(…). …gli insegnanti che fanno di tutto per
svolgere al meglio il loro lavoro ci sono anche oggi: solo che sono sotto
osservazione. È di questi giorni il caso di Gaia Righetto, docente precaria di
Treviso e attivista di un centro sociale, cosa che in teoria non è vietata da
nessuna indicazione nazionale, neanche in latino. Gaia Righetto ha accettato
una supplenza presso una scuola secondaria di primo grado, ma di fatto non è
quasi riuscita a insegnare, perché è finita subito in prima pagina in quanto
indegna ("Righetto come Salis, non può insegnare''), ed è stata segnalata
all'ufficio scolastico regionale. Perché, appunto, è un'attivista. A sostenerlo
è il deputato leghista Rossano Sasso, che scrive questo: «Abbiamo troppi
docenti fanatici e ideologizzati nelle nostre scuole, e anche quelli violenti,
nei fatti o nelle parole, stanno diventando numerosi. Cassaro, Salis, Raimo,
Righetto, solo per citare i più noti. Sarebbe il caso di lasciare fuori dalla
scuola i cattivi maestri e le cattive maestre». La proposta: un test
attitudinale per insegnare e, già che ci siamo, una rivisitazione del Codice
penale. Ora, non conosciamo ancora l'opinione del ministro Valditara, ma è al
lavoro una commissione ministeriale sul nuovo codice etico degli insegnanti, da
affiancare al codice di comportamento della pubblica amministrazione che ha
portato alle sanzioni contro Christian Raimo e che già ammonisce: «Il
dipendente è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa
nuocere al prestigio, al decoro o all'immagine dell'amministrazione di
appartenenza o della pubblica amministrazione in generale». Magari, invece di
accalorarci contro gli insegnanti distratti e incapaci di riconoscere la
sofferenza degli alunni, bisognerebbe sostenerli. E, magari ancora, parlare con
gli adolescenti invece di rappresentarli unicamente come prede degli abissi
della rete. (…). (Tratto da “Quel
codice etico per sottomettere i prof che pensano” di Loredana Lipperini
pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 4 di aprile 2025).
“Il grande
romanzo della nostra scuola”, testo dello scrittore Paolo Di Paolo
pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 4 di
maggio 2025: Chi, nel dibattito pubblico, parla di scuola il più delle volte ne sa
poco. Chi pontifica sulla scuola, se
possibile, ancora meno. L'unico vero rapporto con quel mondo risale all'epoca
delle pagelle, e lì si è fermato. Anche per questo ha un valore moltiplicato il
saggio narrativo che Mario Isnenghi titola Autobiografia della scuola. Da De
Sanctis a don Mi/ani (il Mulino). Si tratta di un'autentica immersione nelle
esperienze raccontate da chi ha fatto scuola nel corso di un secolo, quello che
separa grossomodo l'unità d'Italia dalla linea infuocata del 1968. E non so se
uno storico rigoroso come Isnenghi, pure molto abile a narrare liberamente
senza i paludamenti e i tic dello storiografo accademico, troverebbe congruo
l'aggettivo - generico ma sincero - che mi appresto a usare: commovente. È
commovente il formicolio di storie minime, anche laterali, che ricompone nella sua
traversata, è commovente quel maestro anzi professore con cui romanzescamente
si apre il saggio. Tale Ernst Gnad, classe 1832, spedito nei territori
veneto-friulani ancora soggetti all'Austria. Con gli studenti che, prima della
battaglia di Custoza, gli si presentano in delegazione per chiedergli di non
fare più lezione in tedesco. È commovente la figura di Italia Donati
(1863-1886), «prototipo della "maestrina" perseguitata dalle
malelingue e dai potenti». Muore suicida con l'accusa allora infamante di avere
abortito. Come Isnenghi fa presto notare, in tutta Italia - fra 1877 e 1900 -
«solo l'esiguo numero di 224 donne corona il proprio percorso di studi,
filtrando gli sbarramenti mentali e istituzionali, e perviene alla laurea».
Fare l'Italia, in questa prospettiva, è un lavoro di cucitura e ricucitura
faticoso e spesso ingrato, meglio: un lavorio tenace e ostinato. Nelle prime
righe della premessa Isnenghi sembra voler tributare il suo opportuno omaggio a
quei giovani maestri che per generazioni sono andati e continuano ad andare a
imparare il mestiere lontano da casa, da nord a sud e soprattutto da sud a
nord. Lo storico parla di «dimensione non localista del lavoro scolastico», e
ce ne lascia intravvedere in chiave per l'appunto spaziotemporale la ricaduta.
O, bisognerebbe dire, l'esito: perché fare scuola significa sempre alimentare
l'ideale senza perdere di vista il reale. Il concretissimo giorno per giorno:
con cui hanno da confrontarsi, per dire, anche quegli intellettuali votati o
costretti alla prassi che di tanto in tanto prestano le loro energie
all'istituzione. Quel De Sanctis evocato già nel sottotitolo del libro avrebbe
forse preferito concentrarsi esclusivamente, al riparo di una biblioteca, sulla
sua peraltro decisiva Storia della letteratura italiana; e invece gli tocca
fare il ministro della Pubblica istruzione. Isnenghi parla di un «compulsivo»
fare per mettere in moto la macchina della scuola. Filo napoletano, talvolta
brusco e imperioso, tenta di strappare le scuole ai frati e alle suore; incarna
in sé il provveditore agli studi di una nazione neonata e non perde mai di
vista l'esorbitante dato sull'analfabetismo: 78%! «Non sono liberi - commenta -
i contadini ignoranti delle provincie napoletane... la cui anima appartiene al
confessore, al notaio, all'uomo di legge, al proprietario, a tutti quelli che
hanno interesse di volgerli, d'impadronirsene». Che poi è la grande conclusione
dei Promessi sposi, il vero "sugo", con Renzo che finalmente si
decide a fare impadronire i figli di quella «birberia» che è il leggere e lo
scrivere. Un merito fra i meriti del volume di Isnenghi è quello di restituire
a Cuore un po' di simpatia: l'Eco dell'Elogio di Franti perdeva di vista, o
fingeva di perdere di vista l'imponente operazione culturale che quel libro
significò nell'Italia postunitaria. Trecentomila copie già solo nei primi due
decenni. De Amicis, con quella classe stipata di alunni di ogni provenienza
regionale, intende mettere alla prova il funzionamento di un'intera società.
Una terza elementare è come un Paese appena nato, e viceversa. Autobiografia
della scuola descrive questo farsi, insistendo sull'educazione delle donne,
sull'evoluzione dei progetti educativi, sul "viaggio in Italia" di
professori e maestri, un nomadismo decisivo benché faticoso. Fino a quello
strano vicolo quasi cieco della scuola fascista, autarchica, censoria, tra
giuramenti, epurazioni, Patti lateranensi che riportano in campo
prepotentemente l'ipoteca clericale sulla scuola. E Riforma Gentile. Il finale,
per ammissione dell'autore, è «in dissolvenza»: Isnenghi si ferma a don Milani,
un prete certo, ma capace di muoversi fra «esigenti concezioni della scuola e
del mondo». La cultura aziendale e le leggi del mercato, via via, hanno
contraddetto e forse cancellato anche lui.
Me lo ricordo, l’unico sette in condotta
della mia vita. Andò così. Alla fine degli anni 80, inizio dei 90, l’Anonima sequestri
aveva rapito due ragazzi, prima Cesare Casella, poi Carlo Celadon. Sapevamo che
erano tenuti prigionieri in Aspromonte, il complesso montuoso subito sopra a
Reggio Calabria. Che erano in catene, trattati come bestie, che le loro
famiglie erano ricattate, che avevano già pagato miliardi di riscatto senza
riaverli indietro. Così, i ragazzi delle scuole superiori di Reggio Calabria
decisero di fare sciopero per dire: «La ‘ndrangheta non ci spaventa».
Soprattutto: «La ‘ndrangheta non siamo noi». E di andare a urlarlo sul corso
Garibaldi e davanti al palazzo del Comune. Il preside ci aveva avvertiti: era
un prete molto inserito, viveva proprio in Aspromonte. Disse: «Ve lo vieto». E
poi: «Tanto non li libereranno». Infine minacciò di farci abbassare il voto in
condotta, e così andò. Bisognerebbe chiedersi a cosa serva, la stretta sul voto
in condotta decisa dall’ineffabile ministro Valditara. A cosa serva far entrare
la Digos dentro a un liceo per contrastare un sit-in pacifico, com’è successo
in uno Scientifico di Roma. Che senso abbia far vivere gli studenti sotto a una
costante minaccia: se non hanno 9 in condotta negli ultimi tre anni non
potranno avere il massimo dei voti alla maturità. Se hanno 5 non possono
accedervi. Se hanno 6, devono fare un esame di riparazione. Che studenti vuole
Valditara? Ragazzi che rinunciano a scendere in piazza per qualcosa che
ritengono giusto per paura delle ritorsioni dello Stato? Minacciati di continue
punizioni, in caso facciano sentire la loro voce? Davvero, dopo trent’anni di
studi di pedagogia, c’è ancora qualcuno che crede che sia la pena a sortire
effetti? Nessuno di noi ha mai studiato per paura. Del giorno in cui la maestra
mi costrinse a stare per ore in ginocchio sulla sedia di ferro, per non aver
fatto le 37 pagine di analisi grammaticale assegnate, non ricordo nient’altro
che l’umiliazione. Del motivo per cui mi sono appassionata alle parole, alla
letteratura, alla storia, alla filosofia, al francese, ricordo invece lezioni
incantevoli, libri che mi aprivano mondi, professori che ascoltavano e sapevano
comunicare. È davvero quella del sorvegliare e punire la scuola cui si vuole
tornare? In questi giorni in cui non si parla d’altro che di disagio giovanile,
confrontandomi con chi di “ragazzi interrotti” si intende, come Matteo Lancini,
Massimo Ammaniti e Massimo Recalcati, una sola cosa ho capito: agli adolescenti
serve, oggi più che mai, una relazione sana con un adulto di riferimento. Lì,
possono trovare il canale in cui il disagio si esprime prima della tragedia. Lì
possono scattare i campanelli d’allarme. Lì si curano le ferite. Nessuna
relazione sana si è mai fondata sulla minaccia o sulla paura. Basterebbe
seguire la logica, per capirlo. Ma per questo governo è molto più semplice
affidarsi alla propaganda, che al ragionamento. Ed è esattamente qui, che
cominciano i problemi. (Tratto da “Sorvegliare
e punire” di Annalisa Cruzzocrea, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di
Repubblica” dell’11 di aprile 2025).
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