"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 12 maggio 2025

Doveravatetutti. 28 Paolo Di Paolo: «Fare scuola significa sempre alimentare l'ideale senza perdere di vista il reale. Il concretissimo giorno per giorno».


(…). …gli insegnanti che fanno di tutto per svolgere al meglio il loro lavoro ci sono anche oggi: solo che sono sotto osservazione. È di questi giorni il caso di Gaia Righetto, docente precaria di Treviso e attivista di un centro sociale, cosa che in teoria non è vietata da nessuna indicazione nazionale, neanche in latino. Gaia Righetto ha accettato una supplenza presso una scuola secondaria di primo grado, ma di fatto non è quasi riuscita a insegnare, perché è finita subito in prima pagina in quanto indegna ("Righetto come Salis, non può insegnare''), ed è stata segnalata all'ufficio scolastico regionale. Perché, appunto, è un'attivista. A sostenerlo è il deputato leghista Rossano Sasso, che scrive questo: «Abbiamo troppi docenti fanatici e ideologizzati nelle nostre scuole, e anche quelli violenti, nei fatti o nelle parole, stanno diventando numerosi. Cassaro, Salis, Raimo, Righetto, solo per citare i più noti. Sarebbe il caso di lasciare fuori dalla scuola i cattivi maestri e le cattive maestre». La proposta: un test attitudinale per insegnare e, già che ci siamo, una rivisitazione del Codice penale. Ora, non conosciamo ancora l'opinione del ministro Valditara, ma è al lavoro una commissione ministeriale sul nuovo codice etico degli insegnanti, da affiancare al codice di comportamento della pubblica amministrazione che ha portato alle sanzioni contro Christian Raimo e che già ammonisce: «Il dipendente è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all'immagine dell'amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale». Magari, invece di accalorarci contro gli insegnanti distratti e incapaci di riconoscere la sofferenza degli alunni, bisognerebbe sostenerli. E, magari ancora, parlare con gli adolescenti invece di rappresentarli unicamente come prede degli abissi della rete. (…). (Tratto da “Quel codice etico per sottomettere i prof che pensano” di Loredana Lipperini pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 4 di aprile 2025).

“Il grande romanzo della nostra scuola”, testo dello scrittore Paolo Di Paolo pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 4 di maggio 2025: Chi, nel dibattito pubblico, parla di scuola il più delle volte ne sa poco.  Chi pontifica sulla scuola, se possibile, ancora meno. L'unico vero rapporto con quel mondo risale all'epoca delle pagelle, e lì si è fermato. Anche per questo ha un valore moltiplicato il saggio narrativo che Mario Isnenghi titola Autobiografia della scuola. Da De Sanctis a don Mi/ani (il Mulino). Si tratta di un'autentica immersione nelle esperienze raccontate da chi ha fatto scuola nel corso di un secolo, quello che separa grossomodo l'unità d'Italia dalla linea infuocata del 1968. E non so se uno storico rigoroso come Isnenghi, pure molto abile a narrare liberamente senza i paludamenti e i tic dello storiografo accademico, troverebbe congruo l'aggettivo - generico ma sincero - che mi appresto a usare: commovente. È commovente il formicolio di storie minime, anche laterali, che ricompone nella sua traversata, è commovente quel maestro anzi professore con cui romanzescamente si apre il saggio. Tale Ernst Gnad, classe 1832, spedito nei territori veneto-friulani ancora soggetti all'Austria. Con gli studenti che, prima della battaglia di Custoza, gli si presentano in delegazione per chiedergli di non fare più lezione in tedesco. È commovente la figura di Italia Donati (1863-1886), «prototipo della "maestrina" perseguitata dalle malelingue e dai potenti». Muore suicida con l'accusa allora infamante di avere abortito. Come Isnenghi fa presto notare, in tutta Italia - fra 1877 e 1900 - «solo l'esiguo numero di 224 donne corona il proprio percorso di studi, filtrando gli sbarramenti mentali e istituzionali, e perviene alla laurea». Fare l'Italia, in questa prospettiva, è un lavoro di cucitura e ricucitura faticoso e spesso ingrato, meglio: un lavorio tenace e ostinato. Nelle prime righe della premessa Isnenghi sembra voler tributare il suo opportuno omaggio a quei giovani maestri che per generazioni sono andati e continuano ad andare a imparare il mestiere lontano da casa, da nord a sud e soprattutto da sud a nord. Lo storico parla di «dimensione non localista del lavoro scolastico», e ce ne lascia intravvedere in chiave per l'appunto spaziotemporale la ricaduta. O, bisognerebbe dire, l'esito: perché fare scuola significa sempre alimentare l'ideale senza perdere di vista il reale. Il concretissimo giorno per giorno: con cui hanno da confrontarsi, per dire, anche quegli intellettuali votati o costretti alla prassi che di tanto in tanto prestano le loro energie all'istituzione. Quel De Sanctis evocato già nel sottotitolo del libro avrebbe forse preferito concentrarsi esclusivamente, al riparo di una biblioteca, sulla sua peraltro decisiva Storia della letteratura italiana; e invece gli tocca fare il ministro della Pubblica istruzione. Isnenghi parla di un «compulsivo» fare per mettere in moto la macchina della scuola. Filo napoletano, talvolta brusco e imperioso, tenta di strappare le scuole ai frati e alle suore; incarna in sé il provveditore agli studi di una nazione neonata e non perde mai di vista l'esorbitante dato sull'analfabetismo: 78%! «Non sono liberi - commenta - i contadini ignoranti delle provincie napoletane... la cui anima appartiene al confessore, al notaio, all'uomo di legge, al proprietario, a tutti quelli che hanno interesse di volgerli, d'impadronirsene». Che poi è la grande conclusione dei Promessi sposi, il vero "sugo", con Renzo che finalmente si decide a fare impadronire i figli di quella «birberia» che è il leggere e lo scrivere. Un merito fra i meriti del volume di Isnenghi è quello di restituire a Cuore un po' di simpatia: l'Eco dell'Elogio di Franti perdeva di vista, o fingeva di perdere di vista l'imponente operazione culturale che quel libro significò nell'Italia postunitaria. Trecentomila copie già solo nei primi due decenni. De Amicis, con quella classe stipata di alunni di ogni provenienza regionale, intende mettere alla prova il funzionamento di un'intera società. Una terza elementare è come un Paese appena nato, e viceversa. Autobiografia della scuola descrive questo farsi, insistendo sull'educazione delle donne, sull'evoluzione dei progetti educativi, sul "viaggio in Italia" di professori e maestri, un nomadismo decisivo benché faticoso. Fino a quello strano vicolo quasi cieco della scuola fascista, autarchica, censoria, tra giuramenti, epurazioni, Patti lateranensi che riportano in campo prepotentemente l'ipoteca clericale sulla scuola. E Riforma Gentile. Il finale, per ammissione dell'autore, è «in dissolvenza»: Isnenghi si ferma a don Milani, un prete certo, ma capace di muoversi fra «esigenti concezioni della scuola e del mondo». La cultura aziendale e le leggi del mercato, via via, hanno contraddetto e forse cancellato anche lui.

Me lo ricordo, l’unico sette in condotta della mia vita. Andò così. Alla fine degli anni 80, inizio dei 90, l’Anonima sequestri aveva rapito due ragazzi, prima Cesare Casella, poi Carlo Celadon. Sapevamo che erano tenuti prigionieri in Aspromonte, il complesso montuoso subito sopra a Reggio Calabria. Che erano in catene, trattati come bestie, che le loro famiglie erano ricattate, che avevano già pagato miliardi di riscatto senza riaverli indietro. Così, i ragazzi delle scuole superiori di Reggio Calabria decisero di fare sciopero per dire: «La ‘ndrangheta non ci spaventa». Soprattutto: «La ‘ndrangheta non siamo noi». E di andare a urlarlo sul corso Garibaldi e davanti al palazzo del Comune. Il preside ci aveva avvertiti: era un prete molto inserito, viveva proprio in Aspromonte. Disse: «Ve lo vieto». E poi: «Tanto non li libereranno». Infine minacciò di farci abbassare il voto in condotta, e così andò. Bisognerebbe chiedersi a cosa serva, la stretta sul voto in condotta decisa dall’ineffabile ministro Valditara. A cosa serva far entrare la Digos dentro a un liceo per contrastare un sit-in pacifico, com’è successo in uno Scientifico di Roma. Che senso abbia far vivere gli studenti sotto a una costante minaccia: se non hanno 9 in condotta negli ultimi tre anni non potranno avere il massimo dei voti alla maturità. Se hanno 5 non possono accedervi. Se hanno 6, devono fare un esame di riparazione. Che studenti vuole Valditara? Ragazzi che rinunciano a scendere in piazza per qualcosa che ritengono giusto per paura delle ritorsioni dello Stato? Minacciati di continue punizioni, in caso facciano sentire la loro voce? Davvero, dopo trent’anni di studi di pedagogia, c’è ancora qualcuno che crede che sia la pena a sortire effetti? Nessuno di noi ha mai studiato per paura. Del giorno in cui la maestra mi costrinse a stare per ore in ginocchio sulla sedia di ferro, per non aver fatto le 37 pagine di analisi grammaticale assegnate, non ricordo nient’altro che l’umiliazione. Del motivo per cui mi sono appassionata alle parole, alla letteratura, alla storia, alla filosofia, al francese, ricordo invece lezioni incantevoli, libri che mi aprivano mondi, professori che ascoltavano e sapevano comunicare. È davvero quella del sorvegliare e punire la scuola cui si vuole tornare? In questi giorni in cui non si parla d’altro che di disagio giovanile, confrontandomi con chi di “ragazzi interrotti” si intende, come Matteo Lancini, Massimo Ammaniti e Massimo Recalcati, una sola cosa ho capito: agli adolescenti serve, oggi più che mai, una relazione sana con un adulto di riferimento. Lì, possono trovare il canale in cui il disagio si esprime prima della tragedia. Lì possono scattare i campanelli d’allarme. Lì si curano le ferite. Nessuna relazione sana si è mai fondata sulla minaccia o sulla paura. Basterebbe seguire la logica, per capirlo. Ma per questo governo è molto più semplice affidarsi alla propaganda, che al ragionamento. Ed è esattamente qui, che cominciano i problemi. (Tratto da “Sorvegliare e punire” di Annalisa Cruzzocrea, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” dell’11 di aprile 2025).

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