"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 11 maggio 2025

CosedalMondo. 45 “Dei Reggitori del Mondo”.


“Così Dio salvò il Presidente-Re”, testo di Maurizio Valsania - professore di “Storia americana” presso l'Università di Torino – pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 4 di maggio 2025: Se esistono limiti al potere di un presidente, fin dal discorso di Donald Trump del 4 marzo 2025 davanti al Congresso in sessione plenaria questi limiti non si sono visti. In quel discorso, il primo di fronte ai parlamentari nel suo secondo mandato, il presidente ha annunciato grandi risultati nelle prime sei veloci settimane della sua presidenza. Ha affermato di aver «riportato la libertà di parola» nel Paese. Ha dichiarato che esistono soltanto due sessi, «maschio e femmina». Ha ricordato ai presenti di aver ribattezzato unilateralmente non solo una distesa di acque internazionali, ma anche la montagna più alta del Paese. Le eccentriche affermazioni sembrano conformarsi all'opinione che Trump ha della presidenza, virtualmente monarchica nel suo potere unilaterale. L'importante sezione della Costituzione degli Usa riguardante il potere esecutivo, l'articolo 2, in effetti non accorda al presidente un'autorità illimitata, Di fatto, però, ne fa l'unico «Comandante in capo dell'esercito e della Marina degli Stati Uniti e della Guardia nazionale dei numerosi Stati». Questo monopolio relativo all'uso della forza è un modo con il quale Trump potrebbe avallare la sua dichiarazione del 2019, secondo cui egli sarebbe in grado di «fare tutto quello che voglio, da presidente». Prima del discorso di Trump, i dimostranti in strada avevano contestato una simile autorità. Su uno dei cartelli dei manifestanti si leggeva: «Noi, il Popolo, non vogliamo falsi re a casa nostra». Con tali parole, chi contestava riprendeva una preoccupazione nei confronti del potere del presidente che si presentò più di duecento anni fa. Quando la Costituzione americana fu scritta, molte persone - da chi aveva redatto il documento a chi lo lesse - credettero che accordare al presidente simili poteri fosse rischioso. Ratificato il 29 maggio 1790 da cittadini alquanto nervosi, dopo molto penare e faticare, il testo della Costituzione aveva scatenato parecchie controversie. Non si trattava soltanto del linguaggio, usato spesso in modo vago, incluso il preambolo stesso - «Noi, il Popolo degli Stati Uniti». Il disagio non era dovuto nemmeno alla stridente brevità del documento - con le sue 4543 parole, quella degli Stati Uniti è la Costituzione scritta più concisa tra le costituzioni delle grandi nazioni. No, a rendere quel documento particolarmente problematico era il fatto che esso prospettava «una repubblica monarchica, o se preferite una monarchia limitata», prendendo in prestito le parole di John Adams. In seguito, nel 1797 Adams sarebbe diventato il secondo presidente americano. Pur essendo un acce-so sostenitore della Costituzione, Adams fu abbastanza imparziale da esaminare a fondo l'assetto politico della nuova nazione. Vi trovò preoccupanti residui di monarchia britannica e tracce di un potere regale i cui abusi incontrollati avevano portato le colonie a esigere la loro indipendenza. «Il nome di presidente», non poté fare a meno di scrivere Adams, al termine di una lettera indirizzata all'illustre avvocato William Tudor, «non altera la natura del suo incarico, né riduce l'autorità e i poteri regali che appaiono evidenti nel testo». Se per certi aspetti Adams si sentì soltanto a disagio, quale professore di storia americana posso sottolineare che all'epoca altri osservatori rimasero alquanto sconvolti. In un articolo del 1787 pubblicato sul Philadelphia Independent Gazetteer a firma "Old Whig" - identità sconosciuta - si legge: «L'incarico di presidente degli Stati Uniti mi sembra ammantato di poteri tali da essere pericolosi». In quanto comandante in capo dell'esercito, il presidente americano «è in realtà un re, tanto quanto è re il re della Gran Bretagna; e per di più è un re della peggior specie, un re elettivo». Di conseguenza, come concluse l'autore di quell'articolo, «dispero che possa esservi felicità negli Stati Uniti», almeno fino a quando questo incarico non «sarà ridimensionato a un livello di potere inferiore». La preoccupazione che il comandante in capo potesse promulgare la legge marziale, a prescindere dalla legalità del provvedimento, si affacciò nello stesso modo anche nelle menti degli americani che lessero la Costituzione. Nel 1788, un patriota che si firmava con lo pseudonimo di "Philadelphiensis" - il suo vero nome era Benjamin Workman - lanciò un monito. Qualora il presidente decida di imporre la legge marziale, «la vostra natura di liberi cittadini sarebbe mutata in quella di sudditi di un re marziale». Un presidente che si trasformi in re marziale potrebbe «infliggere volutamente la punizione più disdicevole a ogni tranquillo cittadino», continuava l'articolo, «con il pretesto di una disobbedienza o della minima negligenza». Anche un altro potere conferito al presidente fu all'unanimità considerato estremamente rischioso: quello di concedere la grazia a individui colpevoli di tradimento.  L'Attorney  General  del  Maryland,  Luther  Martin,  era  convinto  che  il  tradimento che aveva le maggiori probabilità di verificarsi fosse «quello in cui lo stesso presidente potrebbe essere implicato». Martin credeva che il presidente avrebbe «messo al riparo dalle condanne i seguaci delle sue ambizioni, i collaboratori e i complici delle sue infide pratiche, garantendo loro la grazia». George Mason, il quale partecipò alla Constitutional Convention e redasse anche la bozza della Costituzione dello Stato della Virginia, preannunciò un tetro scenario. Egli tremava all'idea di un presidente che «potesse mettere al riparo da ogni condanna tutti coloro che egli stesso aveva di nascosto istigato a commettere il reato, scongiurando così il fatto che la sua stessa colpa potesse essere scoperta». Chi scrisse la Costituzione, in verità, limitò il potere esecutivo in modo significativo: il presidente degli Stati Uniti può essere incriminato e, in caso di condanna per tradimento o altri reati gravi, può essere destituito dal suo incarico. Nel frattempo, però, il presidente può creare danni irreparabili. La Costituzione fu alla fine ratificata, alquanto controvoglia in verità, poiché i cittadini americani temevano l'abuso di potere del presidente. Più persuasiva delle limitazioni legali imposte alla carica, la ferma convinzione che il popolo avrebbe scelto il suo leader con saggezza fece pendere la bilancia a favore dell'approvazione. Il delegato John Dickinson formulò una domanda retorica: «Un popolo virtuoso e ragionevole sceglierà prepotenti o squilibrati come suoi leader?». Oltretutto, il common sense del Diciottesimo secolo faceva ritenere improbabile che una persona senza virtù e nobiltà d'animo potesse candidarsi alla carica più alta della nazione. La fiducia degli americani nel loro primo presidente, l'integerrimo George Washington, contribuì a convincerli che tutto sarebbe andato per il verso giusto e che la loro Costituzione sarebbe stata sufficiente a tutelare la repubblica. La raccolta Federalist Papers, contenente 85 articoli scritti per persuadere gli elettori ad appoggiare la ratifica della Costituzione, era imbevuta di questo ottimismo. Persone «dall'indole adeguata alla carica di presidente degli Stati Uniti» erano disponibili in gran numero, si legge nel Federalist numero 67. «Non è eccessivo affermare» si legge nel Federalist 68, «che la probabilità di vedere quella posizione occupata da figure eminenti per capacità e virtù sarà molto alta». John Adams non era così ottimista. Egli esitò a lungo. E poi ribaltò la questione. «Nelle menti del popolo deve trovarsi una passione positiva per il bene, pubblico», aveva scritto in una lettera del 1776, «perché in caso contrario non potrà esservi un governo repubblicano, né vera libertà». Dopo quasi 250 anni di vita repubblicana ininterrotta, gli americani sono abituati a pensare che la loro nazione sia al sicuro, e questo grazie a un sistema di pesi e contrappesi. Come continuò a ripetere Adams, l'America ambisce a diventare «un governo di leggi, non di uomini». Gli americani, in altre parole, hanno a lungo creduto che fossero le loro istituzioni a fare la nazione. È vero però il contrario: il popolo, individui in carne e ossa, è l'anima e la coscienza della repubblica. In definitiva, tutto si riconduce all'indole di queste persone, e al controllo reale che esse esercitano su chi diventa il loro leader più importante.

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