“Così Dio
salvò il Presidente-Re”, testo di Maurizio Valsania - professore di “Storia
americana” presso l'Università di Torino – pubblicato sul settimanale “Robinson”
del quotidiano “la Repubblica” del 4 di maggio 2025: Se esistono limiti al potere di
un presidente, fin dal discorso di Donald Trump del 4 marzo 2025 davanti al Congresso
in sessione plenaria questi limiti non si sono visti. In quel discorso, il
primo di fronte ai parlamentari nel suo secondo mandato, il presidente ha
annunciato grandi risultati nelle prime sei veloci settimane della sua
presidenza. Ha affermato di aver «riportato la libertà di parola» nel Paese. Ha
dichiarato che esistono soltanto due sessi, «maschio e femmina». Ha ricordato
ai presenti di aver ribattezzato unilateralmente non solo una distesa di acque
internazionali, ma anche la montagna più alta del Paese. Le eccentriche
affermazioni sembrano conformarsi all'opinione che Trump ha della presidenza,
virtualmente monarchica nel suo potere unilaterale. L'importante sezione della
Costituzione degli Usa riguardante il potere esecutivo, l'articolo 2, in effetti
non accorda al presidente un'autorità illimitata, Di fatto, però, ne fa l'unico
«Comandante in capo dell'esercito e della Marina degli Stati Uniti e della
Guardia nazionale dei numerosi Stati». Questo monopolio relativo all'uso della
forza è un modo con il quale Trump potrebbe avallare la sua dichiarazione del
2019, secondo cui egli sarebbe in grado di «fare tutto quello che voglio, da
presidente». Prima del discorso di Trump, i dimostranti in strada avevano
contestato una simile autorità. Su uno dei cartelli dei manifestanti si
leggeva: «Noi, il Popolo, non vogliamo falsi re a casa nostra». Con tali
parole, chi contestava riprendeva una preoccupazione nei confronti del potere
del presidente che si presentò più di duecento anni fa. Quando la Costituzione
americana fu scritta, molte persone - da chi aveva redatto il documento a chi
lo lesse - credettero che accordare al presidente simili poteri fosse
rischioso. Ratificato il 29 maggio 1790 da cittadini alquanto nervosi, dopo
molto penare e faticare, il testo della Costituzione aveva scatenato parecchie
controversie. Non si trattava soltanto del linguaggio, usato spesso in modo
vago, incluso il preambolo stesso - «Noi, il Popolo degli Stati Uniti». Il
disagio non era dovuto nemmeno alla stridente brevità del documento - con le
sue 4543 parole, quella degli Stati Uniti è la Costituzione scritta più concisa
tra le costituzioni delle grandi nazioni. No, a rendere quel documento
particolarmente problematico era il fatto che esso prospettava «una repubblica
monarchica, o se preferite una monarchia limitata», prendendo in prestito le
parole di John Adams. In seguito, nel 1797 Adams sarebbe diventato il secondo
presidente americano. Pur essendo un acce-so sostenitore della Costituzione,
Adams fu abbastanza imparziale da esaminare a fondo l'assetto politico della
nuova nazione. Vi trovò preoccupanti residui di monarchia britannica e tracce
di un potere regale i cui abusi incontrollati avevano portato le colonie a
esigere la loro indipendenza. «Il nome di presidente», non poté fare a meno di
scrivere Adams, al termine di una lettera indirizzata all'illustre avvocato
William Tudor, «non altera la natura del suo incarico, né riduce l'autorità e i
poteri regali che appaiono evidenti nel testo». Se per certi aspetti Adams si sentì
soltanto a disagio, quale professore di storia americana posso sottolineare che
all'epoca altri osservatori rimasero alquanto sconvolti. In un articolo del
1787 pubblicato sul Philadelphia Independent Gazetteer a firma "Old
Whig" - identità sconosciuta - si legge: «L'incarico di presidente degli
Stati Uniti mi sembra ammantato di poteri tali da essere pericolosi». In quanto
comandante in capo dell'esercito, il presidente americano «è in realtà un re,
tanto quanto è re il re della Gran Bretagna; e per di più è un re della peggior
specie, un re elettivo». Di conseguenza, come concluse l'autore di
quell'articolo, «dispero che possa esservi felicità negli Stati Uniti», almeno
fino a quando questo incarico non «sarà ridimensionato a un livello di potere
inferiore». La preoccupazione che il comandante in capo potesse promulgare la
legge marziale, a prescindere dalla legalità del provvedimento, si affacciò
nello stesso modo anche nelle menti degli americani che lessero la
Costituzione. Nel 1788, un patriota che si firmava con lo pseudonimo di
"Philadelphiensis" - il suo vero nome era Benjamin Workman - lanciò
un monito. Qualora il presidente decida di imporre la legge marziale, «la
vostra natura di liberi cittadini sarebbe mutata in quella di sudditi di un re
marziale». Un presidente che si trasformi in re marziale potrebbe «infliggere
volutamente la punizione più disdicevole a ogni tranquillo cittadino»,
continuava l'articolo, «con il pretesto di una disobbedienza o della minima
negligenza». Anche un altro potere conferito al presidente fu all'unanimità considerato
estremamente rischioso: quello di concedere la grazia a individui colpevoli di tradimento. L'Attorney
General del Maryland,
Luther Martin, era
convinto che il tradimento
che aveva le maggiori probabilità di verificarsi fosse «quello in cui lo stesso
presidente potrebbe essere implicato». Martin credeva che il presidente avrebbe
«messo al riparo dalle condanne i seguaci delle sue ambizioni, i collaboratori
e i complici delle sue infide pratiche, garantendo loro la grazia». George
Mason, il quale partecipò alla Constitutional Convention e redasse anche la bozza
della Costituzione dello Stato della Virginia, preannunciò un tetro scenario.
Egli tremava all'idea di un presidente che «potesse mettere al riparo da ogni
condanna tutti coloro che egli stesso aveva di nascosto istigato a commettere
il reato, scongiurando così il fatto che la sua stessa colpa potesse essere
scoperta». Chi scrisse la Costituzione, in verità, limitò il potere esecutivo
in modo significativo: il presidente degli Stati Uniti può essere incriminato
e, in caso di condanna per tradimento o altri reati gravi, può essere
destituito dal suo incarico. Nel frattempo, però, il presidente può creare
danni irreparabili. La Costituzione fu alla fine ratificata, alquanto
controvoglia in verità, poiché i cittadini americani temevano l'abuso di potere
del presidente. Più persuasiva delle limitazioni legali imposte alla carica, la
ferma convinzione che il popolo avrebbe scelto il suo leader con saggezza fece
pendere la bilancia a favore dell'approvazione. Il delegato John Dickinson
formulò una domanda retorica: «Un popolo virtuoso e ragionevole sceglierà
prepotenti o squilibrati come suoi leader?». Oltretutto, il common sense del
Diciottesimo secolo faceva ritenere improbabile che una persona senza virtù e
nobiltà d'animo potesse candidarsi alla carica più alta della nazione. La
fiducia degli americani nel loro primo presidente, l'integerrimo George
Washington, contribuì a convincerli che tutto sarebbe andato per il verso
giusto e che la loro Costituzione sarebbe stata sufficiente a tutelare la
repubblica. La raccolta Federalist Papers, contenente 85 articoli scritti per
persuadere gli elettori ad appoggiare la ratifica della Costituzione, era
imbevuta di questo ottimismo. Persone «dall'indole adeguata alla carica di
presidente degli Stati Uniti» erano disponibili in gran numero, si legge nel
Federalist numero 67. «Non è eccessivo affermare» si legge nel Federalist 68,
«che la probabilità di vedere quella posizione occupata da figure eminenti per
capacità e virtù sarà molto alta». John Adams non era così ottimista. Egli
esitò a lungo. E poi ribaltò la questione. «Nelle menti del popolo deve
trovarsi una passione positiva per il bene, pubblico», aveva scritto in una
lettera del 1776, «perché in caso contrario non potrà esservi un governo repubblicano,
né vera libertà». Dopo quasi 250 anni di vita repubblicana ininterrotta, gli
americani sono abituati a pensare che la loro nazione sia al sicuro, e questo
grazie a un sistema di pesi e contrappesi. Come continuò a ripetere Adams,
l'America ambisce a diventare «un governo di leggi, non di uomini». Gli
americani, in altre parole, hanno a lungo creduto che fossero le loro
istituzioni a fare la nazione. È vero però il contrario: il popolo, individui
in carne e ossa, è l'anima e la coscienza della repubblica. In definitiva,
tutto si riconduce all'indole di queste persone, e al controllo reale che esse
esercitano su chi diventa il loro leader più importante.
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