"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 15 ottobre 2017

Quodlibet. 23 “La crociata del pensiero monista”.



Da “La crociata del pensiero monista” di Giancarlo Bosetti, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 15 di ottobre dell’anno 2014: (…). I monisti sono fedeli a un unico sistema di valori, il «mio», il «nostro », quello ereditato, Peccato però che tanti e diversi si possano intitolare quel «noi» e farci sopra interminabili guerre. Il monista si riconosce subito dal suo punto debole, dal drappo rosso che ne scatena le reazioni, dalla bestia nera che ne disturba i sonni: il relativismo. Ma attenzione, noi non dobbiamo identificare il pluralismo con il relativismo, questa sovrapposizione è un esercizio retorico, che appartiene tipicamente alla strategia «monista» che attraverso l'accusa di «deriva » riduce il primo al secondo, presentandolo come un vizio che rischia sempre di «scivolare» verso la condizione del parente degenere. E vale per il pluralismo filosofico in generale, per la teoria della conoscenza (pluralismo cognitivo) quel che vale per il pluralismo culturale e morale. (…). Il cardinale Ratzinger respingeva (…) la tesi che il pluralismo etico sia «la condizione per la democrazia ». E in effetti che il pluralismo etico, non il relativismo, sia il naturale sfondo di una società libera e democratica dovrebbe esser un dato acquisito in un contesto non dittatoriale e non teocratico. E come diversamente si può immaginare la vita pubblica in società mobili e variegate, per orientamenti politici diversificate, e per la loro stessa composizione multietniche e multireligiose? Chi può arrogarsi, in presenza di tanta varietà di genti, di fedi e di chiese, di credenti, di non credenti e di indifferenti, il diritto e il potere di interpretare la «legge morale naturale»? Riuscirà la Chiesa che ha messo fino a poco fa in parentesi il Concilio Vaticano II a riaprire il dossier delle teologie pluraliste, nella pratica ma anche nella dottrina del dialogo con le altre religioni? Riuscirà a riaprire il dossier del processo intentato nel 1999 a Jacques Dupuis, il teologo belga costretto dalla Congregazione della dottrina della fede a lasciare l'insegnamento alla Gregoriana e a una "ritrattazione" che lui però non accettò mai? Ma il monismo non ha soltanto una veste confessionale, si manifesta, e come, anche tra i non credenti. Allan Bloom era ossessionato dal relativismo non meno di Benedetto XVI e, anche lui, combatteva il pluralismo mettendolo in caricatura come relativismo, ma non lo faceva ispirato dalla fede, lo faceva nel nome della cultura classica, di Socrate e Platone. (…).  Bloom è anche più disinibito di Ratzinger nel mostrare il lato etnocentrico, egoistico del monismo, centrato sul nucleo forte della società occidentale. E definisce in modo ancora più chiaro come la openness, l'apertura mentale pluralista, che è stato uno dei caratteri formidabili della cultura americana e della sua intellettualità, nella prima metà del secolo, dalla grande scuola antropologica di Boas ai pragmatisti — grandi fucine di pluralismo — sia la causa, secondo lui, di tutti i guai presenti della cultura americana e delle sue università; come essa sia, insieme all'eguaglianza, il nome del «tradimento » perpetrato ai danni dei giovani ad opera di una classe di insegnanti corrotta dal relativismo culturale, dal ‘68, dalla liberazione sessuale, dalla musica rock e da Mick Jagger. Tutto il bagaglio conservatore, grosso modo lo stesso delle «maggioranze silenziose» europee degli anni settanta, o di quel che sarebbe diventata, volta a volta, in modo più o meno sofisticato ed elegante, la vulgata neocon di Billy o'-Reilly e della Fox-News all'epoca della guerra in Iraq, o in Italia degli atei devoti, di Giuliano Ferrara, di Libero e C. Tutti uniti nel recriminare ad ogni stormire di scrupoli «politicamente corretti » e nel rimpianto identitario per la perdita dell'«orgoglio», per la perdita del senso della «nostra » civiltà, per la viltà con cui la classe dirigente ha perso il senso della propria funzione «civilizzatrice » ed è caduta preda di «ridicoli sensi di colpa», — qui è di nuovo Bloom che parla — o di sogni terzomondisti. Gli scrupoli di un John Rawls o di un Robert Dahl nel definire una teoria della giustizia e della democrazia che individui un metodo per identificare gli obiettivi comuni senza danneggiare parti della società, magari quelle più deboli, appaiono a Bloom come una parodia di questa «tendenza a non dispiacere a nessuno». E chi si occupa dei più forti? Poveri loro dopo il ‘68, Marcuse, i figli dei fiori, Woodstock, i Rolling Stones! Il potere e il sapere definiscono il bene comune attraverso un rapporto di forza, che non ha paura di apparire etnocentrico e non ha bisogno di giustificarsi. (…).

Nessun commento:

Posta un commento