Da “Lo Stato
è morto. Viva lo Stato” di Carlo Galli, pubblicato sul settimanale “L’Espresso”
dell’8 di ottobre 2017: (…). La lotta contro lo Stato continua: ai
colpi ricevuti dalla globalizzazione, alla cessione volontaria di sovranità
economica e alla difficoltà di gestire l’immigrazione e il multiculturalismo,
si aggiungono tentativi di frantumare lo Stato nazionale nello Stato etnico, di
trasformare una più grande comunità in piccole patrie. Le rivoluzioni non lo
hanno distrutto. Quasi ci è riuscito il capitalismo. E la voglia crescente di
piccole patrie. (…). Dunque si avvicina quella morte dello Stato - del «dio
mortale», come lo ha definito Hobbes - che da più di un secolo è stata
proclamata dall’anarchismo, e anche da qualche pensatore della destra radicale,
una morte in realtà fino ad ora differita, benché la salute del Leviatano sia
diventata sempre più cagionevole? Lo Stato, un tempo signore della guerra,
della giustizia, dell’ordine pubblico, della moneta, del fisco, è sulla via
d’essere fatto a pezzi? Vediamo meglio. Certamente, lo Stato è una costruzione
storica, e non può pretendere per sé l’immortalità. È un’invenzione della
fantasia istituzionale dell’Occidente, dopo la Città e l’Impero; e proprio
contro le repubbliche cittadine e gli imperi tradizionali si afferma in Europa,
con i suoi attributi essenziali - sovranità, popolazione, territorio -, in un
arco di tempo che varia dal XVI al XIX secolo. Alla sua origine c’è l’esigenza
di portare la pace nel nostro continente, devastato dalle guerre di religione
che hanno seguito le riforme protestanti: una pace che consentisse ai cittadini
di vivere una vita relativamente tranquilla e di «godere dei frutti dell’industria»
(è ancora Hobbes che parla). A questo scopo il potere viene sempre più
centralizzato, unificato e intensificato, e la società sempre più
spoliticizzata, e svuotata dei tradizionali corpi intermedi che la
costituivano; si rafforzano i confini, e si distingue nettamente fra interno ed
esterno, fra regno del diritto e spazio della guerra e della conquista
coloniale. Lo Stato assorbe in sé tutta la politica, fino a credersene il
monopolista, fino a diventare sinonimo di “pubblico”. Oltre che essere l’arena
della lotta politica - lo Stato assurge a protagonista, a destino, della
politica moderna. Le forme politiche alternative - interne esterne: i partiti,
i movimenti, le federazioni - lo attraversano, lo scuotono, lo indeboliscono,
ma non lo distruggono. È nello Stato, oltre che nella tecno-scienza e nel
capitalismo, che la modernità esibisce il proprio talento creativo. È anzi lo
Stato, con la sua coerenza organizzativa, uno dei fattori della crescita del
mercato, prima interno e ben presto mondiale. È lo Stato - un’invenzione
politica destinata a essere esportata e imitata in tutto il globo - una delle
cause della moderna superiorità materiale europea sul resto del mondo. Ma come
funziona lo Stato? È uno strumento, certo: ma uno strumento importante per un
fine importante. La pace e la sicurezza attraverso il monopolio sovrano della
violenza legittima all’interno; la stabilità delle relazioni economiche e
sociali; la prevedibilità, attraverso il diritto e la burocrazia, dei rapporti
fra i cittadini, e fra questi e il potere supremo; la piena cittadinanza,
attraverso la rappresentanza politica; la difesa dei diritti attraverso il
costituzionalismo. È insomma una nuova e potente figura della ricerca
dell’utilità privata e pubblica. Individui moderni e Stato moderno stanno
insieme, nemici fraterni, legati dal comune interesse alla razionalità del
comando e alla razionalità dell’agire (e quindi legati dalla opposizione alle
pretese dell’autorità religiosa), e divisi dalla lotta per stabilire i confini
tra la sfera della libertà e quella dell’obbedienza, tra indipendenza e
organizzazione, tra cittadino e potere. Ma attraverso lo Stato non si manifesta
solo la volontà di potenza dei molti e dell’Uno. Lo Stato non è solo un affare,
o un artificio, ma è anche un simbolo, una produzione di senso, uno strumento
di identificazione collettiva in una storia, in una lealtà comune: è un
collettivo riconoscimento di legittimità. Ciò è vero per i sudditi dello Stato
dinastico del Seicento e del Settecento, e ancor più per i “figli della
patria”, per i cittadini della nazione rivoluzionaria e repubblicana che
tagliano la testa al re e stabiliscono nuove istituzioni fondate sulla
legittimità del popolo, sulla democrazia e sulla rappresentanza.
La rivoluzione
borghese fonda lo Stato su basi nuove, non lo elimina. E dimostra che lo Stato,
unico fra i grandi ritrovati moderni, benché non nasca democratico può essere
democratizzato attraverso quel grande fenomeno anch’esso moderno che è la
rivoluzione, l’attacco allo Stato che lo sovverte e al tempo stesso lo
rafforza. Infine, lo Stato oltre a essere veicolo di stabilità e di identificazione
è anche veicolo di redistribuzione della ricchezza, di cura e tutela della
società, di nutrimento del popolo. Lo Stato nazionale, lo Stato democratico, è
destinato a essere anche Stato sociale, ad amministrare il Paese, a
somministrare cura al corpo sociale. Lo Stato keynesiano dei “Trenta gloriosi”
era appunto tutto ciò: una invenzione di pace, di inclusione, di controllo
democratico delle tensioni e delle contraddizioni sociali, che realizzava le
premesse dello Stato moderno. Che, si badi bene, è tuttavia sempre duplice, a
due facce. È una stabilità che contiene movimento (la società con le sue forze
economiche e con le sue ideologie politiche), è una pace interna garantita da
un potere che può sempre fare guerra all’esterno poiché il Noi creato dallo
Stato si contrappone a Loro, è un sistema giuridico di sicurezza e di
prevedibilità sostenuto da una potenza politica (la sovranità) che tende a
farsi autonoma rispetto alle logiche umanistiche o utilitaristiche che la
fondano. Insomma, lo Stato è una macchina al servizio dell’uomo, ma è anche un
mostro minaccioso, che - con le armi della tecnica, della burocrazia, della
legalità persecutoria - può riaprire contro i cittadini quel conflitto che
doveva neutralizzare. Da fattore di progresso, da passo avanti in uscita dallo
“stato di natura”, dall’irrazionalità e dal conflitto, lo Stato può
trasformarsi anche in fattore di barbarie, di regresso atavico rafforzato dalla
potenza ultramoderna della tecnica: l’ imperium rationis , il regno della
ragione, può diventare una giungla. Il Leviatano da protettivo può trasformarsi
nel mostro del disordine, Behemoth (che è il titolo di un’altra opera di
Hobbes); o può rivelarsi come il più freddo dei mostri, secondo l’intuizione di
Nietzsche. Nella tradizione socialista e anarchica questo rischio è una
certezza: lo Stato, come Dio, è sempre una falsità e un inganno. La sua
universalità, la sua razionalità, sono mistificazioni ideologiche che celano la
sua parzialità, la sua origine di classe, la sua natura oppressiva. Lo Stato,
invenzione borghese, non si riforma: si spezza con la rivoluzione. Il che non è
certo avvenuto, se è vero che gli Stati socialisti anziché deperire ed
estinguersi hanno rafforzato oltre ogni limite la propria potenza politica
totale sulla società. Ma dove non sono riuscite le rivoluzioni borghesi e
quelle proletarie è quasi riuscito il capitalismo. Potente fattore di
mobilitazione, di instabilità e di proiezione fuori delle frontiere, il
capitalismo sul finire del XX secolo ha rifatto il mondo, ha determinato il
crollo degli Stati più tradizionali, quelli comunisti, ha rotto, all’interno,
l’alleanza con lo Stato sociale e lo ha contestato radicalmente in nome
dell’efficienza, del merito, della disuguaglianza creatrice, ha perforato i
confini rendendo quasi obsolete le categorie di interno e di esterno, ha
screditato, insieme allo Stato, la stessa politica, a cui ha voluto sostituire
la governance. La disciplina leader, la dimensione decisiva, è diventata
l’economia, nuovo “destino” dell’umanità. In realtà le cose sono andate un po’
diversamente: il capitalismo di maggiore successo, quello cinese, si fonda su
uno Stato autoritario, e la forma globale del capitalismo ha prodotto crisi e
contraddizioni che nessuna governance controlla davvero. E ciò, in Occidente,
ha comportato che contro gli Stati i popoli abbiano avanzato una dura protesta
antipolitica, ma al tempo stesso abbiano posto domande di nuova politica, di
nuova protezione, di nuova identità, di nuova e più giusta distribuzione. Queste
domande sono definibili, secondo i casi, populiste, sovraniste, secessioniste;
ingenue o scaltre che siano, implicano, oltre che un disagio profondo verso lo
Stato e la democrazia che a esso si appoggiava, anche la richiesta di un nuovo
ordine politico, che ridefinisca i criteri di inclusione e di esclusione, il
dentro e il fuori. Più che della fine dello Stato si tratta quindi di una sua
nuova dislocazione, su un’altra scala: più piccola, etnica o municipale, in
alcuni casi (quando regioni ricche non vogliono più contribuire alla
redistribuzione della ricchezza entro un certo territorio); più vasta,
federativo-continentale, o imperiale, secondo altre prospettive. Il piccolo
Stato, la piccola patria, oggi è per molti una soluzione più seducente: sembra
possa comportare una riduzione di complessità, e restituire alla politica il
suo ruolo protettivo e propulsivo. Resta tutto da vedere se una balcanizzazione
della penisola iberica - e in prospettiva anche di altre aree d’Europa - sia
fattore di stabilizzazione o accresca l’instabilità. Se cioè i piccoli Stati,
con i loro radicamenti etnici, finiranno per essere gusci di noce nelle
turbolenze economiche e politiche mondiali o piuttosto noccioli duri di una
esistenza più democratica ed equilibrata. È in ogni modo certo che anche il
piccolo Stato è uno Stato; e ciò significa che lo Stato come forma politica è
un’Araba fenice che rinasce dalle proprie ceneri. È strumento, è mortale, ma
resta al tempo stesso un destino; forse il futuro politico è in qualche forma
di federazione imperiale, ma il presente è ancora dello Stato. Tanto
indispensabile che quando quello vecchio appare non più funzionante non si
riesce a pensare che a farne uno nuovo.
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