"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 4 maggio 2025

Lavitadeglialtri. 84 Leon Weintraub: «Gli astronomi ci insegnano che ci sono trilioni di sistemi solari e che il nostro pianeta è solo un granello in questo vasto cosmo, ed è assurdo che gli abitanti di questo granello si dividano in migliaia di gruppi ostili tra loro. Noi sopravvissuti vi chiediamo: siate vigili. E impedite alle destre antidemocratiche di prevalere».


“Entrò con mamma e zia nel campo di Auschwitz, ne uscì da solo. Uno dei pochi a fuggire dal lager, sopravvivendo così all’Olocausto”, testo del colloquio di Raffaele Panizza con Leon Weintraub pubblicato sul periodico “U” - del quotidiano “la Repubblica” - del mese di maggio 2025 : Se non fosse stato impiccato proprio qui, il 16 aprile 1947, Rudolf Hoss si rammaricherebbe del pessimo lavoro svolto come comandante del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Secondo i suoi calcoli, i morti sarebbero dovuti essere tre milioni. E invece furono meno: 100 mila tra zingari e prigionieri politici e un milione di ebrei. Di cui 900mila ammazzati appena scesi dal treno, spediti a soffocare nelle esalazioni del pesticida Cyclon B. Anche zia Eva e mamma Nacha, che aveva 54 anni, vennero uccise così. «Ci separarono... Riuscii a dirle: "Marni ti aspetto dentro" ... e non la rividi più», racconta Leon Weintraub, che oggi ha 99 anni e quel giorno ne aveva 18, prelevato insieme alle sorelle Lola, Franka e Mala dal ghetto di Lodz, il più grande del mondo dopo quello di Varsavia, uno dei mille creati nelle nazioni occupate. Quando gli domandiamo se Rudolf Hoss abbia avuto ciò che meritava risponde che «la legge è fatta per la giustizia e la giustizia non può fondarsi sulla morte». Ma questo non significa perdonare, perché il perdono è impossibile: «Su 80 membri della mia famiglia ne siamo usciti vivi in 16. Ma nonostante questo, occorre impedire che un velo nero cada sull'anima e offuschi il sole per tutta l'esistenza». Gli ricordiamo che alcuni sopravvissuti scelsero di diventare cacciatori di nazisti per scovare gli impuniti ovunque si nascondessero, e anche su questo punto il suo pensiero è scomodo e radicale: «Ho speso la vita a cancellare dal vocabolario due parole, che nessun familiare è autorizzato a pronunciare in mia presenza. La prima è odio. La seconda è vendetta». Ci incontriamo nella stanza spoglia di una pensioncina di Oswìecim, la città polacca che i tedeschi individuarono come "zona di interesse" e ribattezzarono Auschwitz. Il 27 gennaio 2025 si sono commemorati gli 80 anni dalla liberazione del campo da parte delle truppe russe, che soccorrendo gli ultimi 7mila prigionieri varcarono questa torre d'ingresso che ancora oggi sembra avere gli occhi e la bocca spalancata. (…). Un giorno solenne, ma per le strade non c'era nulla a ricordarlo: non una bandiera, una coccarda, un manifesto, niente. (…). Leon Weintraub (…) dice di aver invertito la cifra e sentirsene non 99 bensì 66. Che è sopravvissuto a tre campi di concentramento e alla "marcia della morte" con cui venne trasportato da un lager all'altro, mentre la Wermacht cercava di sfuggire agli Alleati. E che ad Auschwitz torna regolarmente dagli anni 60, avendo dedicato la vita a contrastare il rischio di un'amnesia collettiva: «Sapete cosa sento tutte le volte che vengo?», dice, inspirando dalle narici sopra i baffi bianchi e perfettamente tagliati, «sento l'odore della carne umana che brucia. L'afrore tenebroso di cosa l'uomo può fare all'uomo. Solo l'intensità con cui vivi può aiutare ad andare avanti e coesistere con questi ricordi». Leon è polacco, nato a Lodz il 1° gennaio del 1926. Il padre s'è tolto la vita quando lui aveva 16 mesi, mentre mamma apriva una lavanderia di due stanze che di notte diventava la casa, coi tavolini per stirare usati come letto. Leon cresce, va a scuola e si appassiona al cinema, vede i film romantici e si convince che i militari siano tutti eroici e di buon cuore: «Ogni due adulti, un bambino poteva entrare gratis, allora aspettavo le coppiette fuori dalla sala per sgattaiolare dentro. Dopo un po', il bigliettaio ha mangiato la foglia: "Ma si può sapere moccioso quante diamine di famiglie hai?"». Finché l'8 settembre 1939 arrivano i tedeschi, che sbraitano e menano. Gli ebrei vengono chiusi dentro poche stradine derelitte di una città che non si chiama più Lodz, ma Litzmannstadt: 200mila persone ammassate in un crogiolo purulento di fame e stenti che Hans Biebow, il comandante nazista del ghetto, trasforma in uno stabilimento produttivo. Il capo del consiglio degli anziani, il rabbino Chaim Rumkowski, si illude che lavorare bene e in silenzio rappresenti la salvezza: alla liquidazione del ghetto verrà spedito ad Auschwitz e linciato dai prigionieri. Leon finisce a lavorare 12 ore al giorno, con solo un po' di zuppa e pane nero la sera. «Ho sofferto la fame per 5 anni, 6 mesi e 3 settimane. Magari capita a tutti di saltare un pasto e dire "ho una fame pazzesca" Ma quella non è fame, è una forma superiore di appetito. La fame è un costante dolore allo stomaco che non ti fa addormentare. Uno stato in cui la sola cosa che riesci a pensare, ogni singolo minuto, è come trovare qualcosa da mangiare». Il 18 agosto 1944 vengono prelevati con la promessa di lavorare ìn Germania: «E noi ci credevamo, perché eravamo isolati dal mondo, senza radio e giornali, resi folli dagli stenti. Dopo giorni di viaggio in un vagone per le bestie arrivammo: vidi le bobine e i cavi lungo la recinzione e capii che non era un luogo di lavoro ma di detenzione, dal quale non si poteva uscire vivi. E fu il primo choc». Viene internato nella baracca numero 10, insieme ad altri ragazzi: una maglia, un paio di pantaloni, una giacchetta leggera e gli zoccoli di legno. Ci resta due mesi e perde ogni briciolo di umanità: «Potevo eseguire gli ordini, potevo sentire e ascoltare, ma non potevo pensare. Non ho memoria di me, in quello stato allucinato, chiedermi una sola volta cosa fosse successo a mia madre e alle mie sorelle. Il mio cervello non funzionava». Ma l'istinto di sopravvivenza, insieme a quella strana sensibilità per l'avventura imparata al cinema, sì: «Un giorno di ottobre vidi degli uomini in fila, nudi, che attendevano di essere trasferiti in un altro campo. Mi guardai intorno e non vidi né SS né kapo e senza ragionare mi spogliai e mi mischiai a loro. Per qualche buona stella nessuno se ne accorse e uscii da Auschwitz. Dopo la guerra, seppi che tutti i ragazzini del block 10 erano stati mandati alle camere a gas». Leon viene trasportato nel lager di Gross-Bosen, dove lavora come elettricista. Poi a Flossenbiirg, marciando notte e giorno. E infine, nel Terzo Reich che implodeva, nella città liberata di Donaueschingen: «Ero ridotto a un muselmanner (musulmano), come i nazisti chiamavano chi stava sempre piegato, più nella morte che nella vita. Avevo il tifo. Pesavo 35 chili. Ma ritrovai le mie sorelle: erano sopravvissute». Con l'aiuto dell'esercito di liberazione riprende a studiare, prima a Gottinga e poi a Varsavia: «Iniziai a pensare a cosa fare della mia vita e scelsi di diventare un ostetrico e un ginecologo. Per prendermi cura delle donne, perché sono loro che donano la vita. Volevo far nascere i bambini. Volevo essere utile alla vita». Diventa primario di un ospedale polacco, ma perde il lavoro nell'inasprirsi dell'antisemitismo sovietico, finché trova pace a Stoccolma, dove vive ancora oggi con la seconda moglie. Circondato dai figli, dai nipoti, dai 6mila dvd della sua collezione di film e da 150 papillon «che fanno parte di me stesso e della costruzione della mia dignità», oltre alle 250 registrazioni del Concerto per violino in Re maggiore, opera 61, di Ludwig Van Beethoven. Non è sereno, però. Perché in giro per il mondo l’intolleranza sobbolle: si sente male a sentire Donald Trump parlare di "deportazione" o a vedere Elon Musk che parla agli estremisti del partito Alter-native fur Deutschland. Gli fa orrore «chiunque urli slogan contro altri, chi divide tra un "noi" e un "loro" senza riconoscere che siamo tutti un solo sangue, perché compie il primo passo che porta a quelle camere a gas». Poche ore più tardi, nel suo abito scuro, prende la parola davanti ai grandi del mondo. Un valletto gli porge il braccio per aiutarlo, ma Leon accelera e col suo bastone e il farfallino cremisi lo stacca di netto. Appoggia i fogli al leggio e scandisce: «Gli astronomi ci insegnano che ci sono trilioni di sistemi solari e che il nostro pianeta è solo un granello in questo vasto cosmo, ed è assurdo che gli abitanti di questo granello si dividano in migliaia di gruppi ostili tra loro. Ci sono persone nella nostra Europa che vogliono far passare antisemitismo, omofobia e razzismo come fossero virtù. Noi sopravvissuti vi chiediamo: siate vigili. E impedite alle destre antidemocratiche di prevalere». Macron ascolta. Così come Zelenski, di fianco a re Carlo d'Inghilterra. E ascolta anche il presidente polacco Andrzej Duda, un neoconservatore al quale Leon Weintraub, che non odia ma neppure dimentica, poco fa, davanti al muro della morte di Auschwitz-Birkenau, ha rifiutato di stringere la mano.

Profilo a cura dell’Editore. Leon Weintraub (1926), origini ebreo-polacche, è un ex medico che vive a Stoccolma con la famiglia. È uno dei pochi sopravvissuti all'Olocausto, avendo vissuto la terribile esperienza di tre campi di concentramento. Sposato due volte, ha vari figli e nipoti. Ha scritto Die Versohnung mit dem Bosen ("Riconciliarsi col male"). Colleziona dvd di film, registrazioni di musica classica e papillon.

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