"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 28 settembre 2018

Lalinguabatte. 61 La crisi, i ricchi e «melassa sociale».



Mi piace a distanza di tempo tornare a parlare della “zuccherosa melassa” che ha omogeneizzato memorie e coscienze e che ben riesce ad omogeneizzare, nel frullatore mediatico potentemente invasivo, le moltitudini stupefatte in questo non più novello millennio, meglio ancor che nel millennio precedente. Mi soccorre, per il mio ritorno, il più volte citato volume di Raffaele Simone che ha per titolo “Il mostro mite”, edito per i tipi Garzanti. Il capitalismo rampante, il turbo capitalismo, il capitalismo senza regole, o con qualsivoglia altra aggettivazione lo si individui e determini, ha avuto da sempre la necessità di scegliersi un referente politico per portare a compimento i misfatti suoi. Ed il referente politico lo ha trovato non più e soltanto nella “destra” ma ancor più nella sedicente sinistra al potere nell’Occidente, referente a dimensione planetaria, per come la globalizzazione finanziaria ed economica impone. È stata la “destra” ma ancor più la sedicente sinistra appena dopo, a seconda delle esigenze, versatili ambedue ed apparentemente molto moderne, è stata quella “destra” che l’illustre Autore denominava per l’appunto “il mostro mite” non avendo la cosiddetta sinistra disvelato al tempo della importante pubblicazione (9 di settembre dell’anno 2010) tutta la sua perversa natura. Trascrivo un breve passo dal volume appena citato: (…). La vera sorpresa del panorama politico-culturale dell’inizio del XXI secolo sta proprio nel fatto che sul pelo del mare della storia si è visto affiorare il mascherone sorridente della Neodestra, che promette felicità e benessere a tutti anche se ha in realtà tutt’altri interessi e mire. (…). …se la Neodestra avanza mentre la sinistra stenta non è solo per ragioni politiche: ci sono sei motivi di questo genere, ma il motivo vero ha a che fare con la cultura della modernità intesa come sistema economico-ideologico totale. Sono infatti convinto che la Neodestra stia prevalendo perché può contare su un paradigma di cultura eccezionalmente attraente e affabile, avvolgente e diffuso, che le garantirà per un pezzo il primato non solo nei parlamenti e nei posti di comando ma soprattutto negli usi e costumi ( stavo per dire negli usi e consumi ) della gente, cioè nella vita di ciascuno di noi. (…). Scrive l’illustre Autore nel Suo prezioso volume dell’affiorare, all’inizio del corrente millennio, ma personalmente lo anticiperei questo affiorare agli inizi degli anni novanta del secolo ventesimo, di un “mascherone sorridente”, un mascherone a tutto denti in alcune latitudini, dispensatore impenitente di spregiudicatezza, portatore di bonomia paternalistica, sollecitatore di spensieratezza collettiva, un mascherone colpevole assai dinnanzi alle difficoltà quotidiane delle masse, difficoltà emergenti a causa del dissesto finanziario globalmente creato e che ha al suo seguito coinvolto anche l’economia reale. E nell’indistinto amalgama collettivo così creato si è inoculato un sottile potente veleno, il veleno dell’individualismo più sfrenato, dell’indifferenza e della spettacolarizzazione pronta e pedissequa di tutto, dai drammi personali e più intimi alle catastrofi immani della natura. E sono scomparsi, in questa melassa zuccherosa, le identità sociali di un tempo, i motivi di appartenenza, l’orgoglio anche di una condivisione, il richiamarsi costante ai principi della solidarietà e della fratellanza. Il tutto oggigiorno disperso in un indistinto “stare assieme”, soprattutto mediatico, che sostituisce sempre più spesso il reale, un nuovo “stare assieme” che è misura della più profonda non percezione, da parte delle masse disorientate, della loro non appartenenza sociale, della loro irrilevanza rispetto al “ mostro mite “ che tutto invade e pervade. Ne ha scritto dottamente Jean Paul Fitoussi nella Sua riflessione “La crisi, i ricchi e il ruolo della solidarietà”, riflessione pubblicata dal quotidiano “la Repubblica” e che di seguito trascrivo in parte:
La crisi (2008/2018, un decennio già n.d.r.) ha rivelato che le nostre società sono costituite apparentemente non più da classi sociali, ma da universi paralleli: una differenza non retorica, conseguenza di un’evoluzione implacabile che ha diviso le popolazioni in categorie distinte, pur senza unire le persone in seno a ogni categoria. Ai tempi delle classi sociali, se così posso dire, ciascuno aveva un’identità sociale, e la coscienza di appartenere a un gruppo. Per di più, i rapporti tra le classi, spesso conflittuali anche se talora pacificati dal paternalismo dei capitani d’industria, erano frequenti, se non continui; in breve, non avevano nulla di anonimo. Era il senso di appartenenza a una classe, insieme ai rapporti tra le classi, a fare la società. Le rette parallele si incontrano solo all’infinito: è un modo per dire che gli universi di cui sopra generalmente si ignorano. Quest’evoluzione è il frutto di un cambiamento dei valori e del crescente individualismo. I valori della solidarietà, anche se imposti dalle disuguaglianze e dalle difficoltà della vita quotidiana, hanno ceduto progressivamente il passo a quelli del merito individuale, misurato col metro del denaro. (…). Ma ad aprire la strada agli universi paralleli di cui ho parlato è intervenuta un’altra astrazione: il denaro. Se il merito, come ci racconta non la teoria (che è più sottile) ma l’ideologia liberale, si misura col metro del denaro, allora non esistono più limiti morali all’entità delle remunerazioni. Se io guadagno mille volte (o cento, o dieci volte) più di te, vuol dire che il mio merito è mille volte (o cento, o dieci volte) superiore al tuo. In tal modo diventa possibile attribuire al denaro un valore intrinseco: quello del mio merito, della mia competenza. Al resto pensa la natura umana – l’ego e/o l’arroganza: sono in molti a considerare il proprio valore precisamente inestimabile. (…). A confortare il suddetto credo è stata la dottrina del libero mercato, divenuta una quasi religione: il mercato è efficiente, e quindi la remunerazione che mi fa avere (la cui entità, come si è visto in alcuni casi recenti, può anche andare oltre ogni immaginazione) è legittimata dalla mia propria efficienza. Posso dunque dire di partecipare al bene comune, ancorché indirettamente e astrattamente, attraverso la creazione di valore resa possibile dal mio lavoro, e ne sono ricompensato. Ma ecco che – patatrac! – il sistema crolla: la creazione di valore si trasforma in distruzione, e gli universi paralleli entrano in rotta di collisione. Il risultato è spettacolare e, a memoria di matematico, inaudito: le rette parallele si incrociano, l’autonomia diventa interdipendenza, la solidarietà è riaffermata con enfasi per convincere il «tax payer», o contribuente, a soccorrere chi prima aveva voluto le camere separate. (…). Scriveva Jean Paul Fitoussi dei novelli assembramenti sociali non più individuabili nelle storiche “classi sociali. Come non vedere oggigiorno l’enorme responsabilità afferente alla sedicente sinistra che ha lasciato cadere quei vessilli che conferivano alla società nel suo complesso quella complessità necessaria e vivace ben presto sostituita dalla “zuccherosa melassa” di cui sopra? “Zuccherosa melassa” che ha provveduto solamente a diffondere l’idea, complici le oligarchie politiche della sinistra supine al nuovo credo del mercato globale, della storica scomparsa delle “classi sociali”  per come erano nate e per come nel tempo storico si erano andate delineando e strutturando. Poiché nulla è in verità cambiato nella contrapposizione delle classi. L’abilità più grande degli autori delle aberranti politiche sociali tanto della “destra” (che ha in fondo sempre ben svolto il suo ruolo) che della sedicente è stata quella di modificare l’approccio ai difficili problemi sociali con un linguaggio altisonante e criptico tipico della più “zuccherosa” delle “melasse”. Un esempio: la “flexsecurity”. Cosa è e cosa è stata la “flexsecurity” nei rapporti sociali e di lavoro di questi ultimi decenni? Scrive bene Alessandro Robecchi: “il solito giochetto a due fasi sulla pelle dei lavoratori”. Lo ha scritto su “il Fatto Quotidiano” del 26 di settembre 2018 - “Flexsecurity, il solito giochetto a due fasi sulla pelle dei lavoratori” -: (…). …va fatta una riflessione seria sulla sbobba che in questi anni ci hanno fatto mangiare, a pranzo e a cena, benedetta e santificata in una parolina inglese (…): flexsecurity. Per anni, più o meno dal 2009, quella della flexsecurityè stata la teoria liberista del lavoro, mutuata da suggestioni danesi (Pil una volta e mezzo il nostro, abitanti meno di un decimo), spinta dai pensatori liberal-liberisti, tradotta assai maldestramente in legge dal jobs act. Consiste, più o meno, nell’aumentare sia la flessibilità del lavoro (flex), sia la sicurezza sociale (security), con il geniale progetto, una specie di speranza con tanto di ceri alla Madonna, che la prima riesca più o meno a finanziare la seconda. Cosa che non è avvenuta. Su colpe, responsabilità, omissioni, pezze da mettere al buco si vedrà, ma preme qui affrontare un aspetto della questione un po’ più teorico e (mi scuso) filosofico. Perché entra qui in gioco una grande tradizione italiana, che potremmo chiamare il trucchetto delle due fasi. Prima fase: si chiedono sacrifici e rinunce, limature e taglio di diritti, stringere i denti, tirare la cinghia. Ma tranquilli, è solo la prima fase, poi verrà la seconda fase e vedrete che figata. Ecco, la seconda fase non arriva mai. Qualcosa si inceppa. O si sono sbagliati i calcoli. O cade un governo. O cambia la situazione internazionale. O il mercato non capisce. O l’Europa s’incazza. Insomma interviene sempre qualche fattore per cui la fase uno si fa eccome, soprattutto nella parte dei diritti tagliati e del tirare la cinghia, e la fase due… ops, mi spiace, non si può fare, non ci sono i soldi, che disdetta. Sono anni e anni che questo giochetto delle due fasi viene implacabilmente attuato sulla pelle dei lavoratori italiani, anni in cui gli si chiede di partecipare in quanto cittadini al salvataggio della baracca, rinunciando a qualcosa come garanzie o potere d’acquisto in cambio di un futuro in cui i diritti ce li avranno tutti – un po’ meno, ma tutti – e aumenterà il benessere collettivo. Mai successo. Ma mai. Ecco, mai e poi mai. Come in tutti gli scontri tra “classi sociali” che contano.

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