"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 27 gennaio 2025

Lavitadeglialtri. 69 “Giornata della Memoria”.


GiornatadellaMemoria”. “Shoah, 80 anni dopo: che cosa mostrano le foto dell’orrore” testo di Michele Smargiassi pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 24 di gennaio 2025: Una lunga fila di carri tirati da cavalli attraversa le strade di Lodz, nel 1942. Sono carichi di bambini. Uno di loro, in piedi, stella di David malamente cucita sul maglioncino, sembra guardarci negli occhi. Li portano nel campo di concentramento di Chelmno. Il rastrellamento avviene in pieno giorno. Sotto gli occhi di tutti. E c’è pure un fotografo, Henryk Ross, un tedesco con la coscienza nascosta dietro la lente. Tutti sanno cosa sta succedendo. Spesso, in fotografie come queste, il corteo dei morituri passa fra due ali di spettatori, muti Mitläufer, obbedienti conformisti da ammaestrare all’odio. La deportazione verso lo sterminio non viene svolta di nascosto. È uno spettacolo organizzato in favore di fotocamera. Un monito. Una dimostrazione di potenza. Sì, l’impensabile non era invisibile. L’intollerabile non era inguardabile. Va in frantumi un luogo comune della storia contemporanea, tanto radicato quanto infondato: ovvero che il crimine per definizione del Novecento, il genocidio degli ebrei (e non solo), fosse destinato a restare occulto e cieco; che le immagini dell’orrore giunte fino a noi fossero rare, fortunosamente strappate all’oblìo da pochi coraggiosi testimoni oculari a rischio della vita. Soprattutto: che i nazisti avessero vietato di fotografare, di cinematografare, l’orrore dei loro massacri, per farli rimanere chiusi nel segreto più assoluto. No, proprio no. La persecuzione e lo sterminio per mano nazista sono, anche visivamente, «uno degli eventi più documentati della storia del Novecento», lo afferma senza esitazioni Laura Fontana, storica e docente, dandoci conto, nel suo Fotografare la Shoah (Einaudi), dell’esistenza di «milioni di fotografie, tra singoli scatti, reportage ufficiali e album privati», rimaste troppo a lungo ignorate e disperse, più per l’imbarazzo dei vincitori nel cercarle e trovarle che per volontà dei perpetratori di cancellarne le tracce. 
Per decenni, dopo la fine della guerra e la scoperta raccapricciante dei campi di sterminio, l’iconografia del “male assoluto” visse un’esistenza carsica: portate come prove al processo di Norimberga, tornate nell’oblìo, riapparse negli anni Sessanta col processo Eichmann, tra quelle immagini quasi sempre decontestualizzate, spesso sciattamente identificate e interpretate, fece finalmente un po’ d’ordine solo nel 2001 una mostra epocale, La memoria dei campi, curata da Clément Chéroux, dissipando gli errori e gli equivoci che avevano spesso offerto ai negazionisti un varco per le loro infami controffensive. Dopo di allora, e grazie a quella spinta rigorosa e scientifica, il ritrovamento di immagini dimenticate o nascoste negli archivi locali, istituzionali o privati di tutta Europa ha assunto le dimensioni di una valanga, costringendoci a porre una domanda, la domanda che tutti dovremmo sempre farci davanti alle immagini: a cosa dovevano servire quelle fotografie, quei filmati? Chi li realizzò, per quale scopo, quale futuro utilizzo, quale pubblico? Immagini per denunciare almeno ai posteri la ferocia della “soluzione finale"? O piuttosto per vantarsene? Perché è fuori di dubbio, ormai, che i nazisti non ebbero paura di esibire i loro crimini, tollerarono che fossero fotografati, perché tormentare gli ebrei era considerato legittimo, utile, commendevole; mostrare le persecuzioni serviva a confermarle come normali, e a legare potere e cittadini in un patto di connivenza. Per questo, le gerarchie ordinarono spesso veri e propri servizi fotografici sulle carneficine. I reporter ufficiali furono attivissimi nei luoghi delle stragi. Un ordine del ministero della Propaganda nazista sollecitò alle truppe in Polonia l’invio di immagini di persecuzioni utili a “rafforzare l’educazione antisemita”. Negli archivi del PK, l’unità di propaganda del regime, sono stati ritrovati 1,7 milioni di fotografie, nonostante le distruzioni probabilmente ingenti degli ultimi mesi di panico. Il divieto di fotografare rastrellamenti ed esecuzioni era blando, più di centomila soldati della Wehrmacht e anche delle SS durante la campagna nell’Est Europa, costellata di massacri, avevano nello zaino una Leica o una Zeiss coi rullini Agfa, prodigi della tecnologia tedesca, e li usavano, mentre gli ufficiali chiudevano un occhio (spesso per accostare l’altro, anche loro, a un mirino di fotocamera). Nessun divieto di fotografare fino al 1938: veniva tuttalpiù sanzionato l’eccesso di voyeurismo sadico, perché lo sterminio doveva avere i caratteri di una procedura fredda e razionale. Anche la successiva presunta volontà nazista di cancellare le tracce è smentita da un ordine di Himmler, che nel 1942 disponeva non di distruggere foto e film “non autorizzati” dei massacri, ma di raccoglierli e mandarli a un archivio centrale apposito, corredati da date e informazioni precise. Per farne cosa? Chi archivia, prima o, poi userà l’archivio. 
Quale album di orripilante orgoglio avrebbero montato i nazisti, per farne pedagogia ariana, se avessero vinto? I vincitori non solo scrivono la storia, ma decidono anche come farla vedere. Dobbiamo ricordare, quando sfogliamo questo album ormai enorme, che “fotografie della Shoah” è una definizione ambivalente. Fotografarono il genocidio i carnefici (come Hugo Jäger, fotografo personale di Hitler, che aveva il privilegio di usare le nuove pellicole a colori), ma anche le vittime, e infine i liberatori. E dunque vediamo, mescolate, fotografie colpevoli, resistenti, attonite. Trofei, documenti, atti d’accusa. Difficile capirle, difficilissimo usarle. Anni fa un prestigioso intellettuale italiano propose al ministero dell’Istruzione (e lo ottenne) che la fotografia notissima del “bambino di Varsavia”, quel piccolo Gavroche con le mani alzate sotto il tiro dei rastrellatori nazisti, fosse appesa in tutte le scuole d’Italia, senza dire e neppure sapere che si trattava di un’immagine assassina, voluta dal gerarca Stroop, lo sterminatore del Ghetto, come prova del lavoro meticolosamente compiuto. Del resto, nei campi di sterminio i condannati erano meticolosamente sottoposti al rito della fototessera fronte e profilo, schedatura infame e supplemento di tortura (lo straziante ritratto segnaletico della quattordicenne Czeslawa Kwoka mostra i segni delle percosse appena ricevute). Le fotografie della Shoah scottano. Servono guanti per maneggiarle. Servono domande. «Quale ragione spinse migliaia di soldati e poliziotti tedeschi al fronte a riprendere così ossessivamente la spaventosa barbarie che inflissero agli ebrei?», si chiede Fontana. E siamo in grado, oggi, di «guardare il male altrui» senza esserne travolti, coinvolti, complici? Le fotografie scattate nei ghetti della Polonia prima che calasse la mannaia del macellaio ci commuovono. Ma ci rendiamo conto che molte furono scattate dai futuri assassini? Che la gita nel ghetto era una specie di turismo dell’orrore, una visita allo zoo umano, che contribuiva a creare l’immagine disumanizzata di quella gente ridotta alla fame, così che lo sterminio di quegli Untermensch apparisse naturale? 
Certo, nei ghetti fotografarono anche umani dotati di coscienza, tedeschi assillati dal dubbio e dall’angoscia come Joe Heydecker, alcuni consapevolmente desiderosi di produrre documenti per i posteri come Mendel Grossman che, scoperto e deportato in un campo di lavoro, vi morì tenendo in mano la sua fotocamera. Ma come trattare gli album di famiglia del comandante di Buchenwald Karl Koch, appassionato fotoamatore, o di Karl Höcker, gerarca di Auschwitz che vediamo mentre, nella sua leziosa casetta fiorita a pochi passi dalle camere a gas, coltiva mirtilli e accarezza i figli? Una lurida menzogna, d’accordo: ma anche il documento di un “universo parallelo”, il fotogramma della distopia atroce di un mondo arianamente corretto. Ma in fondo non c’è fotografia che non porti il segno di una ambiguità disturbante: una delle ragazze ebree di Liepaja messe seminude in posa prima dell’esecuzione si scosta una ciocca di capelli dal viso con gesto civettuolo: un riflesso automatico davanti alla fotocamera, o un disgustoso pornografico ordine del fotografo? Quando i reporter degli alleati scoprirono i campi con le loro orrende montagne di cadaveri nudi e scheletrici, nell’impossibilità di documentare cosa era accaduto, ne fotografarono le agghiaccianti conseguenze: ma per quale scopo? Pedagogia dell’orrore, prova giudiziaria, o un modo per stabilire chi fossero i giusti e chi i colpevoli in quella guerra, prima che i giusti sganciassero due atomiche sul Giappone? Di fronte a queste ambiguità, all’impotenza delle immagini a dar conto della mostruosità dell’universo concentrazionario, il regista Claude Lanzmann lanciò il suo ormai celebre interdetto iconoclasta: nel suo fondamentale documentario Shoah (1985) non si vede nemmeno un’immagine d’epoca. E certe rare (queste sì) foto dei campi in funzione, che mostrano la quotidianità dell’internamento, sembrano dargli ragione, ingannandoci sulla sopportabilità delle condizioni di vita in quei luoghi di agonia; ma esistono quelle quattro fotografie scattate tra le camere a gas di Birkenau dai membri di un Sonderkommando con una macchina fornita dalla resistenza polacca, quei «quattro pezzi di pellicola strappati all’inferno» che fecero affermare a Georges Didi-Huberman quanto invece abbiamo bisogno di «immagini, malgrado tutto». Malgrado la loro insufficienza. Malgrado gli errori di interpretazione. Malgrado il rischio, potentissimo, della loro iconizzazione sterilizzante. È singolare, osserva acutamente Fontana, che le due immagini più note della Shoah, il ragazzino di Varsavia e il volto di Anna Frank, siano ritratti di bambini ancora vivi, «immagini che ci risparmiano l’abisso e in fondo ci consolano». Il viso sorridente di Anna, soprattutto, ha subito un inverecondo processo di «carinizzazione», ripetuto su migliaia di poster, gadget, colato in cera per il museo di Madame Tussaud… No, l’emozione non basta, di fronte a quella che Susan Sontag chiamò «l’epifania negativa» della Shoah. Se le immagini, quelle di allora e quelle che ci arrivano oggi dal cuore dell’Europa o da Gaza, non vengono interrogate da una coscienza politica, tornano ad essere ciò che in gran parte furono allora: la normalizzazione dell’intrattabile e dell’inaccettabile, attraverso la banalità del guardare.
 

 

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