Tratto da “L’amore
ai tempi del colera: razziale” di Helena Janeczek, pubblicato sul
settimanale Robinson del 2 di settembre 2018:
(…). La scelta dei quotidiani è limitata, gli articoli sono ottimisti se non trionfali, ma questo non toglie che anche nel 1937 un triestino possa sfogliarli come sempre, mentre aspetta la sua ordinazione. Le notizie che contano giungono raramente dalla stampa. (…). Allora, se per una volta si affacciava una novità autentica, finiva voracemente assorbita dalle chiacchiere. Nella primavera del '37 l'argomento nuovo era un ragazzo. Del suo arrivo a Trieste si era già preso nota nel corso dei mesi freddi, ma era stata giusto una nota a margine di una storia vecchia, l'epilogo di una vicenda che aveva destato scandalo ed era quindi più ghiotta da riesumare. Due anni prima, un docente del Regio Istituto Magistrale Giosuè Carducci aveva rotto, di punto in bianco, il suo fidanzamento con una ragazza della buona borghesia ebraica. La ragione del gesto mortificante, checché ne dicesse l'interessato, era scesa dal treno per sistemarsi nell'appartamento dove il professore aveva subaffittato una o due camere. Forestiero anch'esso, milanese, era arrivato - sostenevano i meglio informati - da Voghera, dove aveva ottenuto la sua prima cattedra di storia e filosofia. Il professore aveva studiato Leibnitz sui manoscritti e conosceva in originale tutto il pensiero tedesco, era dunque un vero filosofo, un adepto dell'idealismo crociano, a quanto pare benedetto da Benedetto Croce in persona. Questo era stato ribadito in sua difesa nella fase iniziale del fidanzamento, quando alcuni non avevano visto di buon occhio l'evidente motivo politico per cui era stato mandato in una scuola magistrale femminile, nonostante il "Carducci" seguitasse a onorare la sua antica fama. In città erano irredentisti anche coloro che avevano frequentato il Gymnasium. (...) Memori degli immani sacrifici compiuti in nome di Trieste, avevano plaudito l'Impresa fiumana capeggiata da D'Annunzio per trovarsi spesso a simpatizzare, chi con piena convinzione, chi per semplice amor di patria, per il Duce. Negli anni '34-35 quelle simpatie avevano da un lato ceduto al tipico pungente scetticismo, dall'altro erano state riaccese o persino portate all'incandescenza dai proclami imperialisti e, infine, dai bollettini vittoriosi che giungevano dall'Africa. Perciò era stata cosa buona che l'intuibile antifascismo del milanese risultasse riconducibile a dei motivi filosofici, alla nobiltà dello spirito, insomma, anziché a delle ideologie sovversive. Il resto dell'opera a favore del pretendente l'avevano fatto le informazioni circa la solidità economica, portando alla conclusione che un filosofo con i schéi e un'industria alle spalle non era una così malvagia acquisizione. Invece no: era tocà come le mele che finivano nello strudel. Non solo perché si era messo in casa quell'amica in difficoltà, ma perché aveva il cattivo gusto di farsi aspettare davanti alla scuola da una donna poco maggiore delle alunne. A riguardo del pessimo esempio, le signore alla Stella Polare erano state di una perentorietà non mitigabile, considerato che non poche delle figlie frequentavano il Carducci. I mariti radunati al Caffè degli Specchi preferivano tenere in considerazione che l'amante non era una semplice scappata di casa. L'avevano costretta all'esilio le leggi antiebraiche, a riprova che i tedeschi e il loro piccolo, odioso Führer erano i barbari esaltati ben noti a chiunque li avesse incontrati lassù nel Carso. Su questo c'era stata unanimità tra patrioti e nostalgici di Cecco Beppe, fascisti e non si sa, ebrei cattolici e quant'altro. Le mogli però non avevano ravvisato un'attenuante perché la profuga dovesse piombare proprio lì a prendersi il futuro e il fidanzato di una brava ragazza triestina. Nell'indulgenza maschile avevano anzi subodorato la spia di un interesse dello stesso genere, visto che l'amichetta del professore era di un'avvenenza che non passava inosservata. Lo era diventata ancora di più con il passare del tempo. L'aria salubre e il cibo buono le avevano fatto bene, il contatto con l'eleganza italiana aveva raffinato un aspetto da zingana ma scialbo e sgraziato nel vestire. Dopo le nozze si era completata la trasformazione in una bella signora triestina, salvo per l'accento tremendo alle orecchie abituate alle cadenze austriache. Però le cose si erano sistemate. Era rimasto poco da spettegolare su quei due forestieri che si erano trovati, pace e amen. (...). Questo era lo stato delle cose, quando davanti all'istituto magistrale cominciò a presentarsi quel ragazzo. Era il cognato del filosofo, il fratello minore della prussiana. Non possedeva i capelli ricci ribelli della sorella né altri tratti distintamente semitici e, per come se ne stava lì composto e palliduccio, sembrava più giovane dell'età che doveva avere. A partire da quelle notizie riportate vuoi dalle alunne del Carducci, vuoi dai fratelli che andavano all'università, dove il ragazzo si era iscritto al corso di economia del professor Fubini, le reazioni iniziarono a ribaltarsi. (...). Si raccomandava alle ragazze di non scordarsi un cenno di saluto quando lo vedevano nei pressi della scuola, ai figli maschi veniva suggerito di invitarlo a qualche giro per osterie, a parte offrigli una mano con le faccende universitarie. A febbraio-marzo una cugina del professor Fubini fu attraversata dal pensiero di mandare la ragazza slava a consegnare due vassoi con dei dolcetti per Purim, ma poi si limitò a preparare giusto la porzione destinata ai parenti. Come aveva fatto a ignorare che le sue Hammantaschen non sarebbero finite soltanto nella pancia del povero studente, ma anche sotto i denti della sorella e del cognato che alla comunità triestina avevano causato un grande dispiacere? Così, avvicinandosi alla Pasqua, la novità, che non era ormai più tale, fu scalzata definitivamente dagli impegni in vista delle festività e dei giorni di vacanza. (...) Passarono dei mesi insignificanti o, come forse li avrebbe definiti in termini freudiani il dottor Weiss, un periodo di latenza. Ma a partire dagli ultimi giorni scolastici e per tutta la durata dell'estate la città fu investita da un fenomeno in espansione, una sorta di contagio che neanche le prime tempeste autunnali riuscirono a spazzare via. Il motivo era dei più semplici. Un numero crescente di ragazze cominciò a stravedere per Alberto, come il cognato del professore si era presentato sin dall'inizio. Alberto o Albert, alla francese, visto che preferivano chiamarlo in un modo più evocativo della lieve inflessione gallica aleggiante su un italiano fin troppo fluido, si era anche lui ripreso dalle privazioni subite a Parigi e a Londra, le tappe antecedenti del suo cammino universitario. La mattina presto seguiva la sorella e la bambina al consueto stabilimento balneare per trattenersi fin dopo l'ora di pranzo e rinfrescare con qualche nuotata solitaria le sue letture. Capitava pure di vederlo su uno scoglio di Barcola, la faccia girata verso il castello di Miramare, e qualche volta, solitamente nel tardo pomeriggio, nella fila rituale per salire sulla piattaforma dei Bagni Ausonia. Non si portava dietro che un grande telo a nido d'ape, faceva un paio di tuffi di testa e a candela, si sistemava in un angolo in attesa di asciugarsi e se ne andava. Intanto le ragazze sedute ai bordi della piscina per ammirare le prodezze acrobatiche dei loro muli ne osservavano il fisico abbronzato, ma anche la copertina del libro abbandonato sull'asciugamano. Albert non leggeva manuali di statistica o tomi di filosofi tedeschi, bensì, con una concentrazione che non avrebbe lasciato presagirlo, Les Liasions dangereuses, L'éducation sentimentale, Au Bonheur des Dames. Questo offriva uno spunto di conversazione alle ragazze che, mentre lui replicava quanto ammirasse quei romanzi dell'ottocento per la loro finezza psicologica, seguitavano ad ammirarlo.
La bellezza di Alberto non aveva neanche allora qualcosa di vistoso. Nasceva dalla regolarità dei lineamenti, dal tono morbido degli occhi e dei capelli schiariti dalla salsedine, dalle proporzioni armoniche del corpo. Bisognava averci parlato più di una volta per notare la lunghezza straordinaria delle ciglia, il lieve broncio che si impadroniva delle labbra mentre era assorto e, infine, le cicatrici sull'addome troppo brutte per risalire a un intervento di appendicite. Si diffuse così la voce che Albert doveva essere stato assalito e ferito (con dei coltelli a serramanico, delle bottiglie rotte?) da una squadraccia di nazisti quando era ancora a Berlino. All'epoca nol gaveva gnanca disdoto anni, vi rendete conto? L'unico che non pareva rendersi conto del trambusto che gli si creava intorno era Alberto. Seguitava a scambiare qualche battuta garbata con le ragazze, commentava con i muli le imprese sportive triestine, ricambiava educatamente il saluto di chiunque. L'aumento esponenziale di studentesse per le ripetizioni di francese e matematica, accresciuto di qualche signora desiderosa di rimettere a nuovo un tedesco formato su von Hofmannsthal, Thomas Mann e Rilke, non gli destava nessun sospetto. Senz'altro lo preoccupava molto di più poter inviare dei risparmi a Mutti, che non aveva ancora racimolato i mezzi per sottrarsi alla Germania, e poco o nulla che una delle sue mature alunne avesse esclamato "apollineo" per descriverlo a un'amica sulla veranda del Caffè Tommaseo. Non era affar suo che i padri delle ragazze infatuate si rivolgessero ai conoscenti meglio introdotti negli affari internazionali per raccogliere informazioni su questo Berto berlinese. Scoprirono così che la famiglia era davvero delle migliori, ma purtroppo decaduta a causa della prematura morte del padre chirurgo, delle speculazioni di uno zio sposato con la famosa attrice Tilla Durieux e, in ultimo, della raffica di vessazioni seguite alle leggi razziali. Dell'eventualità che il ragazzo avrebbe portato in dote solo la sua testa brillante e le sue maniere principesche, dovevano insomma ringraziare i cofe di razza ariana! Con la riapertura delle scuole, gran parte delle ragazze, fedeli al pragmatismo triestino, si rassegnarono che Alberto non ricambiasse le loro attenzioni e si trovarono degli altri candidati per andare a ballare o godersi le serate fresche in osmiza. Ma erano rimaste un paio che ne stavano facendo una malattia. L'abbattimento cronico di quelle un tempo sane e prosperose figlie cominciava essere percepito come un affronto dalle madri tornate alla Stella Polare, ma anche dai padri riuniti al Caffè degli Specchi. Sarebbe stato il caso di mandare una bella muleta sul lettino dello psicoanalista? Ma per favore! L'ossessione amorosa però rimane sorda ai ragionamenti e ai castighi, persino alle vacanze di Natale a Firenze con licenza di fare incetta di guanti e colli di pelliccia in Via dè Tornabuoni. Più ci si industria a crearle terra bruciata, più trova il modo di acquattarsi in una supposta acquiescenza con cui si sottrae a ogni controllo. Accadde così che, mentre la tal signora portava in seduta psicoanalitica il verso "Ein jeder Engel ist schrecklich" per scoprire sollevata che l'angelo terribile della prima Elegia duinese puntava a un ricorrente desiderio edipico frustrato dall'assenza di figli maschi, la sua secondogenita, che aveva a malapena aperto con "buongiorno" e "arrivederci" all'insegnante di tedesco, se ne stava nascosta nell'ingresso di un palazzo di via San Niccolò, aspettando che Alberto si recasse alla libreria antiquaria Saba. Si piazzava lì con la pioggia battente e con il vento che la obbligava a premere una mano sul cappello, nell'altra teneva pronto il fazzoletto per soffiarsi il naso gocciolante. A volte Albert non arrivava proprio, altre volte si fermava fino alla chiusura della libreria o può darsi oltre, ma lei non poteva trattenersi così a lungo. Per fortuna, gli appostamenti vennero notati dal gioielliere Janesich che aveva il negozio quasi di fronte e che, una volta incontrato il padre, decise di metterlo al corrente dell'incresciosa situazione. Per delicatezza aspettò di prenderlo da parte quando, usciti dal caffè, attraversarono la piazza, di modo che l'altro cominciò a paventare il tipo di favore suggerito dalle insegne del Lloyd Adriatico e delle Generali. L'aria soffiava gelida dal mare e il gioielliere non intendeva tirarla lunga con quella faccenda su cui non aveva più alcun dubbio. Disse all'amico che sua fia s'infilava sempre nei portoni adiacenti alla libreria Saba, mentre quel mona d'un tedesco di cui si era incapricciata non se ne sarebbe accorto neanche se fosse diventata un ghiacciolo. I casi erano due: o il ragazzo stava lì dentro a tramar cose di politica che era meglio non indovinare, o l'altro... Il padre impallidì, abbozzò, strinse la mano del gioielliere con la promessa che avrebbe sistemato subito la faccenda, anche a papini se occorreva, e con passo deciso e bavero alzato girò le spalle a piazza Unità. Appena entrato a casa andò dritto in camera della figlia, piazzandosi davanti alla porta per riferirle tutto quanto e, mentre quella già voleva morire di vergogna, assestò il colpo finale: quell'Albert conveniva chiamarlo Albertine, come l'eroina di un romanzo francese amato dalla madre. Eliminata così l'ultima spasimante, la nomea di Alberto fu nondimeno riabilitata in primavera. Era da mesi che diradava le lezioni private perché dei viaggi di ricerca lo riportavano sempre più spesso nella città dove aveva ultimato il primo ciclo di studi. Non voleva riscriversi a Parigi, no. A dire il vero, una ragione del suo andirivieni era di natura privata, confidava alle alunne più fedeli. "Die Liebe, wenn ich fragen darf?". "Jaaa..." confermò e, con un sorriso schiettamente timido, estrasse dal portafoglio una fotografia della fidanzata parigina. "Ah so!". A maggio, quando l'Italia accolse la visita di Hitler, Alberto era tappato nella biblioteca dell'Università di Trieste a finire la tesi su Il franco Poincaré e la sua svalutazione. La discute il 27 giugno 1938, laureandosi con il massimo dei voti senza la lode. Chissà se qualche membro della commissione l'avesse trovata immeritevole dello studente o piuttosto del suo relatore, entrambi discutibili sotto il profilo della razza. Renzo Fubini, allievo di Luigi Einaudi, verrà arrestato grazie a una delazione nel '43 a Ivrea e ucciso ad Auschwitz nel '44. Il mese di luglio, Alberto lo trascorre con il cognato, la sorella e la bambina in villeggiatura sulle Dolomiti. Tornato in città, prepara la valigia con le fodere segrete per trasportare le pubblicazioni antifasciste con cui era solito andare e tornare da Parigi. Sistema uno dei suoi romanzi preferiti sopra gli indumenti ben piegati, prende il passaporto che lo qualifica come Otto Albert Hirschmann, tedesco di confessione luterana, saluta e si avvia alla stazione. Il 3 settembre il cognato gli scrive rallegrandosi che sia giunto a Parigi sano e salvo e lo riempie di raccomandazioni. Gli consiglia di sposare quella ragazza e di trovarsi un lavoro con cui guadagnare così tanto da poterlo ospitare in un prossimo futuro. L'8 settembre il mittente della lettera viene arrestato dall'OVRA e tradotto nel carcere di Varese, prima stazione di una persecuzione politica e razziale che conduce Eugenio Colorni al confino a Ventotene e alla morte per mano fascista il 30 maggio 1944, a Roma. All'arrivo della V Armata statunitense mancano cinque giorni. Il 18 settembre 1938 Benito Mussolini annuncia dal palco di piazza Unità alla folla triestina in tripudio che per risolvere il "problema ebraico" occorre "una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime". D'ora in avanti le leggi in difesa della razza impattano nel Caffè degli Specchi come nella Stella Polare. Questa è la storia vera. Il resto non erano che ciacole e fantasie a piede libero, buone al massimo per non farsene schiacciare.
(…). La scelta dei quotidiani è limitata, gli articoli sono ottimisti se non trionfali, ma questo non toglie che anche nel 1937 un triestino possa sfogliarli come sempre, mentre aspetta la sua ordinazione. Le notizie che contano giungono raramente dalla stampa. (…). Allora, se per una volta si affacciava una novità autentica, finiva voracemente assorbita dalle chiacchiere. Nella primavera del '37 l'argomento nuovo era un ragazzo. Del suo arrivo a Trieste si era già preso nota nel corso dei mesi freddi, ma era stata giusto una nota a margine di una storia vecchia, l'epilogo di una vicenda che aveva destato scandalo ed era quindi più ghiotta da riesumare. Due anni prima, un docente del Regio Istituto Magistrale Giosuè Carducci aveva rotto, di punto in bianco, il suo fidanzamento con una ragazza della buona borghesia ebraica. La ragione del gesto mortificante, checché ne dicesse l'interessato, era scesa dal treno per sistemarsi nell'appartamento dove il professore aveva subaffittato una o due camere. Forestiero anch'esso, milanese, era arrivato - sostenevano i meglio informati - da Voghera, dove aveva ottenuto la sua prima cattedra di storia e filosofia. Il professore aveva studiato Leibnitz sui manoscritti e conosceva in originale tutto il pensiero tedesco, era dunque un vero filosofo, un adepto dell'idealismo crociano, a quanto pare benedetto da Benedetto Croce in persona. Questo era stato ribadito in sua difesa nella fase iniziale del fidanzamento, quando alcuni non avevano visto di buon occhio l'evidente motivo politico per cui era stato mandato in una scuola magistrale femminile, nonostante il "Carducci" seguitasse a onorare la sua antica fama. In città erano irredentisti anche coloro che avevano frequentato il Gymnasium. (...) Memori degli immani sacrifici compiuti in nome di Trieste, avevano plaudito l'Impresa fiumana capeggiata da D'Annunzio per trovarsi spesso a simpatizzare, chi con piena convinzione, chi per semplice amor di patria, per il Duce. Negli anni '34-35 quelle simpatie avevano da un lato ceduto al tipico pungente scetticismo, dall'altro erano state riaccese o persino portate all'incandescenza dai proclami imperialisti e, infine, dai bollettini vittoriosi che giungevano dall'Africa. Perciò era stata cosa buona che l'intuibile antifascismo del milanese risultasse riconducibile a dei motivi filosofici, alla nobiltà dello spirito, insomma, anziché a delle ideologie sovversive. Il resto dell'opera a favore del pretendente l'avevano fatto le informazioni circa la solidità economica, portando alla conclusione che un filosofo con i schéi e un'industria alle spalle non era una così malvagia acquisizione. Invece no: era tocà come le mele che finivano nello strudel. Non solo perché si era messo in casa quell'amica in difficoltà, ma perché aveva il cattivo gusto di farsi aspettare davanti alla scuola da una donna poco maggiore delle alunne. A riguardo del pessimo esempio, le signore alla Stella Polare erano state di una perentorietà non mitigabile, considerato che non poche delle figlie frequentavano il Carducci. I mariti radunati al Caffè degli Specchi preferivano tenere in considerazione che l'amante non era una semplice scappata di casa. L'avevano costretta all'esilio le leggi antiebraiche, a riprova che i tedeschi e il loro piccolo, odioso Führer erano i barbari esaltati ben noti a chiunque li avesse incontrati lassù nel Carso. Su questo c'era stata unanimità tra patrioti e nostalgici di Cecco Beppe, fascisti e non si sa, ebrei cattolici e quant'altro. Le mogli però non avevano ravvisato un'attenuante perché la profuga dovesse piombare proprio lì a prendersi il futuro e il fidanzato di una brava ragazza triestina. Nell'indulgenza maschile avevano anzi subodorato la spia di un interesse dello stesso genere, visto che l'amichetta del professore era di un'avvenenza che non passava inosservata. Lo era diventata ancora di più con il passare del tempo. L'aria salubre e il cibo buono le avevano fatto bene, il contatto con l'eleganza italiana aveva raffinato un aspetto da zingana ma scialbo e sgraziato nel vestire. Dopo le nozze si era completata la trasformazione in una bella signora triestina, salvo per l'accento tremendo alle orecchie abituate alle cadenze austriache. Però le cose si erano sistemate. Era rimasto poco da spettegolare su quei due forestieri che si erano trovati, pace e amen. (...). Questo era lo stato delle cose, quando davanti all'istituto magistrale cominciò a presentarsi quel ragazzo. Era il cognato del filosofo, il fratello minore della prussiana. Non possedeva i capelli ricci ribelli della sorella né altri tratti distintamente semitici e, per come se ne stava lì composto e palliduccio, sembrava più giovane dell'età che doveva avere. A partire da quelle notizie riportate vuoi dalle alunne del Carducci, vuoi dai fratelli che andavano all'università, dove il ragazzo si era iscritto al corso di economia del professor Fubini, le reazioni iniziarono a ribaltarsi. (...). Si raccomandava alle ragazze di non scordarsi un cenno di saluto quando lo vedevano nei pressi della scuola, ai figli maschi veniva suggerito di invitarlo a qualche giro per osterie, a parte offrigli una mano con le faccende universitarie. A febbraio-marzo una cugina del professor Fubini fu attraversata dal pensiero di mandare la ragazza slava a consegnare due vassoi con dei dolcetti per Purim, ma poi si limitò a preparare giusto la porzione destinata ai parenti. Come aveva fatto a ignorare che le sue Hammantaschen non sarebbero finite soltanto nella pancia del povero studente, ma anche sotto i denti della sorella e del cognato che alla comunità triestina avevano causato un grande dispiacere? Così, avvicinandosi alla Pasqua, la novità, che non era ormai più tale, fu scalzata definitivamente dagli impegni in vista delle festività e dei giorni di vacanza. (...) Passarono dei mesi insignificanti o, come forse li avrebbe definiti in termini freudiani il dottor Weiss, un periodo di latenza. Ma a partire dagli ultimi giorni scolastici e per tutta la durata dell'estate la città fu investita da un fenomeno in espansione, una sorta di contagio che neanche le prime tempeste autunnali riuscirono a spazzare via. Il motivo era dei più semplici. Un numero crescente di ragazze cominciò a stravedere per Alberto, come il cognato del professore si era presentato sin dall'inizio. Alberto o Albert, alla francese, visto che preferivano chiamarlo in un modo più evocativo della lieve inflessione gallica aleggiante su un italiano fin troppo fluido, si era anche lui ripreso dalle privazioni subite a Parigi e a Londra, le tappe antecedenti del suo cammino universitario. La mattina presto seguiva la sorella e la bambina al consueto stabilimento balneare per trattenersi fin dopo l'ora di pranzo e rinfrescare con qualche nuotata solitaria le sue letture. Capitava pure di vederlo su uno scoglio di Barcola, la faccia girata verso il castello di Miramare, e qualche volta, solitamente nel tardo pomeriggio, nella fila rituale per salire sulla piattaforma dei Bagni Ausonia. Non si portava dietro che un grande telo a nido d'ape, faceva un paio di tuffi di testa e a candela, si sistemava in un angolo in attesa di asciugarsi e se ne andava. Intanto le ragazze sedute ai bordi della piscina per ammirare le prodezze acrobatiche dei loro muli ne osservavano il fisico abbronzato, ma anche la copertina del libro abbandonato sull'asciugamano. Albert non leggeva manuali di statistica o tomi di filosofi tedeschi, bensì, con una concentrazione che non avrebbe lasciato presagirlo, Les Liasions dangereuses, L'éducation sentimentale, Au Bonheur des Dames. Questo offriva uno spunto di conversazione alle ragazze che, mentre lui replicava quanto ammirasse quei romanzi dell'ottocento per la loro finezza psicologica, seguitavano ad ammirarlo.
La bellezza di Alberto non aveva neanche allora qualcosa di vistoso. Nasceva dalla regolarità dei lineamenti, dal tono morbido degli occhi e dei capelli schiariti dalla salsedine, dalle proporzioni armoniche del corpo. Bisognava averci parlato più di una volta per notare la lunghezza straordinaria delle ciglia, il lieve broncio che si impadroniva delle labbra mentre era assorto e, infine, le cicatrici sull'addome troppo brutte per risalire a un intervento di appendicite. Si diffuse così la voce che Albert doveva essere stato assalito e ferito (con dei coltelli a serramanico, delle bottiglie rotte?) da una squadraccia di nazisti quando era ancora a Berlino. All'epoca nol gaveva gnanca disdoto anni, vi rendete conto? L'unico che non pareva rendersi conto del trambusto che gli si creava intorno era Alberto. Seguitava a scambiare qualche battuta garbata con le ragazze, commentava con i muli le imprese sportive triestine, ricambiava educatamente il saluto di chiunque. L'aumento esponenziale di studentesse per le ripetizioni di francese e matematica, accresciuto di qualche signora desiderosa di rimettere a nuovo un tedesco formato su von Hofmannsthal, Thomas Mann e Rilke, non gli destava nessun sospetto. Senz'altro lo preoccupava molto di più poter inviare dei risparmi a Mutti, che non aveva ancora racimolato i mezzi per sottrarsi alla Germania, e poco o nulla che una delle sue mature alunne avesse esclamato "apollineo" per descriverlo a un'amica sulla veranda del Caffè Tommaseo. Non era affar suo che i padri delle ragazze infatuate si rivolgessero ai conoscenti meglio introdotti negli affari internazionali per raccogliere informazioni su questo Berto berlinese. Scoprirono così che la famiglia era davvero delle migliori, ma purtroppo decaduta a causa della prematura morte del padre chirurgo, delle speculazioni di uno zio sposato con la famosa attrice Tilla Durieux e, in ultimo, della raffica di vessazioni seguite alle leggi razziali. Dell'eventualità che il ragazzo avrebbe portato in dote solo la sua testa brillante e le sue maniere principesche, dovevano insomma ringraziare i cofe di razza ariana! Con la riapertura delle scuole, gran parte delle ragazze, fedeli al pragmatismo triestino, si rassegnarono che Alberto non ricambiasse le loro attenzioni e si trovarono degli altri candidati per andare a ballare o godersi le serate fresche in osmiza. Ma erano rimaste un paio che ne stavano facendo una malattia. L'abbattimento cronico di quelle un tempo sane e prosperose figlie cominciava essere percepito come un affronto dalle madri tornate alla Stella Polare, ma anche dai padri riuniti al Caffè degli Specchi. Sarebbe stato il caso di mandare una bella muleta sul lettino dello psicoanalista? Ma per favore! L'ossessione amorosa però rimane sorda ai ragionamenti e ai castighi, persino alle vacanze di Natale a Firenze con licenza di fare incetta di guanti e colli di pelliccia in Via dè Tornabuoni. Più ci si industria a crearle terra bruciata, più trova il modo di acquattarsi in una supposta acquiescenza con cui si sottrae a ogni controllo. Accadde così che, mentre la tal signora portava in seduta psicoanalitica il verso "Ein jeder Engel ist schrecklich" per scoprire sollevata che l'angelo terribile della prima Elegia duinese puntava a un ricorrente desiderio edipico frustrato dall'assenza di figli maschi, la sua secondogenita, che aveva a malapena aperto con "buongiorno" e "arrivederci" all'insegnante di tedesco, se ne stava nascosta nell'ingresso di un palazzo di via San Niccolò, aspettando che Alberto si recasse alla libreria antiquaria Saba. Si piazzava lì con la pioggia battente e con il vento che la obbligava a premere una mano sul cappello, nell'altra teneva pronto il fazzoletto per soffiarsi il naso gocciolante. A volte Albert non arrivava proprio, altre volte si fermava fino alla chiusura della libreria o può darsi oltre, ma lei non poteva trattenersi così a lungo. Per fortuna, gli appostamenti vennero notati dal gioielliere Janesich che aveva il negozio quasi di fronte e che, una volta incontrato il padre, decise di metterlo al corrente dell'incresciosa situazione. Per delicatezza aspettò di prenderlo da parte quando, usciti dal caffè, attraversarono la piazza, di modo che l'altro cominciò a paventare il tipo di favore suggerito dalle insegne del Lloyd Adriatico e delle Generali. L'aria soffiava gelida dal mare e il gioielliere non intendeva tirarla lunga con quella faccenda su cui non aveva più alcun dubbio. Disse all'amico che sua fia s'infilava sempre nei portoni adiacenti alla libreria Saba, mentre quel mona d'un tedesco di cui si era incapricciata non se ne sarebbe accorto neanche se fosse diventata un ghiacciolo. I casi erano due: o il ragazzo stava lì dentro a tramar cose di politica che era meglio non indovinare, o l'altro... Il padre impallidì, abbozzò, strinse la mano del gioielliere con la promessa che avrebbe sistemato subito la faccenda, anche a papini se occorreva, e con passo deciso e bavero alzato girò le spalle a piazza Unità. Appena entrato a casa andò dritto in camera della figlia, piazzandosi davanti alla porta per riferirle tutto quanto e, mentre quella già voleva morire di vergogna, assestò il colpo finale: quell'Albert conveniva chiamarlo Albertine, come l'eroina di un romanzo francese amato dalla madre. Eliminata così l'ultima spasimante, la nomea di Alberto fu nondimeno riabilitata in primavera. Era da mesi che diradava le lezioni private perché dei viaggi di ricerca lo riportavano sempre più spesso nella città dove aveva ultimato il primo ciclo di studi. Non voleva riscriversi a Parigi, no. A dire il vero, una ragione del suo andirivieni era di natura privata, confidava alle alunne più fedeli. "Die Liebe, wenn ich fragen darf?". "Jaaa..." confermò e, con un sorriso schiettamente timido, estrasse dal portafoglio una fotografia della fidanzata parigina. "Ah so!". A maggio, quando l'Italia accolse la visita di Hitler, Alberto era tappato nella biblioteca dell'Università di Trieste a finire la tesi su Il franco Poincaré e la sua svalutazione. La discute il 27 giugno 1938, laureandosi con il massimo dei voti senza la lode. Chissà se qualche membro della commissione l'avesse trovata immeritevole dello studente o piuttosto del suo relatore, entrambi discutibili sotto il profilo della razza. Renzo Fubini, allievo di Luigi Einaudi, verrà arrestato grazie a una delazione nel '43 a Ivrea e ucciso ad Auschwitz nel '44. Il mese di luglio, Alberto lo trascorre con il cognato, la sorella e la bambina in villeggiatura sulle Dolomiti. Tornato in città, prepara la valigia con le fodere segrete per trasportare le pubblicazioni antifasciste con cui era solito andare e tornare da Parigi. Sistema uno dei suoi romanzi preferiti sopra gli indumenti ben piegati, prende il passaporto che lo qualifica come Otto Albert Hirschmann, tedesco di confessione luterana, saluta e si avvia alla stazione. Il 3 settembre il cognato gli scrive rallegrandosi che sia giunto a Parigi sano e salvo e lo riempie di raccomandazioni. Gli consiglia di sposare quella ragazza e di trovarsi un lavoro con cui guadagnare così tanto da poterlo ospitare in un prossimo futuro. L'8 settembre il mittente della lettera viene arrestato dall'OVRA e tradotto nel carcere di Varese, prima stazione di una persecuzione politica e razziale che conduce Eugenio Colorni al confino a Ventotene e alla morte per mano fascista il 30 maggio 1944, a Roma. All'arrivo della V Armata statunitense mancano cinque giorni. Il 18 settembre 1938 Benito Mussolini annuncia dal palco di piazza Unità alla folla triestina in tripudio che per risolvere il "problema ebraico" occorre "una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime". D'ora in avanti le leggi in difesa della razza impattano nel Caffè degli Specchi come nella Stella Polare. Questa è la storia vera. Il resto non erano che ciacole e fantasie a piede libero, buone al massimo per non farsene schiacciare.
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