Nel novembre del '44 lei incontrò Hitler. «Berlino era in rovina, noi vivevamo nella cantina del nostro palazzo a causa dei bombardamenti continui. Tramite la zia Hilde, la sorella della matrigna, che lavorava per Goebbels al ministero della Propaganda, fui invitata con altri bambini "privilegiati" a far visita al bunker. Avevo sette anni».
Che ricordo ne serba? «Terrificante, non ho mai compreso il senso di quella gita. Vivevo in un palazzo a pochi isolati, o meglio, stavamo già nella cantina per i bombardamenti continui. Avevamo perso tutto, non avevamo da mangiare, non dormivamo, Berlino aveva un odore terrificante, non c'erano più gas e luce, solo candele che bruciavano gli occhi. L'inferno. Dentro al bunker si viveva come se niente fosse. Mi aspettavo di incontrare il grande uomo, alto e persino bello, come chiunque cresciuto sotto il nazismo pensava. Ci venne incontro un vecchio invalido, ricurvo, con un Parkinson in fase avanzata, tenuto insieme da farmaci e psicofarmaci. Si trascinava, mi diede la mano sinistra molliccia. Dormimmo persino in quel bunker, non vedevo l'ora di uscirne».
Nel bunker è tornata con il suo ultimo libro. «Volevo descrivere Hitler per quel che era: un uomo finito, di 56 anni, che si è sottratto alle sue responsabilità. Ho sentito il bisogno di farlo ora che storicamente la sua figura sta subendo una sorta di normalizzazione. Poco tempo fa i giornali hanno riportato la vicenda di un ragazzino che si è fatto confezionare la torta di compleanno con il volto del Fùhrer. Succede ogni giorno qualcosa che solamente cinque anni fa non ci saremmo sognati. In Austria ha vinto l'estrema destra, in Germania e non solo gli ebrei hanno paura. Io ricordo ancora i cartelli sulle serrande "Fuori l'ebreo". Hitler deve rimanere un monito per tutti noi».
A vent'anni, durante un viaggio in Italia, ha conosciuto un giovane bolognese e ancora oggi vive sotto le Due Torri... «Partii per l'Italia dopo una delusione amorosa e conobbi Elio: mi invitò a Bologna, aveva nove fratelli, mi ritrovai a tavola circondata da una grande famiglia. Non ne avevo mai avuta una. Ci sposammo, pensavo fosse uno studente di medicina, faceva il cameriere. Ma siamo stati felici, anche se io ero disturbata, sarei dovuta andare da uno psicologo. Mi ha salvato la scrittura. Mio fratello Peter non ha superato il trauma, si è tolto la vita da adulto. Fu Roberto Calasso, che con Adelphi ha pubblicato i miei primi libri, a suggerirmi di scrivere, testimoniare, proprio perché all'epoca ero una bambina e come tale innocente».
Quando suo figlio è nato, lei ha deciso di cercare sua madre. «Mio padre si è sempre rifiutato di parlarne, ogni volta tirava su un muro, non ne sapevo nulla. La scovai a Vienna. Le scrissi una lettera. Lei rispose: "Ma che bello! Finalmente mi hai trovata". Pensai "potevi provarci anche tu" ma partii immediatamente per l'Austria con mio figlio Renzo nell'illusione di sanare quella ferita. Era il 1971, io avevo 34 anni, lei 59».
Come andò? «Pernottammo in hotel, la mattina mi alzai presto per comprarle delle rose. Ero emozionatissima. In una casa popolare alla periferia della città mi trovai di fronte una donna che mi somigliava come una goccia d'acqua. Chiacchierammo un po', parlò soprattutto di sé. A un certo punto mi chiese di seguirla in camera, lasciando intendere di voler restare sola con me. Renzo rimase in salotto. In quella stanza, con i mobili lucidi neri, lei tirò fuori dall'armadio una uniforme. La mise sul letto e, giuro, propose: "Perché non la provi?" aggiungendo che aveva sempre sognato di vedermela indossare. Era la sua tuta da lavoro ad Auschwitz- Birkenau. Il peggiore di tutti. Non ne avevo idea, non l'avrei mai cercata».
Quale fu la sua reazione? «Ero sconvolta. Balbettai qualcosa, lei si inalberò. Mi accusò di non capire; che all'epoca dovevano proteggere la Germania dal bolscevismo e dagli ebrei, che come cittadina aveva il dovere di partecipare alla lotta di liberazione da quella "brutta razza". Concluse che alla morte del Fùhrer per lei la vita era finita. Mi mancava il respiro. Presi Renzo, corsi via. Lo accompagnai al Prater affinché gli restasse qualcosa di bello e ripartimmo immediatamente. Il mio più grande dolore è che mio figlio oggi non mi parla più, non ha mai accettato che mia madre fosse una criminale di guerra, come se vedesse in me qualcosa di lei».
Lei invece decise di rivedere sua madre ancora una volta. «Seppi che stava morendo, ci pensai a lungo. Era in una casa di riposo. Fu prepotente, aggressiva. Allora decisi di metterla in croce. Le feci un interrogatorio sui suoi anni a Birkenau, minacciando di abbandonarla se fosse stata reticente. Confessò, tra le altre cose, di aver collaborato a esperimenti sulle prigioniere a cui veniva iniettato del veleno solo per studiarne l'effetto. Fu troppo. Mi allontanai assicurandola che avrei fatto ritorno. Non lo feci. Fu peggio della prima volta».
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