Un intrepido – o uno sprovveduto? – di quelli assisi
sul carro dei vincitori ed oggigiorno proni al nuovo potere ha reso nei giorni
trascorsi una dichiarazione che riporto per sommi capi: che sia sbagliato continuare
a parlare di “migranti” poiché ben altri problemi incombono e meritano ben
altra attenzione. Da far tremare i polsi anche ai più coraggiosi. Tratto
da “Gli emigrati dal Sud sono più degli
immigrati che arrivano” di Antonello Caporale, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 17 di settembre 2018: E chi glielo dice adesso a Salvini? Chi gli
dice, mentre attende operoso al respingimento dei neri d’Africa, i nuovi
invasori, che negli ultimi sedici anni circa un milione e ottocentomila
italiani sono fuggiti dalle proprie case per cercare un lavoro e un futuro
altrove? Siamo in presenza di una invasione biblica oppure del più possente
processo emigratorio dal dopoguerra ad oggi? In sedici anni abbiamo perso 288
mila giovani, il nostro futuro è scappato all’estero, per metà laureati e per
l’altra metà ragazzi in età lavorativa (15-34 anni), e il resto è andato a
cercare fortuna al nord. E il Nord regge solo grazie al Sud, perché il saldo
demografico del settentrione è appena pari in ragione dello svuotamento del
meridione e degli arrivi dall’estero, regge dunque grazie all’emigrazione
interna, allo spostamento e alla scheletrizzazione di una porzione di Paese che
solo tra trent’anni avrà un’età media altissima, sopra i 51 anni. Un grande
ospizio a cielo aperto. Sembra un effetto ottico, un paradosso del quale non ci
siamo proprio accorti. Perché ogni occhio e ogni sforzo è destinato a
fronteggiare l’immigrazione africana, e ogni polemica indirizzata alla paura di
perdere la nostra identità, le nostre ricchezze, i nostri averi. E Matteo
Salvini, da vero ministro della paura, sul tema è maestro indiscutibile.
L’Europa si sta rompendo per via della contesa sui barconi da accogliere e poi
da smistare. Muri si alzano, e intanto… Intanto siamo in presenza di una grande
e silenziosa fuga, del tutto conosciuta ma scriteriatamente negata,
sottovalutata, incompresa. Sono anni che lo Svimez (e da ultimo questo appena
pubblicato) nei suoi rapporti avverte che il Mezzogiorno di questo passo morrà
presto. L’Istat annuncia che tra qualche anno, non più di cinque, un migliaio
di paesini creperanno per inedia. E che si fa? Dovremmo andare alle frontiere e
conoscere i volti di chi parte, magari coi voli low cost, o sui bus a lunga
percorrenza, sui treni, i pochi, chiamati eurocity invece di ammassarci,
telecamere in spalla, a Lampedusa o al porto di Catania e registrare ore e ore
in favore del dramma nazionale il centinaio di disperati bloccati al molo. Non
pensiamo ai milioni che partono, non li vediamo, non c’è polizia a respingerli.
Dove vanno? Il sud si svuota e si dirige in massima parte verso il nord che
mantiene intatto il suo declino demografico, nel senso che non lo acuisce, solo
grazie a questa trasfusione di sangue nazionale. Prima gli italiani, già! Un
milione e 800 mila italiani hanno intanto lasciato casa in questi ultimi sedici
anni, ottocentomila non sono più ritornati. E, novità disperante, chi è partito
non ha più la forza economica di aiutare i parenti rimasti. Non solo non ci
sono rimesse, ma, per incredibile che possa apparire, i figli andati via spesso
hanno bisogno di un aiuto economico dei genitori o dei nonni per campare. Si
capovolge il senso dell’addio, del sacrificio verso una vita nuova. Abruzzo e
Basilicata perdono oltre il trenta per cento di chi ogni anno si laurea. E la
percentuale si fa enorme se si conta la regressione degli iscritti. Molti sono
quelli che rinunciano all’università, e dei pochi che arrivano alla laurea
tanti sono quelli che partono. La Calabria si riduce all’osso, come la Sicilia.
E cosa accade? Tre milioni di poveri, gente senza arte né parte, senza un’ora
di occupazione, abita al Sud. Seicentomila le famiglie meridionali i cui
componenti non hanno un’occupazione, nemmeno saltuaria. Ma il dato più
sconfortante è che di poveri al Nord ce ne sono quasi altri due milioni e
insieme fanno cinque i milioni dei diseredati. E altre 470 mila famiglie senza
reddito. A cui si aggiunge la gente in transito: i nuovi disperati emigranti. La
fuga dal Sud è così massiccia perché non solo non c’è più ricchezza, ma anche
la precarietà, quel regime sospeso che confina col piccolo sussidio, sta
divenendo una chimera. Il Sud ha visto sparire 580 mila iscritti all’anagrafe
ricompresi tra i 15 e i 34 anni. E dove sono andati? In dieci anni i ragazzi
che hanno perso il lavoro sono stati 311mila. E ora che fanno? Questa grande
striscia di capitale umano scompare senza che nessuno alzi la voce, si
interroghi, ponga almeno in fila i problemi. Quale il più grande?Se è vero che
non possiamo assumerci la responsabilità di dare vita e lavoro a tutti coloro
che corrono via dalla fame, dall’Africa e dagli altri territori del mondo in
guerra, è indiscutibile che senza gli stranieri i danni alla nostra economia
(l’8,9 per cento del nostro Pil, pari a quello della Slovenia, è frutto dei
nuovi lavoratori venuti dall’estero, molti con mezzi di fortuna) sarebbero più
gravi ancora, e la vita delle nostre famiglie (vogliamo fare il conto del
sostegno sociale offerto dalle badanti dell’est?) più fragile e depauperata. E
siamo sicuri che senza i clandestini, coloro a cui Salvini vorrebbe dare un
biglietto di solo ritorno, i nuovi schiavi adibiti nell’agricoltura, l’impresa
agricola avrebbe retto i prezzi miserabili stabiliti dalla grande distribuzione
a cui i produttori debbono attenersi? Salvini non lo sa, e il guaio è che
nessun altro sembra saperlo. Siamo tutti concentrati a fermare l’invasione
mentre si realizza la più spettacolare, drammatica e definitiva evasione di
massa.
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