(…), “Piccole cose come queste” non è un film per iniziare l’anno in allegria. Alla fine, però, emette un raggio di luce, e in tempi come questi facciamocelo bastare. Siamo in Irlanda negli anni Ottanta, ma potrebbero essere gli anni Trenta o Cinquanta. Bill Furlong è un commerciante di carbone che ha dedicato la vita al lavoro, alla moglie Eileen e alle cinque figlie. Solitario e taciturno, cerca di proteggersi da un dolore che lo possiede fin dall’infanzia. Consegnando carbone alle suore, s’imbatte nell’orrendo segreto del convento, che altro non è che una famigerata Casa Magdalene, uno dei tanti “istituti correttivi” irlandesi dove, fino alla fine del secolo scorso (l’ultima Casa è stata chiusa nel 1996), le ragazze madri e altre giovani “peccatrici” venivano rinchiuse, punite, sfruttate e separate dai loro bambini. (…). L’incontro con la disumanità delle suore dilata la ferita traumatica di Bill e interroga la sua coscienza: girarsi dall’altra parte oppure, sfidando il silenzio della comunità e mettendo in pericolo l’istruzione delle figlie, denunciare gli abusi? Claire Keegan, autrice di Piccole cose da nulla, sulla cui storia è basato il film, lo scrive così: «Si ritrovò a domandarsi che senso aveva essere vivi se non ci si aiutava l’uno con l’altro. Era possibile tirare avanti per anni, decenni, una vita intera senza avere per una volta il coraggio di andare contro le cose com’erano e continuare a dirsi cristiani, a guardarsi allo specchio?». Come la recitazione di Cillian Murphy, Piccole cose come queste è un film sussurrato e potente, che resta nei giorni. Ci spiega che riconoscere il dolore dell’altro è anche un modo per far pace con il proprio. (Tratto da “Fare pace con il dolore” di Vittorio Lingiardi, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 3 di gennaio 2025).
“La mia classe sognava in dialetto”, racconto di Donatella Di Pietrantonio – abruzzese, odontoiatra, scrittrice premiata con il “Premio Campiello” nell’anno 2017 e nell’anno 2024 premiata con il “Premio Strega” – pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 29 di dicembre dell’anno 2024: Siamo cresciuti con il complesso del tacco infangato. Quel dettaglio rivelava sempre, a tutti, la nostra provenienza. Arrivavamo a scuola già stanchi della strada percorsa a piedi, più o meno lunga, e molti di noi avevano pure lavorato, prima. Appena svegli i maschi aiutavano a governare le mucche e noi bambine davamo forma al pecorino. Loro si portavano addosso il tanfo di stalla e noi l'acidulo del latte cagliato. Ma dell'odore non tanto ci vergognavamo, nella numerosa pluriclasse non si poteva mai dire con certezza chi puzzava più forte. Ce lo rimbalzavamo bisbigliando: «Vincenzo è uscito dal letamaio», «è Annina che sa di capra». Eravamo solidali tra noi, ma a volte feroci l'uno con l'altro. Il rigo di terra molle o seccata che contornava la suola delle scarpe era visibile, inequivocabile. Era il segno che ti inchiodava: ecco chi sei. Cercavamo di pulirlo con un legnetto nel piazzale antistante l'ingresso, ma non se ne andava mai. Si spalmava soltanto e restava appiccicato, si vedeva di più. Faceva la differenza con i bambini che abitavano nel piccolo borgo intorno alla scuola. Noi eravamo quelli di campagna. Le ore di lezione soltanto un tempo perso, per le famiglie contadine. Sottraevano braccia alle semine e ai raccolti, l'aiuto dei figli di otto o nove anni era già decisivo. Accompagnare gli animali al pascolo un bambino lo sapeva fare, e liberava un adulto per lavori più impegnativi. Bruno era tra quelli che si assentavano troppo, tutto il periodo del fieno. La maestra lo rimproverava e lui stava zitto, non diceva il motivo. Neanche inventava bugie, una febbre, un mal di pancia. Non tradiva i suoi genitori. Sarebbe bastato guardargli le mani, maestra, toccargli i calli. Rimaneva lì a testa bassa, tanto la predica doveva finire. Alcuni miei compagni venivano per via dell'obbli-go di legge e quelle mattine erano solo un intervallo tra i lavori dell'alba e quelli del pomeriggio. Non avevano tempo per i compiti, figuriamoci per giocare. Qualcuno si addormentava con la testa sul banco sempre alla stessa ora, subito dopo la ricreazione. Io i compiti me li facevo sempre in classe, già dalla prima elementare, mentre la maestra si occupava di quelli più grandi. Anzi, glieli chiedevo appena seduta e lei rispondeva che era troppo presto, prima doveva spiegare. Antonietta, la mia compagna di banco, aveva tanti fratelli e sorelle e certe volte si assentava per badare ai più piccoli, quando la madre non poteva. Lei però lo raccontava e la maestra alzava gli occhi al cielo, in quel caso. Eppure dovevamo giocare, eravamo pur sempre bambini. Certe mattine ci fermavamo lungo la strada, in un punto che dalla scuola non si vedeva. Giocavamo a nascondino tra i cespugli e i tronchi dei faggi, oppure ci fermavamo a un abbeveratoio in cui nuotavano i tritoni. Era difficile catturarli con le mani, così scivolosi. Poi li ributtavamo nell'acqua. Entravamo in ritardo e sudati, le scarpe più infangate del solito. Almeno ci eravamo presi il nostro sfogo. La maestra veniva dal paese, sentiva i nostri odori, vedeva anche lo sporco sulla pelle. Chissà se lo sapeva che non avevamo il bagno né l'acqua calda in casa. Ci lavavamo poco e male. Lei sapeva tutto, io credo, e aveva pietà di noi. Si disperava di più per la lingua. Era come insegnare agli stranieri. Per quanti sforzi facessimo, le ore di scuola erano solo quelle quattro o cinque. Poi tornavamo nella nostra repubblica e il resto del tempo vivevamo in dialetto, anche nel sonno. Sognavamo in dialetto. Non eravamo uguali tra noi. Bruno diceva che a lui l'italiano proprio non gli entrava in testa e se lo dimenticava durante l'estate. Alla riapertura era così regredito che ricominciava sempre daccapo. Il dialetto si era rimangiato tutte le parole e le poche che gli lasciava erano monche dell'ultima vocale, eliminando così anche il maschile e il femminile. Nel nostro posto si parlava già woke, mezzo secolo fa. Credo che a un certo punto l'insegnante si sia un po' arresa dentro di sé in quella lotta, anche se continuava a provarci come il primo giorno. Io ero fortunata, assorbivo la lingua nazionale con facilità. Era un dono, diceva lei. Mi piaceva, semplicemente. Avevo un orecchio per l'italiano orale e scritto, non sbagliavo nei dettati. Ed ero presuntuosa, solo in quello. Dopo qualche poesia imparata dal libro ho deciso che potevo scriverne pure io, perché no, con le rime baciate e quel ritmo. Contavo le sillabe e volevo essere Gianna Rodari. L'italiano era una musica, mi vergognavo del mio accento gutturale, della cadenza strascicata che portavo da casa e rovinava anche i versi recitati a memoria. Italiano e dialetto si combattevano nella mia bocca. Cercavo di imitare la maestra e chi parlava alla radio. Poi è arrivata anche la televisione, ed è diventata un'altra maestra. Sono stata fortunata ad avere due genitori che un po' ci credevano allo studio. In altre famiglie la scuola era lo Stato che si prendeva i figli come poi avrebbe fatto per i quindici mesi del servizio militare dei maschi. Ho una foto di gruppo della mia pluriclasse, ero in terza elementare, credo. Faccio in silenzio l'appello e penso uno per uno ai miei compagni, soprattutto alle compagne, Immagino la stessa foto, ma come siamo oggi. Qualcuno è assente, è migrato lontano e non ne so più nulla. Liliana sorride e non si è mai spostata da lì, ha ripetuto uguale la vita di sua madre ed è morta di cancro ai polmoni prima dei cinquant'anni. Non aveva mai fumato, l'ha uccisa l'aria pura del nostro luogo di nascita. Tutti ci ha segnati, i pochi rimasti e chi se n'è andato. Le nostre vite sono state le varie conseguenze possibili di quel paesaggio. I boschi, le strade impervie, le poche case disperse nelle contrade più remote, con il filo di fumo che saliva dai camini nella durezza degli inverni. Guardo Antonietta, con il grembiule diventato troppo corto e scolorito, uno sbrego al centro del petto. Così intelligente, la migliore in matematica. Titolo di studio: diploma da ragioniera. Non lo ha mai usato. Si è sposata con un vicino e ha cresciuto i bambini, poi ha assistito i suoi genitori e i suoceri anziani. Sempre al servizio di qualcun altro, i suoi cari, certo. Ma quando ha finito con tutti loro era vecchia anche lei. Sarà mai stata veramente felice, mi chiedo. Per qualcosa di suo, intendo, che non fosse la laurea o il matrimonio di un figlio. Bruno, lui forse un po' sì. Titolo di studio: licenza media. Ha trasformato la piccola azienda agricola di famiglia in un agriturismo, a contatto con gli ospiti anche il suo italiano è migliorato inaspettatamente. E poi c'è Domenico, mezzo nascosto dietro la testa di Bruno. Titolo di studio: laurea in economia. Aveva solo la madre, chi fosse il padre lei non ha mai voluto dirlo. Ma da una certa somiglianza si vociferava che l'avesse avuto da un cognato. Per tutti era una puttana e Domenico portava il suo cognome. Ha mantenuto quel figlio al liceo a Teramo e dopo all'università. Nessuno se ne capacitava, chissà come se li guadagnava quei soldi. Domenico se n'è andato a Milano, è diventato dirigente di non so quale azienda. I primi anni tornava spesso a trovare sua madre, poi l'ha convinta a raggiungerlo. Lei ha continuato a venire in visita ai parenti, ma sempre più di rado. La chiamavano la milanese, le invidiavano soprattutto le mani, che erano diventate così morbide e bianche. Domenico invece non si è più visto nel posto dove era stato solo un bastardo. Adesso lì è un paesaggio sempre più verde e meno coltivato. La natura si è ripresa i suoi spazi e fa come vuole. Fiorenzo porta le sue trecento pecore al pascolo e vende un pecorino forte e speciale. Qualcuno produce miele e marmellate da abbinarci per renderlo più gentile al palato. I pochi che restano hanno ristrutturato le case, certe spiccano nella campagna con quei colori vivaci che si usano oggi: arancione, giallo. Le altre sono ormai ruderi. La casa in cui sono cresciuta è crollata, come quelle di tutti i vicini dopo che anche loro se ne sono andati. I rovi crescono sopra i coppi caduti dai tetti e la strada non è più praticabile. Bisogna arrivarci a piedi, dopo aver parcheggiato la macchina vicino alla vecchia scuola in disuso da decenni. Ci torno di rado, mi fa troppo male.
Nessun commento:
Posta un commento