“Gaza, 27 di
gennaio 2025”. Il sogno di tornare a nord alla fine si sta avverando. Ieri mattina ci
è stato dato il permesso di attraversare i check-point del corridoio Netzarim e
tornare nel nord della Striscia, dove molti di noi hanno lasciato le loro case
un anno e mezzo fa. Da sud fino a Gaza City il viaggio è lungo circa 17 km.
Ieri mi hanno svegliato le grida: erano le cinque di mattina, ho sentito le voci
degli zii che dicevano che era ora di partire, che dovevamo metterci in marcia.
Abbiamo preso la strada di Al-Rashid, lungo la costa, quella dove si può
camminare a piedi. Siamo entrati in una coda infinita. Dicono che siamo in 300
mila. Ho visto accanto a me una donna con un sacco in una mano e la figlia in
braccio. Un'altra spingeva una sedia a rotelle con sopra la madre. In mezzo a
noi correvano i bambini, ignari di quello che stavano facendo. Molti adulti,
invece, marciavano e piangevano. Qualcuno mi passa dell'acqua, a qualcuno passo
del pane. Tornare indietro è bellissimo, anche se non ci aiuta nessuno. Non
abbiamo visto nessuna istituzione, nessuno di quelli che avevano promesso
autobus gratis per gli sfollati e cure mediche per sfollati e cure mediche per
chi ne avesse avuto bisogno. Avevano
detto che ci avrebbero accompagnato nel cammino: non si è visto nessuno, ieri. Ma
la gente intorno a me non ci pensa: sono tutti troppo presi dalla marcia. Camminano
per restare vivi, non hanno tempo per il resto. Ho visto i post degli attivisti
sui social network, video e foto nelle stories per documentare il viaggio di
tanti di noi, raccontando tutto il dolore che la gente si porta dietro. Ho
cercato le storie di tutti i miei amici: camminavamo sulla stessa strada, più
avanti o più indietro di me. Ho visto qualcuno arrivare sulle macerie di casa
sua e piangere. Qualcuno invece si è messo a cantare. Altri non sono mai arrivati,
perché non sono riusciti a spostare qualche familiare o i figli. I civili di Gaza come me, hanno aspettato questo
momento per più di 460 giorni. Un tempo durante il quale ci eravamo convinti
che non saremmo mai più tornati a casa che il nostro destino era di rimanere
sfollati per sempre. E invece, da ieri, i sogni di tutti sono cominciati a di ventare
realtà. Lungo la strada ho visto i resti delle tende che abbiamo usato, dei bagagli
che eravamo riusciti a portarci dietro durante i numerosi spostamenti. Per
arrivare a Gaza sono più di l7km a piedi: ti porti solo un sacchetto di cose, non
di più. Ogni due passi c'è qualcuno che fa un video o una foto, ma nessuno che
ti aiuti ad andare avanti. I media palestinesi hanno provato a dipingere questa
nostra marcia come una vittoria. Hanno ripreso e mandato in onda scene di giubilo,
ma non ho visto nessuna clip di quell'anziano che si teneva le ginocchia ansimando
perché non ce la faceva più a camminare, e voleva un goccio d'acqua. I media
hanno provato a mostrare al mondo il nostro contegno dignitoso per i morti, ma
che vittoria è mai questa; se camminiamo sulle macerie di casa nostra? Prima
del 7 ottobre non avevano alcun bisogno di questi racconti dei corrispondenti tv.
Non ci serviva tornare a casa perché stavamo già a casa nostra, con la nostra
dignità intatta. Non morivamo di fame e non eravamo sfollati. Vivevamo con le
nostre piccole cose e non ci servivano scene di vittoria alla tv. Adesso stiamo
tornando a casa, a nord. Prima o poi ci renderemo conto che stiamo tornando su
delle macerie. La gente non dimenticherà. Niente potrà mai togliere dalla
memoria queste scene: di giubilo, certo, ma anche di tristezza, di umiliazione,
di oppressione e di solitudine. (Tratto da “Il mio esodo verso Nord: non chiamatela vittoria” di Aya Ashour
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, 28 di gennaio 2025).
“Germania, gennaio
1945”. “Memorie di una bambina nel bunker”, intervista di Emanuela
Giampaoli alla scrittrice Helga Schneider pubblicata sul settimanale “il
Venerdì di Repubblica” del 24 di gennaio 2025:
Una bambina di sei anni in ghingheri
con il fratellino in completo tirolese. Sorridono in favore dell'obiettivo e
sono entrambi bellissimi. È una delle rarissime foto della scrittrice Helga
Schneider da piccola. Il ritratto di un'infanzia serena. Nella Germania del
1943. «Non ricordo quando fu scattata», spiega Schneider che oggi di anni ne ha
87, «ma non sono mai stata una bambina felice. Sono cresciuta senza l'amore di
una madre, la mia mi abbandonò a quattro anni per arruolarsi come ausiliaria
nelle SS». (…)
Helga, in quella foto ha sei anni e sorride.
«La realtà era molto diversa. Sono nata nel 1937, due anni dopo è scoppiata la
guerra, a quattro anni mia madre un giorno salutò: "Fate i bravi, io devo
andare". Per lungo tempo non ho saputo perché. Mio padre si trovò un'altra
moglie, Ursula, la mia detestata matrigna. Una brava donna, innamorata di lui
che le consegnò due bambini mai visti e partì per il fronte. Lei si affezionò
solo a mio fratello Peter».
Nel novembre del '44 lei incontrò Hitler.
«Berlino era in rovina, noi vivevamo nella cantina del nostro palazzo a causa
dei bombardamenti continui. Tramite la zia Hilde, la sorella della matrigna,
che lavorava per Goebbels al ministero della Propaganda, fui invitata con altri
bambini "privilegiati" a far visita al bunker. Avevo sette anni».
Che ricordo ne serba? «Terrificante, non ho
mai compreso il senso di quella gita. Vivevo in un palazzo a pochi isolati, o
meglio, stavamo già nella cantina per i bombardamenti continui. Avevamo perso
tutto, non avevamo da mangiare, non dormivamo, Berlino aveva un odore
terrificante, non c'erano più gas e luce, solo candele che bruciavano gli
occhi. L'inferno. Dentro al bunker si viveva come se niente fosse. Mi aspettavo
di incontrare il grande uomo, alto e persino bello, come chiunque cresciuto
sotto il nazismo pensava. Ci venne incontro un vecchio invalido, ricurvo, con
un Parkinson in fase avanzata, tenuto insieme da farmaci e psicofarmaci. Si
trascinava, mi diede la mano sinistra molliccia. Dormimmo persino in quel
bunker, non vedevo l'ora di uscirne».
Nel bunker è tornata con il suo ultimo
libro. «Volevo descrivere Hitler per quel che era: un uomo finito, di 56 anni,
che si è sottratto alle sue responsabilità. Ho sentito il bisogno di farlo ora
che storicamente la sua figura sta subendo una sorta di normalizzazione. Poco
tempo fa i giornali hanno riportato la vicenda di un ragazzino che si è fatto
confezionare la torta di compleanno con il volto del Fùhrer. Succede ogni
giorno qualcosa che solamente cinque anni fa non ci saremmo sognati. In Austria
ha vinto l'estrema destra, in Germania e non solo gli ebrei hanno paura. Io
ricordo ancora i cartelli sulle serrande "Fuori l'ebreo". Hitler deve
rimanere un monito per tutti noi».
A vent'anni, durante un viaggio in Italia,
ha conosciuto un giovane bolognese e ancora oggi vive sotto le Due Torri...
«Partii per l'Italia dopo una delusione amorosa e conobbi Elio: mi invitò a
Bologna, aveva nove fratelli, mi ritrovai a tavola circondata da una grande
famiglia. Non ne avevo mai avuta una. Ci sposammo, pensavo fosse uno studente
di medicina, faceva il cameriere. Ma siamo stati felici, anche se io ero
disturbata, sarei dovuta andare da uno psicologo. Mi ha salvato la scrittura.
Mio fratello Peter non ha superato il trauma, si è tolto la vita da adulto. Fu
Roberto Calasso, che con Adelphi ha pubblicato i miei primi libri, a suggerirmi
di scrivere, testimoniare, proprio perché all'epoca ero una bambina e come tale
innocente».
Quando suo figlio è nato, lei ha deciso di
cercare sua madre. «Mio padre si è sempre rifiutato di parlarne, ogni volta
tirava su un muro, non ne sapevo nulla. La scovai a Vienna. Le scrissi una
lettera. Lei rispose: "Ma che bello! Finalmente mi hai trovata".
Pensai "potevi provarci anche tu" ma partii immediatamente per
l'Austria con mio figlio Renzo nell'illusione di sanare quella ferita. Era il
1971, io avevo 34 anni, lei 59».
Come andò? «Pernottammo in hotel, la mattina
mi alzai presto per comprarle delle rose. Ero emozionatissima. In una casa
popolare alla periferia della città mi trovai di fronte una donna che mi
somigliava come una goccia d'acqua. Chiacchierammo un po', parlò soprattutto di
sé. A un certo punto mi chiese di seguirla in camera, lasciando intendere di
voler restare sola con me. Renzo rimase in salotto. In quella stanza, con i
mobili lucidi neri, lei tirò fuori dall'armadio una uniforme. La mise sul letto
e, giuro, propose: "Perché non la provi?" aggiungendo che aveva
sempre sognato di vedermela indossare. Era la sua tuta da lavoro ad Auschwitz-
Birkenau. Il peggiore di tutti. Non ne avevo idea, non l'avrei mai cercata».
Quale fu la sua reazione? «Ero sconvolta.
Balbettai qualcosa, lei si inalberò. Mi accusò di non capire; che all'epoca
dovevano proteggere la Germania dal bolscevismo e dagli ebrei, che come
cittadina aveva il dovere di partecipare alla lotta di liberazione da quella
"brutta razza". Concluse che alla morte del Fùhrer per lei la vita
era finita. Mi mancava il respiro. Presi Renzo, corsi via. Lo accompagnai al
Prater affinché gli restasse qualcosa di bello e ripartimmo immediatamente. Il
mio più grande dolore è che mio figlio oggi non mi parla più, non ha mai
accettato che mia madre fosse una criminale di guerra, come se vedesse in me
qualcosa di lei».
Lei invece decise di rivedere sua madre
ancora una volta. «Seppi che stava morendo, ci pensai a lungo. Era in una casa
di riposo. Fu prepotente, aggressiva. Allora decisi di metterla in croce. Le
feci un interrogatorio sui suoi anni a Birkenau, minacciando di abbandonarla se
fosse stata reticente. Confessò, tra le altre cose, di aver collaborato a
esperimenti sulle prigioniere a cui veniva iniettato del veleno solo per
studiarne l'effetto. Fu troppo. Mi allontanai assicurandola che avrei fatto
ritorno. Non lo feci. Fu peggio della prima volta».
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