Da “La
crociata del pensiero monista” di Giancarlo Bosetti, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 15 di ottobre dell’anno 2014: (…). I monisti sono fedeli a un
unico sistema di valori, il «mio», il «nostro », quello ereditato, Peccato però
che tanti e diversi si possano intitolare quel «noi» e farci sopra
interminabili guerre. Il monista si riconosce subito dal suo punto debole, dal
drappo rosso che ne scatena le reazioni, dalla bestia nera che ne disturba i
sonni: il relativismo. Ma attenzione, noi non dobbiamo identificare il
pluralismo con il relativismo, questa sovrapposizione è un esercizio retorico,
che appartiene tipicamente alla strategia «monista» che attraverso l'accusa di
«deriva » riduce il primo al secondo, presentandolo come un vizio che rischia
sempre di «scivolare» verso la condizione del parente degenere. E vale per il
pluralismo filosofico in generale, per la teoria della conoscenza (pluralismo
cognitivo) quel che vale per il pluralismo culturale e morale. (…). Il
cardinale Ratzinger respingeva (…) la tesi che il pluralismo etico sia «la
condizione per la democrazia ». E in effetti che il pluralismo etico, non il relativismo,
sia il naturale sfondo di una società libera e democratica dovrebbe esser un
dato acquisito in un contesto non dittatoriale e non teocratico. E come
diversamente si può immaginare la vita pubblica in società mobili e variegate,
per orientamenti politici diversificate, e per la loro stessa composizione
multietniche e multireligiose? Chi può arrogarsi, in presenza di tanta varietà
di genti, di fedi e di chiese, di credenti, di non credenti e di indifferenti,
il diritto e il potere di interpretare la «legge morale naturale»? Riuscirà la
Chiesa che ha messo fino a poco fa in parentesi il Concilio Vaticano II a
riaprire il dossier delle teologie pluraliste, nella pratica ma anche nella
dottrina del dialogo con le altre religioni? Riuscirà a riaprire il dossier del
processo intentato nel 1999 a Jacques Dupuis, il teologo belga costretto dalla
Congregazione della dottrina della fede a lasciare l'insegnamento alla
Gregoriana e a una "ritrattazione" che lui però non accettò mai? Ma
il monismo non ha soltanto una veste confessionale, si manifesta, e come, anche
tra i non credenti. Allan Bloom era ossessionato dal relativismo non meno di
Benedetto XVI e, anche lui, combatteva il pluralismo mettendolo in caricatura
come relativismo, ma non lo faceva ispirato dalla fede, lo faceva nel nome
della cultura classica, di Socrate e Platone. (…). Bloom è anche più disinibito di Ratzinger nel
mostrare il lato etnocentrico, egoistico del monismo, centrato sul nucleo forte
della società occidentale. E definisce in modo ancora più chiaro come la
openness, l'apertura mentale pluralista, che è stato uno dei caratteri
formidabili della cultura americana e della sua intellettualità, nella prima
metà del secolo, dalla grande scuola antropologica di Boas ai pragmatisti —
grandi fucine di pluralismo — sia la causa, secondo lui, di tutti i guai
presenti della cultura americana e delle sue università; come essa sia, insieme
all'eguaglianza, il nome del «tradimento » perpetrato ai danni dei giovani ad
opera di una classe di insegnanti corrotta dal relativismo culturale, dal ‘68,
dalla liberazione sessuale, dalla musica rock e da Mick Jagger. Tutto il
bagaglio conservatore, grosso modo lo stesso delle «maggioranze silenziose»
europee degli anni settanta, o di quel che sarebbe diventata, volta a volta, in
modo più o meno sofisticato ed elegante, la vulgata neocon di Billy o'-Reilly e
della Fox-News all'epoca della guerra in Iraq, o in Italia degli atei devoti,
di Giuliano Ferrara, di Libero e C. Tutti uniti nel recriminare ad ogni stormire
di scrupoli «politicamente corretti » e nel rimpianto identitario per la
perdita dell'«orgoglio», per la perdita del senso della «nostra » civiltà, per
la viltà con cui la classe dirigente ha perso il senso della propria funzione
«civilizzatrice » ed è caduta preda di «ridicoli sensi di colpa», — qui è di
nuovo Bloom che parla — o di sogni terzomondisti. Gli scrupoli di un John Rawls
o di un Robert Dahl nel definire una teoria della giustizia e della democrazia
che individui un metodo per identificare gli obiettivi comuni senza danneggiare
parti della società, magari quelle più deboli, appaiono a Bloom come una
parodia di questa «tendenza a non dispiacere a nessuno». E chi si occupa dei
più forti? Poveri loro dopo il ‘68, Marcuse, i figli dei fiori, Woodstock, i
Rolling Stones! Il potere e il sapere definiscono il bene comune attraverso un
rapporto di forza, che non ha paura di apparire etnocentrico e non ha bisogno
di giustificarsi. (…).
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