“LeStagioniDellaVita”. “Lettera a un bambino appena nato” di Marino Niola – antropologo – pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” di ieri 16 di gennaio 2025: Cari ragazzi della Generazione Beta, non avete nemmeno cominciato a vivere che vi hanno già etichettati. O meglio brandizzati. Vi chiamano cuccioli del futuro perché la vostra ruota del tempo si è appena messa in movimento. Ma di fatto, il futuro che vi stanno cucendo addosso è solo una proiezione in avanti di quel presente in cui state per muovere i primi passi. Le generazioni che vi hanno preceduto, dai baby boomers ai millennials, fino alla Gen Z (i nati tra il 1997 e il 2012), il loro titolo se l’erano guadagnato a posteriori per quel che avevano vissuto e per come lo avevano vissuto. Mentre voi siete nati già classificati, avete già una storia di cui siete attori non protagonisti, ma che rischia di pesarvi addosso come un destino. Come una sorta di predestinazione. Che in realtà assomiglia piuttosto ad una profilazione. All’individuazione di una tipologia di consumatori. In questo senso vi tocca la stessa sorte toccata a quelli della Generazione Alpha. E come loro venite identificati soprattutto in funzione della vostra futura capacità di influenzare i comportamenti economici dei vostri genitori e, in prospettiva, dal potere d’acquisto autonomo che avrete entro pochi anni. Probabilmente e fortunatamente tutto questo straparlare su di voi non corrisponderà a quel che farete e sarete veramente. Infatti i sermoncini e pensierini che psicologizzano e pedagogizzano intorno a quel che fanno e pensano i figli sono più che altro un placebo per genitori sempre più smarriti dal testacoda generazionale che viviamo. E sono anche un mercato sempre più redditizio per i guru del counseling, che pontificano sulle passioni e sulle ossessioni dei ragazzi. Caricaturizzati da etichette riduttive come screenagers, una fauna umana di casa nella tecnologia, a social addicted, a tiktoker compulsivi, in balia di influencer di ogni risma. Che oggi vengono demonizzati e fantasmatizzati molto al di là dei loro demeriti, come una volta lo erano i cattivi maestri. In effetti questa tendenza ad anticipare i tempi, ad ipotecare il futuro è l’ultima figlia della società del last minute. Ma in realtà ha le sue radici molto più lontano. E precisamente in quella civiltà del Decalogo da cui discende la nostra visione del mondo e della vita. Fondata sulla classificazione capillare, minuziosa di comandamenti, eventi e comportamenti nel tentativo di non lasciare nulla al caso. In principio era il caos, poi vennero le leggi e a seguire le classifiche e infine le comparazioni che mettono cose e persone al loro posto. Di fatto, la nostra esigenza di classifiche nasce dal bisogno di dare ordine al mondo, di spiegarlo, di dargli senso. E dunque quel che conta non è la verità della classifica, ma è la sua stessa esistenza. Che ci dà la sensazione di capire come stanno veramente le cose. In realtà dietro ogni classifica si nasconde una classificazione, cioè un modo per fare luce nell’oscurità del mondo, per selezionare quello che è più importante. Detto in altri termini è il tentativo di aver ragione dell’infinita complessità della vita sintetizzandola in un numero, o in un’etichetta che oggettivizza ciò che non è oggettivo. E questo è vero dai Dieci comandamenti di Mosè alle grandi tassonomie scientifiche di Linneo e di Darwin. In fondo tentare di definire l’infinita imprevedibilità degli eventi è come divinare il futuro nelle carte o nella sfera di cristallo. Ma in ogni caso anche quest’abbaglio proiettivo è figlio della nostra civiltà che ha progressivamente neutralizzato la profondità del tempo per instaurare un eterno presente. Al punto da capovolgere il senso stesso della storia. Gli antichi, infatti, si interrogavano sui fatti del passato per capire come si fosse prodotto il presente. La nostra modernità si domanda continuamente come andrà a finire. E in questo modo, l’oggetto della storia non è più il passato ma il futuro, non più lo studio delle cause ma la previsione degli effetti. È una forma di secolarizzazione dell’escatologia che diventa prima ideologia, poi utopia o distopia. In principio è l’aspettativa della vita futura, poi del sol dell’avvenire, poi ancora dell’apocalisse ecologica o dell’eden sostenibile. Ma in ogni caso il dopo conta molto più del prima. Soprattutto da quando la nostra società ha inventato una categoria come la giovinezza. Che a dire il vero, come qualunque età, non ha nulla di oggettivo. È semplicemente il modo in cui ogni cultura riempie lo spazio tra l’infanzia e la maturità e ne definisce gli step essenziali, i confini che separano una stagione della vita dall’altra. Come dire che la parola giovane non significa niente di fisso e immutabile. Ci sono società dove la verde età dura lo spazio di un mattino e società, come la nostra, dove il forever young non è più un’età precisa ma una condizione permanente, uno stile di vita, addirittura una mentalità. Che, invece di separare le generazioni, le tiene insieme allo stato fusionale, o meglio confusionale. Fino alla metà del Novecento, l’adolescenza era il tempo provvisorio dell’attesa, lo dice la parola stessa che deriva da adolescere, cioè diventare adulti, grandi, posati, con la testa sulle spalle. Oggi adultizzarsi è sinonimo di adulterarsi. Ecco perché i ventenni di una volta sembravano quarantenni di oggi. Mentre adesso sono i padri ad avere l’aspetto e l’outfit dei figli. In un orizzonte così fluido è davvero difficile pensare seriamente di sapere come sarete tra quindici o vent’anni. Anche se già vi stanno impacchettando e sdoganando come nativi artificiali, ovvero dei mutanti digitali. Dimenticando che la dipendenza tecnologica riguarda più gli adulti a disagio nella biosfera tecnologica e persi nel labirinto narcisistico dei social che non i cuccioli che, proprio in quanto nativi, ci insegnano un uso più equilibrato dei nuovi strumenti del comunicare, intelligenza artificiale compresa. E allora il miglior benvenuto che si può dare ai ragazzi della Generazione Beta è quello di non farsi contagiare dalle nostre paure. E di diffidare di chi si occupa di loro.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
venerdì 17 gennaio 2025
CosedalMondo. 27 Marino Niola: «L’adolescenza era il tempo provvisorio dell’attesa, diventare adulti, grandi, posati, con la testa sulle spalle. Oggi adultizzarsi è sinonimo di adulterarsi».
(…). Io mi ricordo di me, da piccola. Insomma,
piccola. Da diciottenne, sola a quella festa
nella casa sul mare, sola perché mi ero messa da una parte, nella stanza dei
cappotti, con gli altri non ci volevo stare, non mi piacevano ma del resto -
sarà stato questo - non piacevo a loro. Non ero un granché, a diciott'anni: non
la più disinvolta, non la più simpatica, non la più desiderata né la più bella
(non abbastanza magra, non abbastanza alta, non abbastanza misteriosa né
pallida e sdegnosa), non quello da cui tutto il resto allora come adesso discende,
non la più fragile e sperduta da accudire, non la più forte da emulare. Ero
così così, a metà. Ero strana, una che non si sa. Malinconica, appunto. Non esattamente
una qualità. Per tutta la vita ho amato le ragazze malinconiche. Quelle che non
parlano tanto, e quando parlano dicono cose brusche e diritte che gli altri non
capiscono. Cose che per essere popolari non si dovrebbero dire. Ma chi se ne
importa di essere popolari, fatelo voi questo gioco che svanisce. Stateci voi,
nel vostro recinto. Mi incantano le bambine scontrose. Ne conosco una, per mia
fortuna, magnifica. Si chiama Vera. Fa quel che le pare. Ci passerei le giornate:
a guardarla, ad ascoltarla dire no. Ha due anni. Pensa che meraviglia sarebbe
avere due anni per vent'anni, ma invece. A un certo punto si impara come fare
per avere l'applauso e allora tutto cambia, allora ciao. Ne conosco anche di
grandi, di bambine che sono rimaste quello che erano. Sono dovute andare via,
quasi sempre è andata così. Andare via. Andare a vivere nel mondo degli elfi,
nel mondo dei boschi per continuare ad essere creature in purezza, per conservarsi
com'erano e come vogliono restare. (…). Il New York Times, un giornale americano
a cui diamo qui in Europa molto credito - anche giustamente solo che è strano
aspettare che siano gli altri a dire cosa vali ma vabbè, va così - il Nyt ha
stabilito che il (…) libro illustrato (“Le cose che passano” di Beatrice Alemagna n.d.r.) fosse
il migliore dell'anno. Nel mondo intero, il migliore. Anche io lo penso, non da
oggi. Anche io penso da anni che sia una fuoriclasse, un talento, la più brava
di tutti. Dunque ora che è uscita la classifica del miglior libro dell'anno
stilata dal più autorevole quotidiano americano ho detto vuoi vedere che
succede il finimondo. Vuoi vedere che va come per L'Amica geniale, che tutti ne
parlano per settimane, che siamo fieri del riconoscimento straniero, apriamo il
dibattito. Invece no. Non ho visto una riga, nei giornali nostri. Non ho letto
niente. Mi sono chiesta come mai. Cos'ha L'Amica geniale che Beatrice non ha.
Eppure è lo stesso giornale, la stessa classifica. Ma sai: dipende. Bisogna
stare in una corrente ascensionale di variabili imponderabili. Le
multinazionali, le Hbo, le Netflix, gli algoritmi, le major. Poi mi chiedo,
anche. È da augurarselo, di essere nel cono di luce di questo sistema, sulla
cresta della sua onda? Forse no, forse meglio restare nel bosco. Beatrice,
meraviglia. Resta nel bosco. (Tratto da “Chi se ne importa di essere popolari, fatelo voi questo gioco che
svanisce” di Concita De Gregorio pubblicato sul settimanale “d” del
quotidiano “la Repubblica” dell’undici di gennaio 2025).
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