Sopra. Soldati della "Unione delle repubbliche socialiste sovietiche" issano il vessillo sul Reichstag.
“La festa
dell’Europa (che l’ha scordata)”, testo di Alessandro Barbero pubblicato su
“il Fatto Quotidiano” di ieri, venerdì 9 di maggio 2025: Il 2 maggio 1945 il
feldmaresciallo Sir Alan Brooke, capo di stato maggiore delle forze armate
britanniche, annotò nel suo diario: “La notte scorsa, al giornale radio di
mezzanotte, è stata annunciata la morte di Hitler. Dopo aver desiderato questa
notizia per sei anni, quando l’ho finalmente sentita non ho provato nessuna
emozione. Non so perché. Ho capito subito che questo era il punto finale della
guerra, ma sono così stanco che il mio cervello non è più capace di sensazioni
intense”. “La Germania crolla”, aggiunse il giorno dopo. “Il fronte italiano si
è arreso”. I migliori fra i generali tedeschi sapevano da molto tempo che la
guerra era perduta. Dopo lo sbarco in Normandia, al comando della Wehrmacht che
gli telefonava preoccupato da Berlino chiedendo cosa si poteva fare, il
feldmaresciallo von Rundstedt, OB West ovvero comandante in capo a Occidente,
aveva risposto: “Finite la guerra, idioti!”. Ma finché Hitler era vivo, nessuno
poteva proporlo seriamente (e von Rundstedt perse il posto il giorno dopo).
Ora, invece, morto il Führer la strada per la pace in Europa era spalancata;
senonché, come si scoprì subito, finire una guerra era più difficile che
cominciarla. Il problema principale è che i tedeschi erano prontissimi a fare
la pace con gli alleati occidentali, ma non con i russi; anzi, da tempo
coltivavano la speranza che gli angloamericani si sarebbero uniti a loro nella
crociata contro la minaccia bolscevica – giacché la propaganda nazista aveva
smesso da un pezzo di parlare della razza padrona e del suo Lebensraum a Est, e
pretendeva invece di parlare a nome di un’Europa unita nella difesa contro le
orde russe. Non era soltanto la leadership nazista a crederci: ci credeva anche
la truppa. L’asso degli Stuka, Hans-Ulrich Rudel, nazista convinto che anche
dopo la guerra continuò a frequentare gli ambienti neonazisti, nelle sue
memorie ricorda che negli ultimi giorni della guerra rifletteva continuamente
sull’“immensa responsabilità” che gli alleati occidentali si stavano assumendo
davanti alla Storia, “stroncando la Germania e rafforzando la Russia”. In
realtà l’elettorato americano o britannico, in quei giorni, non avrebbe mai
accettato una nuova guerra contro il popolo russo, i cui immensi sacrifici
erano stati elogiati per anni dalla stampa alleata. Ivece Churchill, se fosse
dipeso solo da lui, forse ci avrebbe fatto un pensierino: anzi, negli ultimi
mesi aveva chiesto ai suoi generali di valutare la possibilità di riprendere la
guerra contro l’Urss una volta sconfitti i tedeschi. Per fortuna i generali gli
avevano risposto che sarebbe stata una pazzia, e anche Winston alla fine rinsavì.
Dopo la guerra, però, sarebbe diventato uno dei più accaniti promotori e
propagandisti della guerra fredda contro gli ex-alleati, e l’inventore della
sciagurata formula della “cortina di ferro”. E dunque i generali tedeschi dopo
la morte di Hitler si precipitarono a trattare con gli angloamericani, ma non
con i sovietici. Il comandante in capo della Wehrmacht, Keitel, che sarà poi
impiccato a Norimberga (a dimostrazione che aveva fatto molto male a fidarsi),
incontrò Montgomery, comandante delle forze britanniche in Europa, già il 4
maggio promettendo la resa incondizionata di tutte le forze tedesche a
Occidente; non era sicuro, però, di farsi obbedire da quelle impegnate in
Cecoslovacchia, che stavano reprimendo con l’abituale ferocia l’insurrezione di
Praga. I russi, comprensibilmente, non erano entusiasti di questa strana specie
di resa a metà. L’indomani, 5 maggio, Alan Brooke annotò: “Difficoltà di
convincere i russi, combinata con la grande riluttanza dei tedeschi ad
arrendersi ai russi, da cui sono terrorizzati”. La gestione della resa
comportava problemi concreti enormi: nella sola Danimarca c’era un milione di
soldati tedeschi, più 400.000 prigionieri sovietici e due milioni di civili
tedeschi da sgombrare dalle province annesse al Reich. I tedeschi continuavano
a combattere contro i sovietici e a firmare capitolazioni locali con gli
alleati occidentali: il 5 maggio tutte le truppe in Baviera si arresero agli
americani. Alla fine il comandante supremo alleato in Occidente, Eisenhower,
futuro presidente degli Stati Uniti (non un granché come generale, ma
preziosissimo come diplomatico, secondo Alan Brooke) decise che quell’ambiguità
era politicamente inaccettabile e pretese che i tedeschi si presentassero al
comando supremo alleato, a Reims, per firmare la resa incondizionata della
Germania su tutti i fronti. Il 7 maggio Jodl, capo di stato maggiore della
Wehrmacht, anche lui poi impiccato a Norimberga, volò a Reims e firmò la resa
alla presenza di un generale americano e uno sovietico. Erano le due del mattino
e la resa doveva avere effetto dalle 23 del giorno 8, perché i tedeschi
volevano ancora due giorni di tempo per far fuggire le loro truppe davanti ai
russi e consegnarle agli angloamericani. A questo punto le questioni di forma
cominciarono a prevalere su quelle di sostanza; non a torto, vista l’importanza
simbolica che diamo ancora oggi a date e anniversari. I sovietici fecero sapere
che il loro inviato a Reims non aveva i poteri per accettare la resa della
Germania e che la firma doveva essere ripetuta, ma stavolta a Berlino, capitale
del Reich – nonché appena occupata dall’Armata Rossa, che aveva perso 80.000
morti per arrivare ad alzare la bandiera rossa sul Reichstag. Eisenhower trovò
che la richiesta era ragionevolissima, anche perché nel frattempo la Wehrmacht
continuava a resistere fanaticamente sul fronte orientale e a sterminare gli
insorti a Praga, dove il comandante tedesco, il feldmaresciallo Schörner, aveva
informato i suoi soldati che la guerra era finita a Occidente, ma che arrendersi
ai russi era fuori discussione. Perciò Eisenhower concordò con i sovietici il
testo di una resa più ampia e definitiva, fece portare a Berlino i comandanti
della Wehrmacht e lì, all’una di mattina del 9, Keitel firmò la resa di tutte
le forze armate tedesche al comando supremo alleato e al comando dell’Armata
Rossa. Ma l’atto venne retrodatato alla sera dell’8, perché quella era la
scadenza già pubblicamente annunciata, e in tutti i paesi alleati fin dalla
mattina dell’8 la gente era scesa in piazza a festeggiare quello che venne
subito chiamato il VE Day, il giorno della Vittoria in Europa (giacché la
guerra non era ancora finita nel Pacifico contro il Giappone; e nessuno poteva
immaginare che sarebbe durata solo altri tre mesi). Quella sera, Alan Brooke scrisse
nel suo diario: “Sono convinto più che mai che c’è un Dio onnipotente che si
prende cura del destino di questo mondo. Avevo pochi dubbi prima che
cominciasse la guerra, ma ora sono più convinto che mai… Quando avremo imparato
ad amare gli altri come noi stessi, la guerra cesserà di esistere. Ma ci
vorranno ancora secoli. Per adesso, possiamo solo sforzarci di avere relazioni
sempre più amichevoli con quelli che ci troviamo intorno”. I festeggiamenti del
Victory Day in quasi tutto l’Occidente sono stati rapidamente dimenticati: oggi
quel giorno è festivo soltanto in Francia, dove più di 500 strade si chiamano
“rue du 8 Mai 1945”. In Russia, dove la folla si riversò in piazza solo il 9
maggio, è quello il giorno ufficialmente celebrato come Festa della Vittoria;
anche lì, però, il ricordo non si è mantenuto ininterrotto da allora: giorno
festivo nei primi anni, il 9 maggio cessò di esserlo nel 1947 e lo ridiventò
solo nel 1965, nel pieno della svolta neostalinista di Breznev, e la parata
sulla Piazza Rossa è diventata un evento annuale solo dal 1995. (…).
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