"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 22 ottobre 2017

Lalinguabatte. 40 “Essere e vivere senza vergogna”.



Potrebbe essere un “calembour”, insomma, un bisticcio di parole. Ma il bel pezzo che ha per titolo “Il peccato di essere senza vergogna” di Gianrico Carofiglio, magistrato e scrittore nell’ordine, pubblicato tempo addietro – il 28 di luglio dell’anno 2009 - sul quotidiano “la Repubblica”, e che di seguito trascrivo in parte, ha il pregio di una scrittura veramente straordinaria che si accompagna ad un argomentare che lascia una traccia indelebile. E di questi tempi confusi assai tutto ciò rappresenta un quasi “miracolo”. O meglio, un “miracolo” pieno. Ove non si parla della “vergogna” “tout court”, come in un puro esercizio letterario, un “divertissement” per palati fini, ma di quell’umanissima capacità o incapacità, a seconda dei casi, di provarne o non provarne il morso profondo. È pur vero che un tempo, forse ancora non trascorso del tutto, con il termine di “vergogna”, anzi meglio al plurale le “vergogne” si faceva pudicamente, ma non tanto, riferimento a ben altre cose, ovvero alle cosiddette umane “pudenda”. – Si copriva le “vergogne” -, - “Vergogna”, copriti! – ed oltre, con un andazzo sessuofobico degno delle migliori tradizioni mortificatorie dei corpi, e non solo, imperversante nel bel paese. Nel bel pezzo dell’illustre Autore la “vergogna” invece assurge a figura massima, quasi sublime, della conquistata consapevolezza dell’Io, della ragionevolezza dell’umano, della non innata ansia di migliorarsi. Ché se fosse innata, quell’ansia, abiteremmo il più bello dei mondi possibili ed immaginabili. Penso, ma non posso esserne certo, che l’illustre Autore abbia preso lo spunto, per il Suo pregevolissimo lavoro, dalle cronache dei tristi giorni nostri. Ove capita di ascoltare reggitori della cosa pubblica farsi gloria e vanto delle dissennatezze proprie, anzi, con la tracotanza propria dei tirannelli di altre stagioni infauste della Storia, osannarsi senza tema di impaludarsi – ricordate del rospo che volendo competere con un animale più grosso si gonfiò sino a scoppiarne? – come figura mitica e di belle e degne imprese, alla quale figura aspirerebbe somigliare, se non la totalità dei sottoposti concittadini, la grande maggioranza di essi. Non sostengo, ora e qui, che il provare il morso profondo della vergogna dovrebbe essere come un appannaggio degli uomini grandi che fanno la Storia. Un qualcosa da portare in “dote” quasi, che renda quel tale essere, che ha dell’umano, degno di divenire reggitore della cosa pubblica. Mi guardo bene dall’incorrere in un simile abbaglio. E non già infatti di una “dote” da impegnare nella cosa pubblica dovremmo intenderla, quanto del dovere ineludibile di provare vergogna delle proprie scelleratezze e dissennatezze tanto in alto quanto in basso nella scala del sociale. Indistintamente. Sono convinto invece, e ne ho prove inoppugnabili, ed il tempo lungo che ho già vissuto è lì a darmene una ragione, che si provi più vergogna al basso che non nelle alte cerchia dei reggitori della cosa pubblica, ché se fosse al contrario, ben pochi avrebbero resistito tanto sul proscenio del malaffare. Vengo anche a dire che provare vergogna è un “affaire” complicato assai. Se ne potrebbero trarre motivi e ragioni da un sincero ed introiettato credo religioso, per la qualcosa in verità dubito assai, al lume della mia esperienza di vita; o provare vergogna delle proprie malefatte  e dissennatezze per la paura di una paventata punizione a venire in una ipotetica vita ultraterrena, la qualcosa ancora avrebbe il sapore amarissimo del “do ut des”  tra il singolo umano e l’onnipotente di turno. O più semplicemente, e laicamente, provare il morso profondo della vergogna in virtù di una legge morale che scavi dentro agli individui, incessantemente e silenziosamente, e che al momento opportuno scandisca inequivocabilmente le sue inderogabili prescrizioni. Senza un dare ed un avere. Possibile? Difficile a dirsi. Ma non impossibile a provarci ed a contarci. In un domani diverso, forse. Lontano assai. Scriveva Elsa Morante, nell’anno 1945, a proposito di un “cavaliere d’Italia”, al secolo Benito Mussolini, finito miseramente e tragicamente in quel di piazzale Loreto:
Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbe meritato la condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo. Perché il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini? Una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e tornaconto personale. La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto che al giusto. Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie sempre il tornaconto. Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei. Presso un popolo onesto, sarebbe stato tutt'al più il leader di un partito di modesto seguito, un personaggio un po' ridicolo per le sue maniere, i suoi atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della gente e causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il capo del governo. Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano. Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di famiglia, ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile, e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole rappresentare. Ha critto il 28 di luglio dell’anno 2009 il Carofiglio: (…). Proviamo a restituire senso alla parola vergogna. Nell' accezione che qui ci interessa la vergogna corrisponde al sentimento di colpa o di mortificazione che si prova per un atto o un comportamento sentiti come disonesti, sconvenienti, indecenti, riprovevoli. È una parola da ultimo molto utilizzata al negativo: per escludere, sempre e comunque, di avere alcuna ragione di vergogna o per intimare agli avversari - di regola con linguaggio e toni violenti - di vergognarsi. La forma verbale vergognatevi è oggi spesso utilizzata nei confronti di giornalisti che fanno il loro lavoro raccogliendo notizie, formulando domande e informando il pubblico. Sembra dunque che vergognoso sia vergognarsi. La vergogna e la capacità di provarla appaiono qualcosa da allontanare da sé, una sorta di ripugnante patologia dalla quale tenersi il più possibile lontani. Sulla questione Blaise Pascal la pensava diversamente, attribuendo alla capacità di provare vergogna una funzione importante nell'equilibrio umano. Nei Pensieri leggiamo infatti che «non c' è vergogna se non nel non averne». In tale prospettiva è interessante soffermarsi sull'elencazione, che possiamo trovare in qualsiasi dizionario, dei contrari della parola. Troviamo parole come cinismo, impudenza, protervia, sfacciataggine, sfrontatezza, sguaiataggine, spudoratezza, svergognatezza. Volendo trarre una prima conclusione, si potrebbe dunque dire che il non provare mai vergogna, cioè il non esserne capaci, è patologia caratteriale tipica di soggetti cinici, protervi, sfacciati, spudorati. Al contrario, la capacità di provare vergogna costituisce un fondamentale meccanismo di sicurezza morale, allo stesso modo in cui il dolore fisiologico è un meccanismo che mira a garantire la salute fisica. Il dolore fisiologico è un sintomo che serve a segnalare l'esistenza di una patologia in modo che sia possibile contrastarla con le opportune terapie. La ritardata o mancata percezione del dolore fisiologico è molto pericolosa e implica l'elevato rischio di accorgersi troppo tardi di gravi malattie del corpo. Così come il dolore, la vergogna è un sintomo, e chi non è capace di provarla - siano singoli o collettività - rischia di scoprire troppo tardi di avere contratto una grave malattia della civilizzazione. Qualsiasi professionista della salute mentale potrebbe dirci che le esperienze vergognose, quando vengono accettate, accrescono la consapevolezza e la capacità di miglioramento, e in definitiva costituiscono fattori di crescita. Quando invece esse vengono negate o rimosse, provocano lo sviluppo di meccanismi difensivi che isolano progressivamente dall'esterno, inducono a respingere ogni elemento dissonante rispetto alla propria patologica visione del mondo, e così attenuano il principio di realtà fino ad abolirlo del tutto. Come ha osservato una studiosa di questi temi - Francesca Rigotti - l'azione del vergognarsi è solo intransitiva e non può mai essere applicata a un altro. Io posso umiliare qualcuno ma non posso vergognare nessuno. Sono io che mi vergogno, in conseguenza di una mia azione che avverto come riprovevole. Pertanto la capacità di provare vergogna ha fondamentalmente a che fare con il principio di responsabilità e dunque con la questione cruciale della dignità. (…). …è davvero interessante registrare cosa dice della vergogna Aristotele nell'Etica Nicomachea. «La vergogna non si confà a ogni età, ma alla giovinezza. Noi infatti pensiamo che i giovani devono essere pudichi per il fatto che, vivendo sotto l'influsso della passione, sbagliano, e lodiamo quelli tra i giovani che sono pudichi, ma nessuno loderebbe un vecchio perché è incline al pudore, giacché pensiamo che egli non deve compiere nessuna delle cose per le quali si ha da vergognarsi».

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