"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 25 ottobre 2017

Paginatre. 99 “Stefano Rodotà ed il diritto di avere diritti”.


Da “Rodotà, giurista che metteva la persona sopra le regole” di Gustavo Zagrebelsky, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 2 di ottobre 2017: (…). Che cosa è la Costituzione se ogni questione di diritto costituzionale alimenta le opinioni più diverse in contrasto le une con le altre e motivate da finalità divergenti? La conseguenza è una sola: la Costituzione sparisce e nella lotta politica, che dovrebbe trovarvi la sua regola, prevalgono gli interessi politici di breve durata. Chiunque, per quasi qualsiasi buona o cattiva azione, trova il parere del costituzionalista, talora il “parere pro veritate”, che gli conviene. Non so perché l’essere “costituzionalisti” goda d’un certo plusvalore presso i formatori della pubblica opinione. Stefano Rodotà era spesso definito tale ma, tutte le volte che poteva, reagiva con un piccolo sorriso sardonico: non costituzionalista, non sum dignus sembrava sottintendere con un poco d’ironia, ma civilista. Insomma, sembrava volesse marcare una distanza e non confondersi rispetto a un mondo che, da questi anni, è andato disgregandosi e contribuendo alla confusione. (…). Il percorso intellettuale di Stefano Rodotà è particolarmente significativo. È stato giurista al di sopra delle classificazioni disciplinari. Aggiungo: giurista non totalizzante, non fanatico delle cosiddette “regole”. Sapeva benissimo che al di là del diritto c’è molto altro che guida più o meno degnamente le condotte umane: cultura, etica, interessi. C’è, del 2006, un suo libro che mi pare dovrebbe essere letto e meditato di più di quanto lo sia stato. S’intitola La vita e le regole. Tra diritto e non diritto. Non tratta soltanto degli aspetti giuridici di ciò che da qualche anno si usa definire “la nuda vita”; tratta dei limiti del diritto, dei pericoli del guardare il mondo solo con occhi del giurista, dell’illusione di credere che il mondo stia in piedi perché c’è il diritto e ci sono i giuristi. I suoi studi sul concetto di “persona” dicono quanto è sbagliato considerare la persona solo come “persona giuridica”, cioè come fascio, punto d’imputazione di diritti e di doveri, secondo la concezione kelseniana. Fatta questa delimitazione delle pretese del diritto, tra ciò che rientra nel suo ambito, è oggi impossibile costruire steccati. Stefano è stato un illustre civilista ma, evidentemente, non soltanto. Consultiamo i temi delle sue opere maggiori, seguendone i percorsi. All’inizio stanno due libri su temi del diritto civile che più “classici” non potrebbero essere, la responsabilità civile (Il problema della responsabilità civile del 1964) e il contratto (Le fonti d’integrazione del contratto, del 1969). Chi consultasse questi primi scritti vi troverebbe una traccia che avrebbe portato lontano: l’impostazione non formalistica che collega il diritto non al diritto, cioè con sé stesso in un circolo vizioso, ma al diritto in funzione della sua - potremmo dire - “giustezza” rispetto alle aspettative sociali. Del 1967 è lo scritto che mette in rapporto l’oggetto dei suoi studi con il contesto culturale in cui si posa, si è posato in passato e si vorrebbe che si posasse in futuro, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile. Di quegli anni è il libro forse più famoso, Il terribile diritto (1981) più volte ripubblicato fino all’edizione del 2013 che porta un’aggiunta nel titolo: Studi sulla proprietà privata e i beni comuni. Questa riedizione- integrazione è una testimonianza della continuità del suo impegno scientifico e civile. L’idea, anzi la categoria ricorrente come oggetto polemico in tutti i suoi scritti è la “logica proprietaria” o, potremmo dire, rapace, la logica che fagocita tutto e tutti nei meccanismi del mercato e mercifica ogni bene mettendolo a disposizione della predazione dei più forti e sottraendolo ai deboli. Contro questa forza distruttiva delle relazioni tra gli esseri umani stanno innumerevoli scritti e interventi nelle più diverse sedi.
(…). …la critica alla logica proprietaria e, in fin dei conti, all’egoismo dei potenti che schiaccia gli impotenti dividendo la società in due parti è il filo conduttore di tutti gli scritti, direi di tutto il suo impegno a favore di un’etica dei diritti. Di diritti e libertà, Stefano si confessò “innamorato” nel suo intervento del 2004 alle Lezioni Bobbio (Einaudi, 2006) e, in effetti, come tutti gli innamorati che non sanno staccarsi dal loro amore, le occasioni per ritornare a esso, approfondire, denunciarne i tradimenti sono state numerosissime. Non è possibile, in questa sede, nemmeno farne un elenco. La summa del suo pensiero è raccolta nel fortunatissimo volume Il diritto di avere diritti del 2012 che già nel titolo - una citazione da Hannah Arendt la quale si riferiva alla condizione degli ebrei d’Europa sradicati, privati d’ogni diritto e esposti a qualsiasi impune violenza - si volge a considerare la condizione di coloro, sempre più numerosi nel tempo attuale, che dalla concentrazione dei capitali, dall’economia e dalla tecnologia alleate in una corsa frenetica, dalla depredazione dei territori e dai disastri ecologici, sono privati della base stessa da cui poter reclamare una qualsiasi protezione: gli sradicati della terra. Non sempre, dunque, i diritti producono frutti benigni. I diritti dei potenti, quando entrano in conflitto con la condizione degli impotenti, producono effetti perversi. Diventano volano per accrescere le ingiustizie e le distanze sociali nell’economia, nella conoscenza, nella partecipazione politica. Possono trasformarsi da strumenti della libertà e della liberazione in strumenti dell’oppressione. Ciò non solo per la prepotenza degli uomini ma anche per lo sviluppo distorto di tecnologie capaci di massificare l’umanità, di trasformarla in una grande arena dell’ubbidienza dominata dall’inganno, di aprire la stagione del “post-umano” in cui l’uomo entrerà in competizione con le macchine pensanti da lui stesso pensate e sarà soggetto - beneficato o maledetto - alle ingegnerie genetiche. Nell’ultima fase delle sue riflessioni, Stefano si è aperto a temi che sono al confine tra la filosofia e il diritto, trattando di persona umana, dignità, solidarietà, verità, autodeterminazione, perfino di amore (Diritto d’amore, 2014). Questi entrano nei titoli di suoi brevi saggi e nelle diverse parti del Diritto di avere diritti, di cui occorrerebbe leggere con attenzione il Prologo. Vi troviamo testimoniata ancora una volta la fede nei diritti, ma in modo sorprendentemente problematico per un “innamorato”. Proietta un’ombra inquietante il timore circa le disfunzioni sociali ch’essi possono provocare già oggi e ancor di più nel prossimo futuro quando essi entrano nel grande affare della mercificazione generalizzata di tutti i beni della vita e perfino degli esseri umani come tali. Si potrebbe dire che i diritti, pilastri della civiltà che abbiamo concepito, tra tante cose buone portano in sé non poche tossine e che queste stanno crescendo e occorre richiamare su di esse la nostra attenzione. (…). Ma, forse, nel bilancio finale si è insinuata la domanda: progresso sì, ma verso che cosa? Per questo, occorre ora concentrare l’attenzione sulle degenerazioni, non per tornare indietro come sognano coloro che rimpiangono tempi andati che non ritorneranno mai più. Rodotà non era affatto un nostalgico. Il suo sguardo è stato sempre rivolto al futuro, è stato un precursore. I suoi scritti sulle tecniche informatiche, sulla “rete”, fino alla “rivoluzione digitale” non si contano. Già nel 1973, quasi cinquant’anni fa, quando ancora nessuno ne parlava, aveva pubblicato un testo dal titolo piuttosto démodé, addirittura archeologico, che fa pensare alle macchine che allora leggevano le schede perforate ed ora farebbero sorridere qualunque tecnico informatico alle prime armi: Elaboratori elettronici e controllo sociale. In breve tempo, questo tema, collegato ai diritti della privacy e alla formazione dei grandi imperi informatici capaci non solo di abbattere le barriere che proteggono la vita privata, ma anche di controllare e ricattare i governi, sarebbe diventato cruciale e Rodotà in Italia e non solo in Italia, sarebbe diventato uno dei maggiori esperti in materia. Se ho indugiato su queste citazioni e su questi ricordi è perché essi testimoniano di una fedeltà e di una coerenza che, al di là dei bilanci sull’opera scientifica che certamente sarà adeguatamente studiata in sede accademica, sono ciò che con maggiore vivezza mi si presenta alla mente a poco più di tre mesi dalla scomparsa di Stefano, il nostro compagno che abbiamo ammirato prima e rimpiangiamo ora e che possiamo avere ancora tra noi nel ricordo e nello studio di ciò che ci ha lasciato. (…). È stato detto che Rodotà e tanti altri con lui avevano idealizzato la Costituzione come “la più bella del mondo”, sciocca espressione usata per accusare i suoi difensori di vuoto idealismo, di estetismo costituzionale cieco di fronte a cose concrete come le esigenze di semplificazione del sistema politico, di velocità del decidere, di “governabilità”. Non è stato affatto così: si trattava di un’altra visione istituzionale che aveva a cuore la difesa di una certa idea di democrazia partecipativa perfettamente in linea con la difesa dei diritti. Questa visione per anni ha alimentato idee anticostituzionali, ispirate a quella che si potrebbe dire la “democrazia decidente” che è (se così si può ancora chiamare) democrazia “discendente”. Non si sarebbe trattato, dunque, di ingegneria costituzionale indirizzata al miglioramento delle istituzioni ma di uno stravolgimento, anzi di un rovesciamento oligarchico. Sappiamo che cosa è l’oligarchia. Ce lo dicono i classici: il governo dei privilegiati, i diritti dei più forti, dei più ricchi. Questo è spiegato in un libretto che Stefano ha scritto in occasione del referendum del 4 dicembre, Democrazia e costituzione. Perché dire no: uno scritto militante a favore della Costituzione, dei diritti di tutti, di quella che si chiama la “cittadinanza attiva” dei cittadini. Anche in questo ultimo impegno pubblico vediamo la sua coerenza, associata alla costante denuncia del degrado crescente della classe politica e della corruzione dilagante. La retorica delle riforme è stata il tentativo fraudolento di dirottare l’indignazione sulle istituzioni per liberarsi delle responsabilità proprie e, addirittura, per dotarsi di regole costituzionali protettive che avrebbero reso ancora più difficile di quanto già sia il contrasto ai mali della nostra vita pubblica. Rodotà ha denunciato tutto questo in un altro libro in cui egli non ha esitato a darsi del moralista (Elogio del moralista, 2013), ben sapendo che questa parola gli avrebbe attirato la critica, anzi l’ironia, dei realisti cinici che la sanno lunga e si fanno beffe dell’etica in politica. Ciò che ha impedito a Rodotà di assurgere a cariche anche più importanti di quelle pur importanti che ricoprì è precisamente la sua indisponibilità a partecipare ai giri, ai circoli di quel tipo di realismo. (…).

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