, non
funzionino bene. Del resto lo dimostrano i bassi livelli di crescita nel
continente. Io penso che serva più Europa: l’unione bancaria, un fondo di
solidarietà tra paesi europei, un’assicurazione di disoccupazione a livello
continentale. Ma se non si riesce ad arrivarci, allora è meglio un po’ meno
Europa. Io non critico la costruzione europea, ma solo la moneta unica che
costringe paesi con politiche di bilancio molto diverse ad adeguarsi alla
stessa moneta. E del resto non tutti i paesi dell’Ue sono nell’euro».
Le democrazie sociali del Nord Europa sono
il vero esempio del suo “capitalismo progressivo”? «Bisogna guardarsi attorno
nel mondo e captare i differenti aspetti del capitalismo progressivo. Certo, la
Svezia ha molto da insegnarci: ad esempio sul sistema di istruzione o sul
Welfare State, mentre la Norvegia è probabilmente il miglior Paese al mondo
come capacità di gestire le proprie risorse naturali. Altri paesi hanno saputo
raggiungere un buon grado di cooperazione tra le imprese e i loro regolatori.
Ma è un processo in continuo cambiamento in cui non bisogna smettere di
cercare, di sperimentare».
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