Tratto da “Scoprirsi
clandestino per caso in Oregon” di Vittorio Zucconi, pubblicato sul
settimanale D del 17 di settembre dell’anno 2016: All'età di trentadue anni, stanco
del proprio monotono lavoro da commesso in un grande magazzino dell'Oregon,
Justin Hong decise di fare il salto verso una vita più gratificante. Dopo il
liceo e l'università, Justin aveva seguito corsi di informatica prima nel tempo
libero e poi, in maniera più organizzata, studi online presso un college che
offriva master nella sua materia. Armato del diploma si presentò in un'azienda
di Portland che fornisce servizi di sicurezza informatica e il colloquio andò
benissimo. Fu soltanto al momento delle formalità per il contratto che la
verità si rovesciò sulla testa di Justin Hong come quei secchi di acqua gelata
che fecero furore due estati or sono per beneficenza: tu, gli disse l'ufficio
personale, non sei cittadino americano. Non sei neppure un residente legale. Tu
non esisti. Per trent'anni, da quando una coppia di americani lo aveva
prelevato da un orfanatrofio di Seul quando aveva due anni e lo aveva portato
con sé nell'Oregon, Justin Hong aveva dato per scontato che lui, come figlio
legalmente adottato, fosse diventato americano quanto i nuovi genitori. I suoi
gli avevano fatto avere il numero di Sicurezza sociale, l'equivalente del
nostro codice fiscale. Aveva frequentato ogni ordine e grado di scuola,
dall'asilo fino all'università. Aveva preso la patente di guida. Aveva pagato
le tasse. Si era arruolato nell'Esercito, prestando servizio in Kuwait ed era
stato congedato con onore. E mai nessuno, nelle scuole, nel Comune, nel grande
magazzino che lo aveva regolarmente assunto e neppure al Pentagono che lo aveva
messo in uniforme, si era mai preso la briga di verificare se quel ragazzo, poi
quell'uomo che parlava senza alcun accento straniero non avendo mai appreso
alcuna altra lingua che non fosse quella di genitori, amici, insegnanti, fosse
americano. Ma nemmeno il padre e la madre adottivi, degnissime persone oggi
scomparse che credevano di avere compilato tutti i formulari e triplicato tutte
le copie, si erano mai preoccupati di scoprire se l'adozione avrebbe
automaticamente fatto di lui un cittadino Usa, come sarebbe stato nel caso di
un figlio naturale. Nella melmosa vaghezza delle mutevoli leggi
sull'immigrazione, nella foresta amazzonica della burocrazia indifferente, la
vita di Justin Hong era scivolata via nell'ignoranza. Fino alla diga di
un'azienda scrupolosa che, impegnata nel mondo della sicurezza informatica, e
attenta a leggi - in teoria - durissime con chi assume "clandestini",
gli aveva chiesto dove fosse nato - in Corea - e quando fosse stato
naturalizzato cittadino Usa. Cioè mai. Sono 18mila soltanto i coreani d'origine
da anni residenti negli Stati Uniti senza avere uno "status" legale,
soltanto perché chi li adottò, negli anni in cui la Corea, ancora povera, era
una fonte ricchissima di bambini, non aveva pensato che i suoi figli sarebbero
rimasti "clandestini". L'associazione legale che li rappresenta e sta
spingendo per una sanatoria non solo di coreani, ma di iraniani, brasiliani,
vietnamiti, cinesi, rumeni e altri adottati e mai divenuti formalmente
cittadini per l'equivoco di legge, ha ricostruito i casi di persone che, per
avere commesso piccoli reati, o per essere stati coinvolti in incidenti
stradali, sono stati deportati nelle nazioni di origine. Una coreana, medico
radiologo in un ospedale del Texas, oggi vive della carità di una famiglia di
lontani parenti a Seul, dove fu prelevata quando aveva sei mesi, cercando di
imparare una lingua che non hai parlato. Un altro ex militare, convinto che il
servizio nella US Army avrebbe certificato la cittadinanza della nazione per la
quale ha combattuto, vive da clochard sotto i ponti di Seul, anche lui senza
conoscere una parola di coreano. Justin,come altri 18 mila, come decine di
migliaia di altri come lui, vive nel terrore di sentir bussare alla porta e di
essere rispedito in una nazione che è teoricamente la sua patria e che non
conosce. Trema al pensiero che il nuovo capo dello Stato mantenga l'impegno
preso con i suoi elettori e deporti chiunque non abbia un pezzo di carta per
certificare quello che lui è da trent'anni. Un cittadino, tanto americano
quanto chi lo vorrebbe cacciare.
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