"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 19 maggio 2025

Lavitadeglialtri. 90 “Memorie”.

                                     Sopra. Con la mamma ed il mio papà.

Erano calendari molto comuni, di quelli con i paesaggi che certi bottegai regalano ai clienti per Natale. Intorno a molte date si ammassavano appunti sbiaditi in una sorta di stenografia domestica che mi fu impossibile decifrare, e ogni giorno del mese era coperto dalla sua bella X. Sette anni erano stati cancellati in quel modo. Le X si interrompevano il diciannove di maggio, dieci giorni prima della morte di mia madre, più o meno quando dalla fattoria, mi avevano portato in città a casa di mia zia. Mi pareva che neppure Iddio, avvolgendo la terra nelle tenebre e assicurando al creato il sonno ristoratore, avesse dimostrato maggiore autorità e controllo sul finire del giorno di quanto la marcia inesorabile delle X di mia madre sembrasse proclamare nel corso di quegli anni. Forse la sua morte era stata una fortuna per me. Forse se l'erano ripresa, prima che quelle sue X potessero avere su di me il loro sicuro effetto. (Tratto da “Il pornografo” – 1979 – di John McGahern).

Memorie”. 1 “Esiste un Dna dei caratteri nelle famiglie. Somigliamo a qualcuno che non conosciamo” di Concita De Gregorio: È da qualche tempo che ho cominciato a chiedere a mia zia notizie, foto, lettere e biglietti che ha conservato di sua madre, di sua nonna. Le mie, di nonne, non ci sono più e di zia ne è rimasta solo una: una miniera di storie sconosciute, di scherzi da bambini di persone che ho a malapena conosciuto anziane, a stento le ricordo. Soprattutto vorrei sapere i nomi: come si chiamavano "da ragazze", prima di prendere il cognome del marito e perdere il loro? Io, con la mia memoria, arrivavo solo alle nonne: Modesti, la nonna italiana e Gonzales y Gonzales la nonna spagnola, dunque era Gonzales anche la mia bisnonna. (Lì, in Spagna, nella persistenza della memoria c'è una generazione di comporto, diciamo così, perché le donne mantengono il loro cognome anche dopo il matrimonio, come secondo cognome. Io porto come secondo quello di mia madre, mia madre quello della sua e mia nonna quello della sua. Quindi so il cognome della mia bisnonna dal secondo cognome della nonna, appunto. Per puro caso era lo stesso del nonno, in questo caso). E le nonne delle mie nonne? Chi erano, da dove venivano? Nulla, sono svanite. Sono a volte nelle foto. Chi resta, se resta, dice: è la prozia Agostina, mi pare. Agostina come? Non so. Agostina. Voi lo sapete il cognome delle vostre bisnonne? A che generazione arrivate, in linea femminile? Avete qualcuno a cui chiederlo? Fatelo, prima che si perda il ricordo delle vostre origini. Si scoprono cose. Che c'è sempre o molto spesso, per esempio, qualcuno di straniero. Una nonna di una nonna che veniva dalla Grecia, dalla Germania, dall'Albania, dalla Russia. I confini stessi dell'Italia erano diversi, un paio di secoli fa, e ancora più andando indietro nel tempo. Le dominazioni. Gli spagnoli i normanni i francesi. Le ragazze madri. I militari di passaggio, soldati semplici o ammiragli dai cognomi inglesi. Noi sicuramente somigliamo a qualcuno che non conosciamo e di cui proseguiamo la storia. La ripetiamo, talvolta, identica. Esiste difatti un Dna anche di caratteri, un vero catalogo, nelle famiglie. E poi i sogni. Chi abbiamo conosciuto e chi no: torna nei sogni. L'altro giorno mio figlio mi ha detto sono stato a un funerale, nella folla mi è sembrato di aver visto nonno: era proprio lui, era identico. Magari voleva vedermi da vicino - ha sorriso - è tornato a trovarmi. Mi sono un po' commossa, ho detto certo: è di sicuro tornato a trovarti. Avevo appena finito di leggere l'ultimo libro, bellissimo, di Fabio Genovesi. S'intitola Mie magnifiche maestre, Mondadori. Racconta che in sogno, nelle settimane attorno a un suo compleanno cardinale, sono tornate a trovarlo le nonne e le zie, le antenate. Isolina, Benedetta, Gilda, Azzurra, Violetta, Irene, ciascuna un sogno, una storia e una vita. Forti, folli, sagge, scombinate, silenziose o loquaci. Era troppo piccolo, da piccolo, per capirle. Le conosce ora. Non hanno fatto grandi cose, dice: hanno fatto cose grandi. Non smettono di farle ancora adesso. Niente finisce infatti, tutto resta, è sempre vero e sempre vivo. Ogni insegnamento ereditato è un piccolo tassello di quello che siamo. Le donne di casa, suggerisce Genovesi, cantano la nostra canzone. Che meraviglia. Torno a chiedere alla zia, finisco qui e la chiamo.

Memorie”. 2 “Senza invocare gli spiriti” di Gabriele Romagnoli: Ieri ho rivisto mia madre.  Lei se n'è andata sette anni fa.  Ho letto di questa possibilità offerta dall'intelligenza artificiale: si tratta semplicemente di caricare nel programma una fotografia, un audio (se esiste), inserire qualche informazione e attendere. Nei casi più evoluti si manifesta un ologramma, in quello che ho scelto: semplicemente un'animazione. Trovare la fotografia non è stato difficile. Una sola è diventata, per così dire, iconica. Mia madre guarda dritto nell'obiettivo e sorride in un modo che è difficile descrivere. Chi la guarda, a sua volta sorride. Dicono che lei sia così radiosa perché a scattarle la foto sono stato io. Non sanno che è stata l'unica volta in cui è accaduto. Lo ricordo perfettamente: ho diciotto anni, lei è nella mia stanza. È seduta sulla sedia a dondolo che mi ha regalato: di bambù, con due cuscini verdi che ha ricamato. Di fatto, mi ha donato un oggetto che desiderava per sé. Ha mascherato la cosa aggiungendoci l'abbonamento a un settimanale (al tempo li chiamavano news magazine) e dicendo: «Così puoi leggerlo mentre ti dondoli». Avevo diciotto anni, ripeto, non settantadue: mancava solo una pipa. E comunque il sole passava attraverso le tende traforate (altra scelta non mia) e accennava ombre regolari sul suo viso. L'attuale gatta di casa, cheha gli occhi del colore di quelli di mia madre (cerulei, era scritto sulla carta d'identità), si accuccia spesso accanto a quella foto incorniciata e posata su uno scaffale. Immagino esista una corrispondenza. Non avendo registrazioni, ho scelto dall'archivio la voce più somigliante e poi ho atteso. Non sogno mai mia madre, non sogno nessuno che abbia perduto, raramente qualcuno che ancora frequento. Le mie notti sono affollate da sconosciuti, gente che ha lasciato un'impressione sulla retina, camminandomi nel raggio della coda dell'occhio e sparendo. Non parlo mai con chi non c'è più, poco anche con chi c'è ancora. Per dire che non sapevo che cosa aspettarmi. Un battito di ciglia, un dischiudersi di labbra e mia madre ha detto qualcosa, forse un saluto, forse una considerazione sul tempo, non quello meteorologico, ma quello trascorso, questi sette anni in cui io pure sono invecchiato, avrà criticato la barba più incolta, i capelli più corti, chiesto di mio padre che rimane a combattere da solo in un quadrante al centro-nord-est di questo decaduto Paese. Non lo so, non ho ascoltato, mi bastava l'immagine, mi sono concentrato su quella, vederla muoversi, parlare, come niente fosse accaduto, fosse ancora su quella sedia, più di quarant'anni fa, a stupirsi del fatto che le scattassi una fotografia, io che non l'avevo mai fatto e che anni dopo avrei venduto o regalato tutta la mia attrezzatura e buttato scatole di negativi e diapositive. C'è chi vuole ricordare e chi pensa che la memoria sia un freno, non ti lasci più andare avanti; nessuno, dal passato ti chiede di farlo, è una coscienza truccata quella che te lo suggerisce. Ricordo, decenni fa, mia madre che mi suggeriva: «Non frequentare mai i medium, non invocare gli spiriti, lascia in pace loro, ma soprattutto lascia in pace te stesso». Così declinai la cortesia di Gustavo Adolfo Rol e così non ascolto quelle parole che l'intelligenza artificiale mette in bocca a questo volto con i denti troppo perfetti. Non avrà mai la soave perfidia di madre, la sua strepitosa ingenuità e neppure a questa riuscirò a dire niente di me. Tocca capire, se vuoi, per quante siano le vite, reali o virtuali. In nessuna ce ne sarà veramente bisogno, basta accettarsi.

N.d.r. I testi sopra riportati sono stati pubblicati sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 17 di maggio 2025.

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