Da “Rotto
l’equilibrio sociale la finanza non basta più fermiamo la corsa ai profitti”
intervista di Eugenio Occorsio a Mauro Magatti, professore presso l’Università Cattolica
di Milano, pubblicata sul settimanale “A&F” del 23 di ottobre 2017: «I
lavoratori, specialmente quelli dipendenti, sono spiazzati e impotenti di
fronte alla perdita di potere d’acquisto: è come se con la crisi del 2008, le
cui conseguenze sono tuttora vivissime non solo in Italia, si sia spezzato un
equilibrio sociale, una specie di patto neoliberista fra finanza ed economia
reale. La crisi ha interrotto e modificato le condizioni che reggevano lo
scambio fra gli interessi economici e gli interessi sociali ». (…). «La
sfiducia che serpeggia non è un’emozione superficiale ma una realistica
valutazione dello stato delle cose. Il problema è che la società, gli
individui, ovvero i malati, non conoscono né le cause né i rimedi della loro
malattia».
Professore, è inevitabile concludere: serve
una classe politica all’altezza della sfida, che comprenda nel profondo le
cause di quella che lei chiama “la malattia” e aiuti i suoi concittadini a
superarla. «Sì, ma attenzione che la risposta non è il populismo né gli eccessi
di nazionalismo o la Brexit. Sfasciare tutto non è mai un rimedio. Occorre
viceversa una rinnovata attenzione nelle scelte, negli impegni e negli
investimenti pubblici. Penso ancora una volta alla scuola e alla formazione,
con la necessità di renderla finalmente efficace e finalizzata alla realtà del
lavoro, insomma al servizio della crescita individuale. Purché però anche i
docenti siano disposti a fare il salto di qualità, ad aggiornarsi, ad
appassionarsi alle nuove sfide».
Torniamo ai salari. Ci diceva (…) che è
saltato l’equilibrio fra finanza ed economia reale: come recuperalo? «C’è un
doppio problema. La finanza è come la linfa vitale che scorre nelle vene della
società, ed ora è come se i gangli principali si siano ingolfati e a volte
proprio scoppiati. Con la conseguenza di provocare un infarto sociale: per
curarlo non bastano i farmaci anticoagulanti somministrati, per esempio, dalle
banche centrali. Il secondo problema, connesso al primo, è la perdita di peso
del monte salari rispetto al Pil di una nazione. Qui non c’entra la crisi. Va
avanti così almeno dagli anni ‘90. E questo è davvero un problema di tutti i
Paesi industrializzati: mediamente c’è stato un calo di quasi dieci punti
percentuali. Vuol dire che per ogni 100 dollari, o euro, di valore aggiunto
complessivo, la quota di ricchezza distribuita al lavoro è passata dal 63-64%
al 55-56% negli ultimi vent’anni».
A chi è andata la quota persa? «Alle rendite
finanziarie e immobiliari. Si può trovare un equilibrio fra finanza e consumo,
prendendo i soldi in prestito e con essi finanziando l’acquisto di una casa o
di un bene durevole, ma è un equilibrio precario. Che nel caso dei mutui
subprime, concessi a chi non aveva realisticamente la possibilità di rifonderli
un giorno, è saltato. Con le conseguenze a catena che conosciamo. Il gioco, lo
scambio finanza-consumo, non funziona più. È finito un ciclo del capitalismo,
siamo alla ricerca degli equilibri per un nuovo ciclo, qualcosa che ricordi ad
esempio qui in Italia lo spirito del dopoguerra».
Come riavviare la macchina con questo Piano
Marshall sociale? «Intanto cominciando a dire che l’economia non è una macchina
ma una costruzione complessa: per farla funzionare non basta mettere a posto i
componenti ma occorre una visione storica, politica, tecnologica, culturale.
Siamo nella nascente società digitale, che avrà un impatto forte non solo in
termini di produttività attraverso il controllo di ogni segmento della
produzione e delle attività, ma anche per le possibilità di collaborazione che
apre. Siamo di fronte a un nuovo scambio che definirei di “efficienza per
sicurezza” basato sull’idea di trasformare l’intera società in una grande
fabbrica basata sulla trasparenza e il rigore del digitale. Ma poi serve
un’alleanza fra gli interessi economici disposti ad assumere il criterio della
sostenibilità per condurre le loro attività e gli interessi sociali disposti a
cambiare pelle da “consumatori” a “contributori”».
La sostenibilità è quella ambientale? «Beh,
anche, va consentito per esempio all’industria delle costruzioni, l’altra
grande fabbrica del Paese, di ripartire sulla base del restauro, delle
razionalizzazione, del miglioramento del patrimonio esistente. Ma poi si tratta
di instaurare un nuovo patto fra economia e società in grado di avviare una
nuova stagione capitalistica migliore di quella che abbiamo alle nostre spalle.
Una stagione nella quale si torna ad ammettere che non c’è crescita economica
senza sviluppo sociale. Stabilendo una nuova relazione che scambi profitti meno
elevati ma stabili nel tempo per una partecipazione più diffusa e riconosciuta
sul piano economico, politico e sociale. Una possibilità reale che abbiamo
davanti, a condizione che la politica capisca che la domanda latente oggi non è
più lo slegamento individualistico ma la costruzione di un nuovo legame
sociale».
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