Da “Le crepe
di Deutsche e l'autogol del rigore” di Fabio Bogo, pubblicato sul
settimanale “A&F” del 3 di ottobre dell’anno 2016: Chissà se la giornata convulsa
vissuta venerdì scorso (30 di settembre dell’anno 2016 n.d.r.) da
Deutsche Bank sulla piazza di Francoforte e le ore di tensione nei listini
azionari di mezzo mondo hanno fatto squillare qualche campanello d'allarme
anche nella cancelleria di Berlino. Speriamo di sì. Perché l'altalena della più
grande banca tedesca ha dimostrato in maniera evidente come il sistema
finanziario globale sia totalmente interdipendente, e come una voragine che
sembra aprirsi in Germania crei subito un effetto rovinoso in Italia, e
viceversa. E ha ribadito che per scongiurare le crisi sistemiche occorre essere
pragmatici e non prigionieri del dogmatismo, quello dell'austerity che Berlino
impone a se stessa e vuole per gli altri, sottovalutandone le autolesionistiche
conseguenze sistemiche e usando a corrente alternata la memoria di costi e
benefici. Sul fronte degli investimenti pubblici, ad esempio, un recente studio
della Commissione Europea ha spiegato come l'aumento della spesa da parte dei
paesi meno indebitati possa avere ampi benefici collettivi, tra cui quello di
ridurre il debito delle nazioni più esposte. E passando dalla teoria alla
realtà, gli analisti dell'agenzia di rating Dbrs hanno fatto nomi, cognomi e
conti: se Germania e Olanda aumentassero i propri investimenti pubblici
nell'ordine dell'1% l'anno per i prossimi 10 anni, e la politica della Bce
restasse immutata, la crescita tedesca avrebbe uno scarto positivo di un
ulteriore 1,1 per cento e quella olandese dello 0,9 per cento. E dopo 10 anni
un beneficio permanente di circa due punti di più. Ma c'è di più. La forte
crescita tedesca e olandese trascinerebbe il resto dell'Europa, e unita al
deprezzamento dell'euro avrebbe un impatto sul Pil di Italia, Francia e Spagna
nell'ordine di mezzo punto di Pil in più all'anno. Il costo dell'operazione, in
termini di maggiore indebitamento, sarebbe minimo: due punti in più per la
Germania al termine del piano decennale, 2,8 punti per l'Olanda. I benefici
complessivi di questa operazione di stimolo fiscale sarebbero superiori ai
potenziali rischi, stimano gli analisti di Dbrs. Il ministro delle Finanze
tedesco Schaeuble da quell'orecchio non ci sente: in Parlamento ha ribadito che
Berlino "spende solo quello che ha". E un parlamentare della Csu,
partito alleato della Cdu di Angela Merkel, è stato ancora più illuminante nel
criticare la politica di tassi zero della Bce: "Le misure di Draghi sono
buone per l'Eurozona nel suo insieme, ma non per la Germania". Apprendiamo
così che Eurozona e Germania sono due cose distinte. E che a Berlino
dimenticano di aver risparmiato grazie all''Eurotower dal 2008 al 2015 122
miliardi di euro di interessi. Buono per la Germania, quindi. Perché in quella
cassa si fanno solo versamenti.
Da “L'individuo
e il cittadino” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del
27 di settembre 2017: (…). La crisi non è uno spazio neutro che
possiamo attraversare restando noi stessi. È un agente sociale che modifica
percorsi, gerarchie, riferimenti, scatenando paure libera istinti, selezionando
esclusioni genera rancori, sovvertendo le speranze provoca risentimenti. Porta
a galla il lato nascosto del benessere in cui avevamo vissuto, quando la
crescita compensava ingiustizie e iniquità. Svela il fondo delle nostre
inquietudini. La crisi è finita, d'accordo, l'Europa torna a crescere, a
diversa velocità. Ma cosa vuol dire oggi crescita, cosa c'è adesso nella parola
"lavoro"? Sapevamo che nella locomotiva europea tedesca la precarietà
è passata dal 18 per cento del 2001 al 20,7, per raggiungere il 30,6 tra le
donne? Che c'è una differenza di 7 euro all'ora nei compensi dei lavoratori
"atipici" rispetto ai tradizionali? Che i lavoratori
"poveri" sono cresciuti in dieci anni dal 7 all'11,5 per cento? Che
l'11 per cento dei pensionati tedeschi dai 65 ai 74 anni (cioè poco meno di un
milione di persone) è obbligato dal bisogno a lavorare? L'inquietudine del
post-moderno nasce da questo presente instabile che rattrappisce la fiducia nel
futuro. Si consuma la tutela della politica, si smarrisce il sentimento di
cittadinanza, si perde la coscienza repubblicana. Nasce un'inedita
privatizzazione dei valori che credevamo universali, e vogliamo che oggi
valgano soprattutto per noi, prima di testimoniarli agli altri. Cresce una
nuova gelosia dei diritti, che nel benessere declinavamo per tutti e oggi
vogliamo consumare da soli. Si diffonde un modernissimo egoismo del welfare,
come se non avesse funzionato da strumento di compensazione sociale, dunque di
governo naturale della società. "Non voglio dividere" è la parola
d'ordine che sigla la fase: senza accorgerci che segna la regressione da
cittadino a individuo. Si capisce che tutto questo sbocchi a destra, se prende
la forma della deriva, non governata. E in particolare nelle zone più
svantaggiate, come la Germania dell'Est, l'ex Ddr, dove vengono a galla nello
scontento la deindustrializzazione, il contenzioso sulle vecchie (e basse)
pensioni, il sentimento nascosto di colonizzazione da parte dell'Ovest, un
senso di minorità culturale dentro un establishment "occidentale"
difficile da scalare. Così si spiega l'Afd che arriva al 21,5 per cento
all'Est, diventando il secondo partito sul territorio dell'ex Ddr, in un voto
che sembra cortocircuitare la storia tedesca e d'Europa. Non conta più, a
quanto pare, la libertà riconquistata, il benessere condiviso, la democrazia
imperfetta ma diffusa. La gelosia del presente conta di più, come se
l'Occidente fosse capace di liberare, ma non di convertire, o di conquistare. E
allora, forse, il secolo socialdemocratico può continuare proprio qui, nella
solitudine moderna dell'individuo, per restituirlo a cittadino.
Da “Ma
guarda che strano: la Germania non è poi un paradiso terrestre” di
Alessandro Robecchi, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 27 di settembre
2017: (…). Raccontata solitamente come poderosa locomotiva, dove gli operai
siedono nel Cda delle grandi imprese, ed efficienza e ordine tirano tutto il
carro, la Germania si scopre oggi – colpo di scena – un po’ meno gloriosa.
Impazzano i mini-jobs, un trucchetto che pare italiano per contare come
occupati anche quelli che portano a casa due euro, per dirne una. Risultato:
regnante la signora Merkel, la disoccupazione è scesa (dall’11 al 4 per cento),
ma sono aumentati i lavoratori tedeschi che vivono in povertà (dall’11 al 17),
il che significa che si è svalutato il lavoro, né più e né meno che negli altri
grandi paesi europei (qui facciamo malamente eccezione: la povertà aumenta, ma
la disoccupazione non cala). In queste condizioni è abbastanza facile prendere
il povero, scontento e incazzato tedesco, mostrargli un immigrato e dire che è
colpa sua. E’ un trucchetto vecchio come il mondo, che in Germania conoscono
bene. Si aggiunga che nei posti dove AfD
ha vinto di più, soprattutto a est, gli immigrati non ci sono, ma abbondano
altri problemi che sono quelli di un sistema economico che “ottimizza” il suo
funzionamento schiacciando verso il basso milioni di cittadini: i poveri più
poveri, il ceto medio spaventato e sempre sull’orlo di diventare povero pure
lui. I fascisti-rivelazione delle elezioni tedesche sbandierano lo slogan
“Prima i tedeschi”, che fa scopa con il “Prima gli italiani” di Salvini e
fascistume nostrano, che fa briscola con “La Francia ai francesi” della signora
Le Pen. In pratica si dice al povero tedesco che se è povero è colpa di uno più
povero di lui che va lì, e non di un sistema che permette al dieci per cento di
tedeschi di possedere il 59 per cento della ricchezza: la Germania è leader
europea anche nella diseguaglianza sociale. A fronte del fatto che non si
riesce a redistribuire decentemente la ricchezza, si indicano come nemici
quelli che di ricchezza non ne hanno. E del resto negli ultimi dieci anni in
Europa i lavoratori poveri (occupati ma sotto la soglia di povertà) sono
aumentati ovunque. Le forze politiche tradizionali (centro, centrosinistra,
larghe intese, Grosse Coalitionen) da Parigi a Berlino, da Roma a Madrid, hanno
tutte più o meno agevolato questa ottimizzazione liberista a scapito dei loro
cittadini. E non a vantaggio dei poveri migranti, ma della rendita, dei grandi
capitali, delle grandi aziende, della finanza. Insomma, “Prima i tedeschi”
andrebbe detto a quei pochi tedeschi che sono diventati molto ricchi a scapito
di moltissimi tedeschi che sono diventati più poveri. E lo stesso vale per chi
dice “prima gli italiani”, ovviamente. Tutto questo sembra un poker col morto.
C’è chi vince (il capitale), c’è chi perde (il lavoro) e c’è il morto, che
sarebbe la sinistra, ormai inadatta al suo ruolo storico: o lo recupera
mettendosi sul serio dalla parte del lavoro, o diventa, come pare oggi, solo un
grande equivoco semantico. Dire “sono di sinistra” e fare politiche di destra
che aumentano le diseguaglianze – qui siamo maestri – apre le porte al peggio.
Poi, come in Francia, bisogna scegliere il meno peggio: le politiche sociali ed
economiche delle Merkel, dei Renzi, dei Macron creano fascismo, e ci diranno
che bisogna votare le Merkel, i Renzi e i Macron sennò arriva il fascismo.
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